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I Signori della Steppa

Ultimo Aggiornamento: 30/09/2011 18:41
08/09/2011 16:42
 
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vedrò di leggere al + presto, buon lavoro!
08/09/2011 20:44
 
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Grandioso !


19/09/2011 16:40
 
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La conclusione della guerra georgiana arrivò in un momento quanto mai propizio. Infatti nuove potenziali minacce richiedeva la piena attenzione del khan. A settentrione gli alleati rus erano impegnati in una feroce e selvaggia guerra con il regno di Polonia, che appariva più forte e determinato. Le sue armate si erano spinte in profondità nelle steppe, arrivando a strappare la roccaforte strategica di Turov e la città-simbolo di Kiev. Non era una situazione disperata, ma era chiaro che i Rus per ora stringevano i denti e reggevano come potevano, a sentire le spie in particolare nella regione di Polotesk.

Konchak, rientrato a Olese, vagliò attentamente coi propri consiglieri le varie opzioni, anche se tutti sapevano che alla fine decideva lui e solo lui. L’idea di un intervento armato a sostegno rus non era affatto sentita come un azzardo, tanto più che il possesso magiaro di Halych forniva un cuscinetto di sicurezza fra Polonia e Khanato. Così truppe vennero ammassate a Olese e Iaski, in particolare veloci unità di dreg, i temibili arcieri a cavallo kipchaq, da alcuni ritenuti l’elite stessa degli eserciti del khan.
Paradossalmente fu proprio il cuscinetto ungherese a costringere Konchak a rimandare l’intervento e, in definitiva, a lasciare che i rus se la sbrigassero da soli contro i polacchi.

La devota sposa di Konchak, Elisabetta, era la figlia maggiore di Geza II Arpad, sovrano d’Ungheria. Un re se vogliamo non eccezionale ma che aveva garantito alla sua nazione pace, crescita economica e qualche gloria militare, in particolare contro il principato di Halych. L’alleanza che aveva stretto coi Kipchaq – e di cui Elisabetta era stata il sigillo – si era rivelata proficua e sicura e, in assenza di eredi diretti, Geza era sempre più propenso a nominare suo successore il nipote Gza, già principe ereditario del khanato, per quanto ancora minorenne. Ma non tutti i grandi del regno condividevano questa visione e, anzi, intendevano evitare a tutti i costi che questo avvenisse. Principale oppositore era il fratello di Geza, Ladislao, pretendente al trono. Attorno a lui si andava radunando l’opposizione dei nobili, soprattutto appartenenti alle famiglie degli Arpad e dei Frangipan. La legittimità di Geza non veniva messa in discussione, ma il suo potere sì, tanto più che il grosso delle forze armate era comandato da uomini fedeli al principe.
Avendo risolto la questione georgiana, Konchak aveva come detto lo sguardo puntato a nord, sui polacchi; ma non per questo intendeva gettare alle ortiche l’eredità di suo figlio. Così incaricò un uomo di sua fiducia di fare una visita di cortesia al principe Ladislao, possibilmente senza essere notato e senza lasciare testimoni.

L’omicidio politico venne portato a termine con successo nell’inverno del 1182 nella città di Soli, dove Ladislao si era recato per portare dalla sua parte anche la famiglia serba dei Nemanja. Ma questo non risolse affatto il problema, anzi lo peggiorò: il figlio di Ladislao, Stefano, accusò apertamente il sovrano di aver fatto assassinare suo padre e, sull’onda dell’indignazione popolare, si fece riconoscere erede. Era una rivolta aperta, ma Geza non aveva abbastanza forza militare per contrastare Stefano, che si trovava in Transilvania con il fratello Bela e il potente Bartolomeo Frangipan, capo dell’omonima famiglia. Così al re magiaro, indebolito dagli eventi, non restò che chiedere soccorso al fido alleato kipchaq.
Konchak era già all’erta e la sua risposta arrivò presto. Appena lo scioglimento delle nevi lo rese possibile una spedizione di veloci e letali dreg venne inviata in Transilvania, col compito di mettere le mani sui tre capi dell’opposizione e invitarli colle cattive a sparire.

Stefano Arpad si aspettava però un intervento kipchaq e si mosse con abilità: riunì un’armata composta quasi totalmente da cavalieri, nella stragrande maggioranza piccoli nobili, e marciò contro il nemico. L’esercito kipchaq, affidato per l’occasione a un promettente comandante non di nobili origini, tale Bongek, evitò d’un soffio di cadere in un’imboscata che avrebbe avuto conseguenze letali; ma l’attacco magiaro costrinse i kipchaq a combattere in modo non ottimale, facendo più affidamento sulle sciabole che sugli archi.







Tuttavia la velocità giocò comunque un ruolo fondamentale e i dreg, che riuscivano a disimpegnarsi più facilmente, alla fine ebbero ragione del nemico. Stefano Arpad venne ucciso da un fendente di spada, Bartolomeo Frangipan venne trovato con il petto trapassato da molte frecce; Bela Arpad fu l’unico a lasciare vivo il campo di battaglia, ma le ferite riportate lo condussero alla tomba pochi giorni dopo. La vittoria fu molto dura per i kipchaq, tanto che solo la metà di quanti erano partiti rientraro ad Orsova per l’inverno; ma l’obbiettivo era stato centrato, il potere di Geza puntellato a dovere, l’eredità di Gza assicurata. Come ricompensa per la vittoria Bongek venne elevato al rango di piccolo nobile e insignito dell’Ispanato di Dubrodza.

Risolto il problema magiaro e ristabilita un’alleanza con Geza II, Konchak dovette occuparsi di un altro problema: un piccolo gruppo di giovano rampolli di casate nobiliari, insofferenti all’autorità del khan e tutti accomunati dall’idea che quel trono era stato occupato dalla stessa persona per fin troppo tempo. Senza contare che due di essi erano i figli di Kotian Terter-Oba, ovviamente non molto ben disposti nei confronti degli Osen.

Konchak non aveva alcuna intenzione di aspettare che raccogliessero consensi e si ribellassero apertamente, ma non voleva neppure farli giustiziare sui due piedi: Gza era vicino ai sedici anni e ogni sua mossa poteva ripercuotersi sulla stima di cui il figlio avrebbe goduto una volta salito al trono. Così decise di affidare a questo gruppo di riottosi una spedizione di simbolico aiuto ai Bizantini, con i quali aveva recentemente stipulato un’alleanza. Obbiettivo dell’impresa, la rocca di Trabzon, in mano turca da quando questi ultimi l’avevano strappata agli imbelli georgiani.

I nobili non si dimostrarono troppo entusiasti dell’onore loro concesso e, anzi, un paio tentarono di sottrarvisi appena possibile, optando per una ben poco nobile fuga. Ma furono velocemente riacciuffati e condannati all’esilio perpetuo. Furono caricati su una nave e sbarcati senza tante cerimonie sulle coste dell’isola di Lesbo, noto rifugio di pirati e contrabbandieri. Di loro non si seppe più nulla.

Chi invece rimase proseguì per la Chaldia, dove i bizantini inutilmente cercavano di scalzare i turchi da Trabzon. L’arrivo dei kipchaq mosse però la situazione e portò a uno scontro aperto nel corso del quale i nobili kipchaq si batterono con orgoglio e morirono da uomini, l’armata turca venne sconfitta da quella bizantina, ma riuscì a rinchiudersi nella rocca, e i capitani kipchaq, come da ordini del khan, assediarono e occuparono Trabzon. Che Konchak si guardò bene dal girare a Bisanzio, preferendo di gran lunga mantenerne il possesso.







Prima di proseguire la mia narrazione è bene che vada a introdurre una figura fondamentale per il khanato e anche per la mia vita, o lettore. Io mi presenterò a tempo debito, quando inizierà la mia parte attiva in questa storia, e per ora resterò ancora sotto silente anonimato. Chi invece esce dall’invisibilità della fanciullezza per prendere il suo posto nel mondo degli uomini è Gza Osen, figlio primogenito del khan e suo diretto erede.



Questo principe raggiunge i suoi sedici anni di vita in un momento apparentemente molto tranquillo della nostra storia – il khanato è alleato coi rus, i magiari e i bizantini, intrattiene rapporti amichevoli sia con venezia che con l’impero, domina sul vassallo georgiano ed è in guerra unicamente con quanto resta dei seljuk, limitati alla città di Darbend sul mar Caspio. Ma sono proprio i momenti di tranquillità che inducono a osservare meglio quel che ci circonda e a cogliere i pericoli che ci scrutano da dietro la linea dell’orizzonte.

Nel caso del khanato il pericolo era uno, e ben preciso. Lasciato in condizioni pietose dopo il trattato di Nikaia (1174), l’Impero Bizantino era fulgidamente risorto dalle proprie ceneri come l’araba fenice: con una serie di folgoranti campagne le armate di Bisanzio avevano letteralmente massacrato i Turchi di Rum, strappando loro in rapidissima successione la capitale Konya, la fortezza strategica di Kayseri, la città di Sivas. Coi propri domini spezzati in varie parti, i Turchi erano riusciti ad opporre una simbolica resistenza e in breve anche Amastris, Amasya, Angora, Malatya e Adana erano diventate terra di Bisanzio. Che, tutt’altro che paga, si era slanciata come un avvoltoio sui siriani in lenta agonia. Antakya era stata occupata nonostante la numerosa guarnigione e ora, nel 1188, gli occhi del basileus puntavano cupidi verso quelle terre d’Oriente su cui la bandiera di Bisanzio non garriva da secoli.



A contrastare la micidiale crescita romea non c’era nessuno. Il regno crociato, che con dure guerre aveva messo alle corde la Siria occupandone l’80% dei territori (Dimashq, Homs, Halab, Urfa, Dayr, Baghdad), viveva una fase di pericoloso declino, colpito com’era dall’offensiva egiziana. La Siria, che pure restava uno stato più di là che di qua, stava beneficiando di forti malcontenti fra Halab e Homs. E l’Egitto, infine, era sì in crescita, ma non certo in grado di competere a lungo termine con la potenza di Bisanzio.

Konchak era ormai anziano e doveva fare i conti con gli acciacchi dell’età. Ma la sua mente era pur sempre lucida e si rendeva conto che tutto quello che egli aveva ottenuto in un decennio di feroci combattimenti con Bisanzio si sarebbe rivelato vano se essi fossero riusciti a impadronirsi dell’intero Oriente. Nella sua ottica il regno crociato doveva essere aiutato quanto più possibile, in modo che potesse un’indomani opporsi efficacemente ai romei. Ma come aiutarlo, oltre che con cospicue donazioni pecuniarie?

La risposta la diede il sempre efficiente servizio di spionaggio, che poteva contare su diversi agenti in Terrasanta e Oriente. L’Egitto stava diventando una spina fin troppo pericolosa nel fianco crociato e, anzi, le armate islamiche avevano appena occupato nientemeno che Al-Quds. Ma anche la presenza siriana a Homs era quanto mai pericolosa. Il khan decise che era tempo che il suo khanato assumesse a livello internazionale quella posizione che egli gli aveva dato: decise così di inviare una possente spedizione per scacciare le armate siriane da Homs, che poi sarebbe stata restituita ai legittimi proprietari, i crociati. L’armata, affidata al comando di Kemenche Osen, salpò all’inizio della primavera 1189 da Selanik e fece vela per Antiocheia, da dove avrebbe proseguito via terra per Homs.

Ma le cose non andarono esattamente come erano state previste. Quando la flotta fece tappa all’isola di Cipro – possesso degli alleati bizantini – un informatore rivelò a Kemenche che le armate del basileus stavano già attaccando i siriani presso Homs e che difficilmente avrebbero apprezzato la comparsa di una spedizione kipchaq. Kemenche allora ordinò di fare vela più a sud, verso Acre e Jerusalem. Se non poteva aiutare i crociati colpendo la Siria allora li avrebbe aiutati colpendo l’Egitto.

Al Quds era per l’Egitto una regione di frontiera, da cui continue spedizioni venivano inviate a stuzzicare le guarnigione crociate a Acre e Dimashq. La comparsa di una grossa armata kipchaq colse alla sprovvista i buoni figli del Profeta, che nulla poterono fare per impedirne lo sbarco. Kemenche marciò rapido verso Al-Quds, ma a meno di un giorno di marcia trovò un esercito nemico ad attenderlo. Questo era nettamente in inferiorità numerica, ma era qualitativamente elevato, con un forte nucleo di faris, sia appiedati che a cavallo, spalleggiati da contingenti di arcieri mamelucchi in armatura pesante.







La battaglia che seguì fu cruenta, per quanto non lunga, e i kipchaq ebbero ragione del nemico in virtù dell’ottimo uso che Kemenche seppe fare della sua cavalleria, che riuscì a vincere sulle ali e a chiudere la tenaglia. Le perdite però furono ingenti, quasi un quarto dell’intero potenziale.
Ciò nonostante Kemenche Osen proseguì e pose l’assedio alla città, molto sguarnita. Intanto giunse notizia che una seconda spedizione kipchaq era sbarcata al delta del Nilo, presso la possente rocca di Dumyat, e si preparava ad assaltarne i bastioni.

Ma nell’ottobre 1189 la situazione subì un brusco cambiamento. Gli Egiziani avevano abbandonato tutte le campagne in corso contro i Crociati e stavano convergendo su Al-Quds, per liberarla dall’assedio. Le spie e gli esploratori riferirono di vaste concentrazioni di truppe professionali in marcia per la città, distinte in almeno quattro diverse armate e complessivamente superiori ai 35.000 uomini. Kemenche Osen aveva con sé non oltre 7.000 uomini, per di più scelti con in mente un assalto a una fortezza, non per sostenere battaglie campali contro forze soverchianti. Così, seppur con l’orgoglio ferito, diede ordine di levare l’assedio e di dirigersi verso la costa, per reimbarcarsi e raggiungere i compagni a Dumyat. Che nel frattempo era stata conquistata, comportando fra l’altro un cambio al vertice dell’Imanato egiziano.

19/09/2011 16:50
 
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bellissima cronaca (come sempre)!
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postremo dicas primus taceas
parla per ultimo, zittisci per primo




19/09/2011 17:34
 
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Grazie! [SM=g27963]

p.s. apprezzate sul serio i Bizantini, fanno paura, ma paura vera [SM=g27981] . E non si sono certo fermati, come vi mostrerò in seguito
20/09/2011 10:49
 
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L'hai ripresa eh [SM=g27963]

Bravo! [SM=x1140428]


20/09/2011 16:10
 
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bellissima, vogliamo gia il seguito! xP
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Bernhard Rothmann (Munster, 13 Gennaio 1534) :i vecchi credenti non vogliono permettere a nessuno di scegliere quale vita condurre, vogliono che voi lavoriate per loro e siate contenti della fede che vi consegnano i dottori. la loro è una fede di condanna, è la fede spacciataci dall'antiscristo! ma noi, fratelli, noi vogliamo redenzione! noi vogliamo libertà e giustizia per tutti! noi vogliamo leggere liberamente la parola del signore e liberamente scegliere chi deve parlarci dal pulpito e chi rappresentarci in consiglio! chi infatti decideva i destini della città prima che lo scacciassimo a pedate? il vescovo. e chi decide ora? i ricchi, i notabili borghigiani, illustri ammiratori di lutero solo perchè la sua dottrina consente loro di resistere al vescovo! e voi, fratelli e sorelle, voi che fate vivere questa città, non potete mettere parola nelle loro sentenze. voi dovete soltanto ubbidire, come sbraita lo stesso lutero dalla sua tana principesca.i vecchi credenti vengono a dirci che i buoni cristiani non possono occuparsi del mondo, che devono coltivare la loro fede in privato, seguitando a subire in silenzio i soprusi, perchè tutti siamo peccatori condannati a espiare. ma il tempo è giunto! i potenti della terra saranno spodestati, i loro scrani cadranno, per mano del signore. cristo non viene a portarci la pace, ma la spada. le porte sono ora aperte per coloro che sapranno osare. se penseranno di schiacciarci con un colpo di spada, con la spada pareremo quel colpo per restituirne cento!!!
23/09/2011 16:14
 
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Mentre Kemenche Osen portava avanti la guerra contro l’Egitto, anche le lande che si affacciavano sul mar Caspio erano teatro di continui scontri. La città di Darbend era l’unico possesso rimasto alla dinastia selgiuchide (se si escludeva un isolato castelletto che si affacciava sull’alto Eufrate, a nord di Urfa) e i turchi intendevano mantenere una parvenza di potere. Un desiderio che però si andava a scontrare con la ferma volontà dei kipchaq di non avere rivali nelle steppe e nel Caucaso. Per forza di cose queste opposte idee condussero a un conflitto di confine abbastanza snervante per entrambe le parti.

La situazione, affidata inizialmente al principe reggente Zeyhan, cominciò a cambiare sensibilmente quanto a Maghas giunse il diciassettenne Gza Osen, inviato da suo padre per farsi esperienza e nomea contro i non troppo complicati avversari turchi.



Il giovane principe si mise immediatamente all’opera per chiudere il più rapidamente possibile la questione e radunò un vasto esercito, composto principalmente da khazari – sia lancieri che cavalieri – e peceneghi, con in aggiunta un corpo di arcieri d’elite. Assieme a Zeyhan lasciò la rocca di Maghas a autunno inoltrato, marciando verso Darbend. Il tempo, piuttosto inclemente quell’anno, trasformò in breve la marcia in una lenta e faticosa avanzata, con gli uomini che lottavano per sottrarsi alla morsa delle neve e un gelido vento settentrionale che penetrava nelle ossa; ma impedì anche al nemico, meno abituato, di trovare rifugio dietro le mura di Darbend.

Le prime avvisaglie di truppe turche vennero avvistate all’inizio di novembre. Ci furono alcune inevitabili e insignificanti schermaglie fra esploratori, ma un peggioramento del clima parve precludere la possibilità di uno scontro campale. Accampati a poche miglia gli uni dagli altri, i due eserciti erano più preoccupati di sopravvivere al gelo che di scannarsi.
Ma Gza Osen era fermamente intenzionato a raccogliere il suo primo alloro e decise di osare. Lasciò nell’accampamento gli squadroni di peceneghi e, nottetempo, condusse l’intera armata a un miglio e mezzo di distanza circa, verso nord, al riparo dietro alcune colline.
La mattina seguente apportò una significativa: l’ira di Tengri si era placata e il cielo sereno era occupato da un pallido sole. Ma soprattutto mostrò ai Turchi che l’accampamento nemico era apparentemente sguarnito. Così il comandante, un rinnegato romeo dall’altisonante nome di Ionannis Komnenos Akalay, inviò pattuglie a indagare. Queste si imbatterono nei peceneghi, che non poterono però, per quanto si prodigassero, impedire al nemico di notare quanti pochi essi fossero; così l’Akalay ordinò all’intera armata di avanzare e schiacciare il nemico. Gettandosi, ovviamente, in trappola.

Infatti i lancieri khazari di Gza, fino a quel momento accuratamente nascosti dalle colline, cominciarono ad apparire sulla cime delle stesse, formando una linea lunga e luccicante di punte d’acciaio.



Alle spalle delle quali gli arcieri pesanti presero posizione per bersagliare con mortifera precisione il nemico.



In breve i Turchi si trovarono tartassati da più lati e senza molte vie d’uscita: una carica frontale si infranse contro i lancieri e non sortì altro effetto che quello di decimare la cavalleria selgiuchide.



A questo punto Gza diede il colpo di grazia ordinando ai cavalieri khazari di caricare sul fianco esposto del nemico, che semplicemente si dissolse. L’Akalay venne ucciso durante il saccheggio del campo nemico, i prigionieri ammucchiati in recinti di fortuna e un messo inviato a Darbend per chiedere un riscatto. Che, stranamente, venne pagato. Gza Osen, pur sorpreso, accettò quanto accaduto e lasciò liberi i prigionieri. Poi, giacché la stagione era ormai troppo tarda per proseguire, rientrò a Maghas preceduto dall’eco della vittoria.

Non appena l’inverno diede tregua – ma le steppe erano ancora coperte di brina – Gza Osen e Zeyhan si rimisero in marcia, questa volta decisi più che mai a porre fine al possesso selgiuchide di Darbend. Ovviamente i turchi, pur in situazione disperata, non volevano lasciarsi sopraffare senza combattere e avevano occupato i mesi invernali reclutando truppe in ogni dove. Questi soldati furono praticamente mandati allo sbaraglio contro l’esercito professionale kipchaq, ma nel corso di una delle tante scaramucce riuscirono a ferire mortalmente il principe Zeyhan, che si spense dopo un’agonia durata diversi giorni. Questo di per sé non avrebbe fermato Gza, ma da occidente arrivarono notizie che indussero il principe del casato Osen a tentare la via diplomatica. La cosa venne accolta con sommo sollievo dai turchi, che ben volentieri accettarono di vassallarsi ai kipchaq in cambio della sopravvivenza e del potere locale.



Nella primavera del 1190 Geza II Arpad, ormai ultrasessantenne, era caduto malato e, per quanto i suoi medici si fossero prodigati, appariva evidente che al sovrano ungherese non restava molto tempo. La questione ereditaria, che pareva essersi chetata dopo la morte di Stefano Arpad alcuni anni prima, riesplose potentemente nell’ottobre, subito dopo i funerali in grande stile del sovrano. Laszlo Nemanja, potente capo dell’omonima famiglia, aveva al tempo della rivolta nobiliare mantenuto posizioni neutrali, senza mischiarsi coi congiurati; ma ora scese in campo, rivelando il suo vero piano e arrogandosi la corona. Questo andava contro le ultime volontà di Geza II, ma il grosso della nobiltà magiara non vedeva di buon occhio un kipchaq come sovrano – rozzi barbari, niente di più – e accolse le pretese di Nemanja come il male minore.



Ovviamente gli eventi di Pest vennero visti in maniera molto diversa alla corte di Olese. La politica matrimoniale e non solo di Konchak aveva lavorato per assicurare una successione indolore e un’eredità certa, tutte cose che adesso stavano sfumando come neve al sole. In più il khan, più giovane di Geza II solo di pochi mesi, era a sua volta malato irrimediabilmente e il suo giudizio offuscato da un accenno di demenza senile. Al punto che non colse la possibilità di stringere viepiù i legami cogli alleati rus quando alla sua corte arrivò in visita diplomatica la giovane principessa Chemislava Yurievich.

Rientrato velocemente dalle lande alane, Gza Osen si rese ben presto conto che doveva assumersi in pieno l’onere del governo e il compito di andare a prendersi con le cattive quell’eredità che la diplomazia non era riuscita a dargli. Però il regno d’Ungheria non era un boccone semplicissimo, aveva armate anche potenti e avrebbe combattuto sul proprio terreno: si trattava quindi di iniziare le operazioni solo quando si fosse stati veramente pronti. Così, quando nella primavera del 1191 Konchak Osen il Conquistatore si spense a Iaski Torg, il primo atto ufficiale di Gza fu quello di inviare una lettera personale all’usurpatore magiaro con parole di pace e amicizia, pur senza riconoscere in modo ufficiale la sua legittimità al trono.

Messo quantomeno nell’incertezza il nemico, bisognava ora preparare le truppe e risolvere alcune questioni che non potevano restare aperte, prima fra tutte la situazione africana. Kemenche Osen, dopo aver raggiunto Dumyat ed essersi unito alle truppe ivi presenti, aveva deciso di proseguire la campagna e aveva attaccato e conquistato la città di al-Iskandariya, commercialmente rilevante.



La situazione però restava delicata e gli accadimenti nei Balcani richiedevano che i fondi del khanato fossero direzionati altrove. Così Gza Osen richiamò in patria tutte le truppe inviate in Africa, concedendo i territori occupati al vassallo turco e arrangiando una tregua con l’imanato fatimide.

In attesa che i veterani d'Africa facessero ritorno, Gza si dedicò a faccende di ben altra natura. Se suo padre, nella sua vecchiaia, non aveva capito, egli invece comprese benissimo quanto potesse essere interessante la principessa Chemislava. E non si trattava di puro interesse politico, anzi; la giovane rus aveva argomenti che mettevano le faccende diplomatiche ben più che in secondo piano. In breve la relazione sfociò in un matrimonio che rinforzò l’alleanza fra kipchaq e rus, assicurando ai primi che le terre magiare non sarebbero state concupite dai secondi, che a loro volta ottennero di regolare i polacchi per conto proprio.

Frattanto Kemenche Osen era finalmente rientrato e le truppe di veterani equamente divise fra le rocche di Ras (sotto il comando di Kemenche) e Orsova (sotto il comando di Sharukan, conquistatore di Dumyat). Una terza armata era stata radunata a Iaski Torg, sotto il comando dello stesso khan, che raggiunse le sue truppe all’inizio della primavera 1193, lasciando a Olese la moglie in dolce attesa.
A questo punto un sicario, inviato a occuparsi dell’usurpatore magiaro, venne scoperto mentre preparava un attentato al re in quel di Soli: torturato, cedette e rivelò il nome del mandante, provocando ovviamente un’ondata di sdegno nel regno magiaro, la rottura di ogni relazione coi kipchaq e, dulcis in fundo, un raffreddamento fino a temperature glaciali dei rapporti con l’Imperatore tedesco, alleato dei magiari. Ma ormai i kipchaq erano pronti alla guerra.



Sebbene gli eventi di quella che è passata alla storia come “la guerra di successione magiara” si siano svolti su un fronte che si snoda dalla Moldavia fino alla Bosnia e vi siano stati combattimenti – come vedremo – anche altrove, lo scontro decisivo avvenne nell’autunno 1193 presso la fortezza di confine di Plâieçu, nei Carpazi orientali.



Allo scoppio delle ostilità Gza Osen mosse dalla rocca di Iaski Torg con un vasto esercito, composto da truppe professioniste e ben equipaggiate. Marciavano in esso battaglioni di lancieri kankali, compagnie di arcieri pesanti e di guardie bulgare, squadroni di cavalieri peceneghi e di tiratori delle aree orientali, reggimenti di cavalleria pesante. Più lo squadrone personale di Gza e un reggimento delle temibili guardie del khan, cavalleria corazzata altamente addestrata e disposta a tutto pur di difendere l’onore del loro signore.

Presentendo che poteva rivelarsi un punto nevralgico, Laszlo Nemanja aveva affidato la difesa dell’area al suo miglior generale, Oremus Vak. Questo nobile, da sempre legato alla casata Nemanja, era assurto a posizioni di potere con l’ascesa al trono del suo signore e era deciso a fare tutto quello che poteva per non cadere di sella. A sua disposizione aveva un’armata di complicata gestione, composta da un lato da truppe non professioniste, principalmente miliziani scarsamente equipaggiati e, soprattutto, dal morale basso; dall’altra disponeva della miglior cavalleria possibile, tre squadroni di pesante cavalleria nobiliare accompagnata da un altro squadrone di piccoli nobili locali.

L’avanzata di Gza Osen non colse impreparato Oremus Vak; ma questi non riuscì a reagire adeguatamente alla velocità con cui il khan marciò nei Carpazi. Il generale magiaro si vide così costretto a ripiegare sulla fortezza confinaria di Plâieçu, inviando al contempo richiesta di rinforzi per poter efficacemente contrastare la minaccia.



Ma i rinforzi non sarebbero arrivati e le notizie che giunsero da occidente ne diedero rapida conferma a Vak che, dunque, si vide costretto a tentare la sorte con quanto aveva.
Che comunque non era poco. Quando venne avvisato che il nemico tentava una sortita, Gza Osen si recò immediatamente a studiare la situazione per scegliere quali contromosse adottare. La rocca si trovava in una posizione strategica notevole, su un’altura che dominava completamente il valico dei Carpazi fra Transilvania e Moldavia. Il nemico quindi sarebbe sceso nella piana antistante per combattere, una cosa che avrebbe dato ancora maggior slancio alla carica della cavalleria magiara, che il khan non si permetteva di sottovalutare. Decise pertanto di disporre tutti gli arcieri a sua disposizione alle spalle della compatta linea dei kankali, lasciando i soli peceneghi a svariare larghi sull’ala sinistra. La cavalleria, per contro, venne disposta sulle due ali, a destra quella cumana, a sinistra la Guardia e il suo personale corpo.



Dalla sua posizione rialzata Oremus Vak osservò con aria pensosa l’armata kipchaq che si disponeva. Sapeva bene che la sua fanteria non sarebbe mai stata in grado di sfondare la linea nemica, erano solamente milizie. Tuttavia riteneva di avere delle possibilità, soprattutto grazie alla sua cavalleria pesante. Perciò la concentrò tutta all’ala destra e ne prese il comando, ordinando al contempo agli ufficiali di fanteria di avanzare e impegnare l’intera linea avversaria. Quindi si rizzò in sella, spada in pugno, fissò per un lungo istante i suoi soldati e ordinò l’avanzata.

Gza Osen vide il nemico mettersi in marcia. Non era la sua prima battaglia campale, ma i turchi che arrancavano nella neve delle pianure alane non facevano quell’impressione, non davano quel senso di sicurezza letale che quei cavalieri in armatura pesante trasmettevano, coi vessilli purpurei che garrivano al vento sotto un cielo coperto da nuvole cineree. Alla sua destra, alle spalle dei kankali, i primi arcieri cominciavano a tendere gli archi e a far volare le frecce verso il nemico. Più avanti i peceneghi stavano provando a infastidire l’avanzata della cavalleria, ma dovevano continuare a muoversi per non cadere preda di mischie a senso unico.
Il suo attendente, che gli cavalcava a fianco reggendo lo stendardo reale, diede un leggero colpo di tosse, quel tanto che bastava a far capire al suo signore che era tempo di dare qualche genere di ordine. Gza si concentrò: la cavalleria nemica stava risolutamente puntando verso di lui e chiaramente il piano di Vak era di riuscire a ucciderlo, per generare un effetto domino rovinoso. Se i magiari fossero riusciti a prenderli in piena carica la situazione sarebbe rapidamente volta al peggio, e Gza non poteva permetterselo.

Fece appena un cenno al comandante della Guardia, che comprese. I corni suonarono, i vessilli vennero sciolti e catturati dal vento, una sorta di irreale silenzio calò sul campo di battaglia – dove pure già si combatteva fra lancieri e le frecce continuavano a sibilare – mentre la Guardia cominciava a muoversi e a prendere inarrestabile velocità. Poi, lanciando alto il loro grido di guerra – “Per il Khan!” – la Guardia si lanciò, autentico muro d’acciaio, alla carica.



I cavalieri magiari provarono a loro volta a reagire caricando, ma solo pochi di essi avevano già acquisito la necessaria velocità e vennero presi in pieno dall’attacco kipchaq. Le lance della Guardia infransero scudi e corazze, sfondando petti di uomini e cavalli, aprendo pericolose voragini nei ranghi avversari. Tuttavia i magiari erano combattenti di razza e non si arresero certo per così poco: abbandonate le lance, inutili in mischia, misero mano alle spade e ben presto si scatenò un turbinio di lame e mazze che si alzavano e abbassavano, fra urla, schizzi di sangue e nitriti.

Gza intanto si era spostato in posizione più laterale e ora si lanciò a propria volta alla carica per portare sostegno alla Guardia, che combatteva in un rapporto sfavorevole 4 a 1. Il suo intervento costrinse anche Vak a inserirsi nella mischia, accentuando la bolgia infernale.



Tanto che in breve i cavalieri magiari furono in grado di costringere alla mischia parte degli arcieri a cavallo mongoli, che fino ad allora operavano alle spalle dei kankali.



Il loro forzato intervento permise però alla Guardia di ritirarsi, risistemarsi in posizione e tornare alla carica, rinnovando il massacro. Anche Gza dovette a un certo punto lasciare la pugna, ferito da un colpo di spada; ma a nulla valsero i tentativi dei suoi attendenti di farlo allontanare oltre perché si curasse; il khan si fasciò rapidamente la ferita, reimpugnò la sciabola e tornò a dare di sprone, di nuovo nella breccia.

Se è vero che ambo gli schieramenti compirono atti di grande valore in quella mischia, è altresì vero che Oremus Vak non riuscì a ottenere quello che si rea prefissato, il khan nella polvere, morto. E questo non poteva non pagarlo, non quando la sua ala sinistra praticamente non esisteva e la sua fanteria era dunque pericolosamente esposta.
E fu proprio da lì che arrivò la tempesta che i magiari non potevano né evitare né fermare.



Come fiamma inarrestabile i cavalieri cumani irruppero nello schieramento di fanteria magiara e lo consumarono, lasciando al vento il compito di spazzare via le ceneri del loro incendio.



Proseguendo nella loro cavalcata verso la gloria, demolirono le compagnie di arcieri e infine andarono a colpire le terga della cavalleria magiara, ormai così duramente provata. Che, nonostante orgoglio, coraggio e valore, non aveva più energia fisica e mentale per reggere un simile attacco. Il definitivo colpo di grazia arrivò per mano di un cavaliere, la cui lancia trafisse Oremus Vak mentre si ritirava.





Il sole, che per la verità non si era mai molto mostrato, tramontò infine su una giornata gloriosa per il khanato, orrida per l’Ungheria, decisiva per le sorti del conflitto. Il computo totale delle perdite rivelò che a fronte di 1.400 kipchaq rimasti sul terreno erano stati uccisi/catturati qualcosa come 9.500 magiari, un divario enorme tanto più che quasi l’80% delle perdite kipchaq si erano verificate fra quelle unità che avevano combattuto contro la cavalleria nemica. La notizia del trionfo volò di città in città e di villaggio in villaggio, così come il coraggio leonino dimostrato dal khan, che sempre più veniva acclamato come Gza l’Eroe.

23/09/2011 16:30
 
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Grande aggiornamento frederick!!
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postremo dicas primus taceas
parla per ultimo, zittisci per primo




23/09/2011 16:47
 
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24/09/2011 21:26
 
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Bravo Fred! [SM=g27960]
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Re:
fred richiesta per te ma in realtà rivolta un pò a tutti gli autori d AAR molto lunghe :)
potreste mettere le immagini, almeno quelle delle battaglie e mno importanti, sotto forma d spoiler? cosi nn ci metto ore a caricare la pag :)




25/09/2011 16:09
 
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A parte il fatto che ci metteei parecchio ogni volta, come si fa? [SM=g27965]
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Re:
frederick the great, 25/09/2011 16.09:

A parte il fatto che ci metteei parecchio ogni volta, come si fa? [SM=g27965]




nn per tutte per quelle poco importanti... [SM=g27963] semplicissimo
[SPOILER ] [IMG]asdgf[/IMG] [/ SPOILER]

senza spazio
Testo nascosto - clicca qui
[Modificato da Pico total war 25/09/2011 16:29]




25/09/2011 17:27
 
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Ok, vedrò di ricordarmelo
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bravissimo, aggiornamento stupendo!
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Bernhard Rothmann (Munster, 13 Gennaio 1534) :i vecchi credenti non vogliono permettere a nessuno di scegliere quale vita condurre, vogliono che voi lavoriate per loro e siate contenti della fede che vi consegnano i dottori. la loro è una fede di condanna, è la fede spacciataci dall'antiscristo! ma noi, fratelli, noi vogliamo redenzione! noi vogliamo libertà e giustizia per tutti! noi vogliamo leggere liberamente la parola del signore e liberamente scegliere chi deve parlarci dal pulpito e chi rappresentarci in consiglio! chi infatti decideva i destini della città prima che lo scacciassimo a pedate? il vescovo. e chi decide ora? i ricchi, i notabili borghigiani, illustri ammiratori di lutero solo perchè la sua dottrina consente loro di resistere al vescovo! e voi, fratelli e sorelle, voi che fate vivere questa città, non potete mettere parola nelle loro sentenze. voi dovete soltanto ubbidire, come sbraita lo stesso lutero dalla sua tana principesca.i vecchi credenti vengono a dirci che i buoni cristiani non possono occuparsi del mondo, che devono coltivare la loro fede in privato, seguitando a subire in silenzio i soprusi, perchè tutti siamo peccatori condannati a espiare. ma il tempo è giunto! i potenti della terra saranno spodestati, i loro scrani cadranno, per mano del signore. cristo non viene a portarci la pace, ma la spada. le porte sono ora aperte per coloro che sapranno osare. se penseranno di schiacciarci con un colpo di spada, con la spada pareremo quel colpo per restituirne cento!!!
30/09/2011 14:38
 
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Mentre a Plâieçu si giocava la partita decisiva, le altre due colonne kipchaq non erano state a girarsi i pollici. Kemenche Osen aveva lasciato Ras coi veterani d’Egitto, ma le condizioni invernali particolarmente crude ne avevano rallentato molto l’avanzata verso Soli; Sharukan il Cavalleresco per contro era facilmente arrivato sotto Arad, che però rappresentava un ostacolo non comune: alti e spessi muraglioni di pietra bloccavano il passo e, soprattutto, le vie di comunicazione con Orsova, sconsigliando quindi l’idea di un’ulteriore avanzata senza conquistare la fortezza.



Informato dalle spie che a nord i magiari disponeva di concentrazioni non indifferenti di uomini, Sharukan decise che non poteva rischiare un assedio per fame, dando tempo al nemico di concentrarsi; per cui optò per l’assalto. Nottetempo inviò un informatore in Arad, perché cercasse di aprire le porte della rocca al momento opportuno. Questi lavorò bene e, benché scoperto a un certo punto da un paio di guardie – che non videro nemmeno l’inizio dell’assalto – riuscì nell’impresa.
I magiari vennero svegliati di soprassalto all’alba dalle campane dell’allarme e le compagnie di arcieri e fanti si precipitarono verso le mura per occupare i bastioni; ma arrivarono appena in tempo per dare vita a una mischia furibonda proprio sotto le spesse torri che circondavano la porta, da cui un torrente inestinguibile di guerrieri kipchaq continuava a entrare.



In breve i soldati cumani si crearono una solida testa di ponte, respingendo passo dopo passo indietro i nemici, che pure combattevano con la forza della disperazione; e intanto altri contingenti occupavano le vie laterali e i bastioni soprastanti.
Il governatore magiaro si vide costretto a far intervenire la cavalleria, cercando soprattutto di spezzare i raggruppamenti laterali;





ma i kipchaq ressero e lentamente la bilancia dello scontro andò sempre più verso un verdetto di condanna per i difensori. Quando anche gli arcieri a cavallo poterono entrare e bersagliare indisturbati i ranghi nemici il destino di Arad fu segnato.



Ci vollero comunque un altro paio d’ore prima che le ultime sacche di resistenza cedessero e anche il maschio venisse ripulito dai difensori più fanatici.



La conquista di Arad fu un successo luminoso, anche se la sua luce venne presto offuscata totalmente dal trionfo di Gza a Plâieçu. Inoltre le forti concentrazioni di truppe al nord erano in realtà torme di milizie, i cui comandanti si rifiutavano di guidarle verso una fine tanto certa quanto ingloriosa. Sharukan poté così lasciare un presidio ad Arad e avanzare indisturbato fino a Pecs, che venne rapidamente occupata all’inizio del 1194. Anno in cui, finalmente, Kemenche Osen poté sferrare il suo attacco su Soli. La città, debolmente difesa, oppose una resistenza più che altro simbolica e la popolazione restò nelle proprie case, mostrando chiaramente come ormai fosse distante dal proprio sovrano, quel Laszlo Nemanja che aveva a tutti i costi voluto arrogarsi una corona non sua e che pagò il suo desiderio di potenza proprio a Soli, trafitto da una lancia nel corso della resistenza finale.





Chi scelse di non sottomettersi venne giustiziato immediatamente.

Testo nascosto - clicca qui


La morte dell’usurpatore lasciò il regno d’Ungheria privo di un vero capo e teoricamente alla totale mercé del vincitore. Ma Gza Osen, che pure aveva tutti i diritti di reclamare la corona per sé, ebbe l’accortezza e l’intelligenza di guardare oltre quel conflitto. A sud Bisanzio era sempre più attiva e potente e una situazione delicata si prospettava nel Caucaso; anche a settentrione, per quanto i rus stessero finalmente prendendo il sopravvento sui polacchi, la situazione rimaneva fluida e da sorvegliare. Uccidere e inglobare il reame magiaro avrebbe aggiunto terre al khanato, ma avrebbe altresì aggiunto frontiere da difendere, confini con realtà con cui non esistevano accordi e alleanze. Soprattutto avrebbe dato una frontiera con il Sacro Romano Impero Germanico, il più potente stato d’Europa, che si estendeva dall’Oder fino alla Senna, dalle pianure italiane al mare del Nord. Era un vicino scomodo che Gza non voleva, non per ora almeno. Quindi inviò il suo miglior diplomatico a trattare coi magiari, per spiegare loro col guanto di velluto a celare il pugno di ferro che la sua soluzione era l’unica realmente praticabile e la migliore per entrambe le parti.
E l’orgoglio magiaro capì che o si inchinava o non avrebbe avuto un futuro. Nel 1195 a Pest venne siglato un trattato di vassallaggio, che poneva l’Ungheria sotto la protezione e il volere del khan; che dal canto suo ottenne quello stato-cuscinetto che desiderava.


30/09/2011 15:40
 
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