Mentre Kemenche Osen portava avanti la guerra contro l’Egitto, anche le lande che si affacciavano sul mar Caspio erano teatro di continui scontri. La città di Darbend era l’unico possesso rimasto alla dinastia selgiuchide (se si escludeva un isolato castelletto che si affacciava sull’alto Eufrate, a nord di Urfa) e i turchi intendevano mantenere una parvenza di potere. Un desiderio che però si andava a scontrare con la ferma volontà dei kipchaq di non avere rivali nelle steppe e nel Caucaso. Per forza di cose queste opposte idee condussero a un conflitto di confine abbastanza snervante per entrambe le parti.
La situazione, affidata inizialmente al principe reggente Zeyhan, cominciò a cambiare sensibilmente quanto a Maghas giunse il diciassettenne Gza Osen, inviato da suo padre per farsi esperienza e nomea contro i non troppo complicati avversari turchi.
Il giovane principe si mise immediatamente all’opera per chiudere il più rapidamente possibile la questione e radunò un vasto esercito, composto principalmente da khazari – sia lancieri che cavalieri – e peceneghi, con in aggiunta un corpo di arcieri d’elite. Assieme a Zeyhan lasciò la rocca di Maghas a autunno inoltrato, marciando verso Darbend. Il tempo, piuttosto inclemente quell’anno, trasformò in breve la marcia in una lenta e faticosa avanzata, con gli uomini che lottavano per sottrarsi alla morsa delle neve e un gelido vento settentrionale che penetrava nelle ossa; ma impedì anche al nemico, meno abituato, di trovare rifugio dietro le mura di Darbend.
Le prime avvisaglie di truppe turche vennero avvistate all’inizio di novembre. Ci furono alcune inevitabili e insignificanti schermaglie fra esploratori, ma un peggioramento del clima parve precludere la possibilità di uno scontro campale. Accampati a poche miglia gli uni dagli altri, i due eserciti erano più preoccupati di sopravvivere al gelo che di scannarsi.
Ma Gza Osen era fermamente intenzionato a raccogliere il suo primo alloro e decise di osare. Lasciò nell’accampamento gli squadroni di peceneghi e, nottetempo, condusse l’intera armata a un miglio e mezzo di distanza circa, verso nord, al riparo dietro alcune colline.
La mattina seguente apportò una significativa: l’ira di Tengri si era placata e il cielo sereno era occupato da un pallido sole. Ma soprattutto mostrò ai Turchi che l’accampamento nemico era apparentemente sguarnito. Così il comandante, un rinnegato romeo dall’altisonante nome di Ionannis Komnenos Akalay, inviò pattuglie a indagare. Queste si imbatterono nei peceneghi, che non poterono però, per quanto si prodigassero, impedire al nemico di notare quanti pochi essi fossero; così l’Akalay ordinò all’intera armata di avanzare e schiacciare il nemico. Gettandosi, ovviamente, in trappola.
Infatti i lancieri khazari di Gza, fino a quel momento accuratamente nascosti dalle colline, cominciarono ad apparire sulla cime delle stesse, formando una linea lunga e luccicante di punte d’acciaio.
Alle spalle delle quali gli arcieri pesanti presero posizione per bersagliare con mortifera precisione il nemico.
In breve i Turchi si trovarono tartassati da più lati e senza molte vie d’uscita: una carica frontale si infranse contro i lancieri e non sortì altro effetto che quello di decimare la cavalleria selgiuchide.
A questo punto Gza diede il colpo di grazia ordinando ai cavalieri khazari di caricare sul fianco esposto del nemico, che semplicemente si dissolse. L’Akalay venne ucciso durante il saccheggio del campo nemico, i prigionieri ammucchiati in recinti di fortuna e un messo inviato a Darbend per chiedere un riscatto. Che, stranamente, venne pagato. Gza Osen, pur sorpreso, accettò quanto accaduto e lasciò liberi i prigionieri. Poi, giacché la stagione era ormai troppo tarda per proseguire, rientrò a Maghas preceduto dall’eco della vittoria.
Non appena l’inverno diede tregua – ma le steppe erano ancora coperte di brina – Gza Osen e Zeyhan si rimisero in marcia, questa volta decisi più che mai a porre fine al possesso selgiuchide di Darbend. Ovviamente i turchi, pur in situazione disperata, non volevano lasciarsi sopraffare senza combattere e avevano occupato i mesi invernali reclutando truppe in ogni dove. Questi soldati furono praticamente mandati allo sbaraglio contro l’esercito professionale kipchaq, ma nel corso di una delle tante scaramucce riuscirono a ferire mortalmente il principe Zeyhan, che si spense dopo un’agonia durata diversi giorni. Questo di per sé non avrebbe fermato Gza, ma da occidente arrivarono notizie che indussero il principe del casato Osen a tentare la via diplomatica. La cosa venne accolta con sommo sollievo dai turchi, che ben volentieri accettarono di vassallarsi ai kipchaq in cambio della sopravvivenza e del potere locale.
Nella primavera del 1190 Geza II Arpad, ormai ultrasessantenne, era caduto malato e, per quanto i suoi medici si fossero prodigati, appariva evidente che al sovrano ungherese non restava molto tempo. La questione ereditaria, che pareva essersi chetata dopo la morte di Stefano Arpad alcuni anni prima, riesplose potentemente nell’ottobre, subito dopo i funerali in grande stile del sovrano. Laszlo Nemanja, potente capo dell’omonima famiglia, aveva al tempo della rivolta nobiliare mantenuto posizioni neutrali, senza mischiarsi coi congiurati; ma ora scese in campo, rivelando il suo vero piano e arrogandosi la corona. Questo andava contro le ultime volontà di Geza II, ma il grosso della nobiltà magiara non vedeva di buon occhio un kipchaq come sovrano – rozzi barbari, niente di più – e accolse le pretese di Nemanja come il male minore.
Ovviamente gli eventi di Pest vennero visti in maniera molto diversa alla corte di Olese. La politica matrimoniale e non solo di Konchak aveva lavorato per assicurare una successione indolore e un’eredità certa, tutte cose che adesso stavano sfumando come neve al sole. In più il khan, più giovane di Geza II solo di pochi mesi, era a sua volta malato irrimediabilmente e il suo giudizio offuscato da un accenno di demenza senile. Al punto che non colse la possibilità di stringere viepiù i legami cogli alleati rus quando alla sua corte arrivò in visita diplomatica la giovane principessa Chemislava Yurievich.
Rientrato velocemente dalle lande alane, Gza Osen si rese ben presto conto che doveva assumersi in pieno l’onere del governo e il compito di andare a prendersi con le cattive quell’eredità che la diplomazia non era riuscita a dargli. Però il regno d’Ungheria non era un boccone semplicissimo, aveva armate anche potenti e avrebbe combattuto sul proprio terreno: si trattava quindi di iniziare le operazioni solo quando si fosse stati veramente pronti. Così, quando nella primavera del 1191 Konchak Osen il Conquistatore si spense a Iaski Torg, il primo atto ufficiale di Gza fu quello di inviare una lettera personale all’usurpatore magiaro con parole di pace e amicizia, pur senza riconoscere in modo ufficiale la sua legittimità al trono.
Messo quantomeno nell’incertezza il nemico, bisognava ora preparare le truppe e risolvere alcune questioni che non potevano restare aperte, prima fra tutte la situazione africana. Kemenche Osen, dopo aver raggiunto Dumyat ed essersi unito alle truppe ivi presenti, aveva deciso di proseguire la campagna e aveva attaccato e conquistato la città di al-Iskandariya, commercialmente rilevante.
La situazione però restava delicata e gli accadimenti nei Balcani richiedevano che i fondi del khanato fossero direzionati altrove. Così Gza Osen richiamò in patria tutte le truppe inviate in Africa, concedendo i territori occupati al vassallo turco e arrangiando una tregua con l’imanato fatimide.
In attesa che i veterani d'Africa facessero ritorno, Gza si dedicò a faccende di ben altra natura. Se suo padre, nella sua vecchiaia, non aveva capito, egli invece comprese benissimo quanto potesse essere interessante la principessa Chemislava. E non si trattava di puro interesse politico, anzi; la giovane rus aveva argomenti che mettevano le faccende diplomatiche ben più che in secondo piano. In breve la relazione sfociò in un matrimonio che rinforzò l’alleanza fra kipchaq e rus, assicurando ai primi che le terre magiare non sarebbero state concupite dai secondi, che a loro volta ottennero di regolare i polacchi per conto proprio.
Frattanto Kemenche Osen era finalmente rientrato e le truppe di veterani equamente divise fra le rocche di Ras (sotto il comando di Kemenche) e Orsova (sotto il comando di Sharukan, conquistatore di Dumyat). Una terza armata era stata radunata a Iaski Torg, sotto il comando dello stesso khan, che raggiunse le sue truppe all’inizio della primavera 1193, lasciando a Olese la moglie in dolce attesa.
A questo punto un sicario, inviato a occuparsi dell’usurpatore magiaro, venne scoperto mentre preparava un attentato al re in quel di Soli: torturato, cedette e rivelò il nome del mandante, provocando ovviamente un’ondata di sdegno nel regno magiaro, la rottura di ogni relazione coi kipchaq e, dulcis in fundo, un raffreddamento fino a temperature glaciali dei rapporti con l’Imperatore tedesco, alleato dei magiari. Ma ormai i kipchaq erano pronti alla guerra.
Sebbene gli eventi di quella che è passata alla storia come “la guerra di successione magiara” si siano svolti su un fronte che si snoda dalla Moldavia fino alla Bosnia e vi siano stati combattimenti – come vedremo – anche altrove, lo scontro decisivo avvenne nell’autunno 1193 presso la fortezza di confine di Plâieçu, nei Carpazi orientali.
Allo scoppio delle ostilità Gza Osen mosse dalla rocca di Iaski Torg con un vasto esercito, composto da truppe professioniste e ben equipaggiate. Marciavano in esso battaglioni di lancieri kankali, compagnie di arcieri pesanti e di guardie bulgare, squadroni di cavalieri peceneghi e di tiratori delle aree orientali, reggimenti di cavalleria pesante. Più lo squadrone personale di Gza e un reggimento delle temibili guardie del khan, cavalleria corazzata altamente addestrata e disposta a tutto pur di difendere l’onore del loro signore.
Presentendo che poteva rivelarsi un punto nevralgico, Laszlo Nemanja aveva affidato la difesa dell’area al suo miglior generale, Oremus Vak. Questo nobile, da sempre legato alla casata Nemanja, era assurto a posizioni di potere con l’ascesa al trono del suo signore e era deciso a fare tutto quello che poteva per non cadere di sella. A sua disposizione aveva un’armata di complicata gestione, composta da un lato da truppe non professioniste, principalmente miliziani scarsamente equipaggiati e, soprattutto, dal morale basso; dall’altra disponeva della miglior cavalleria possibile, tre squadroni di pesante cavalleria nobiliare accompagnata da un altro squadrone di piccoli nobili locali.
L’avanzata di Gza Osen non colse impreparato Oremus Vak; ma questi non riuscì a reagire adeguatamente alla velocità con cui il khan marciò nei Carpazi. Il generale magiaro si vide così costretto a ripiegare sulla fortezza confinaria di Plâieçu, inviando al contempo richiesta di rinforzi per poter efficacemente contrastare la minaccia.
Ma i rinforzi non sarebbero arrivati e le notizie che giunsero da occidente ne diedero rapida conferma a Vak che, dunque, si vide costretto a tentare la sorte con quanto aveva.
Che comunque non era poco. Quando venne avvisato che il nemico tentava una sortita, Gza Osen si recò immediatamente a studiare la situazione per scegliere quali contromosse adottare. La rocca si trovava in una posizione strategica notevole, su un’altura che dominava completamente il valico dei Carpazi fra Transilvania e Moldavia. Il nemico quindi sarebbe sceso nella piana antistante per combattere, una cosa che avrebbe dato ancora maggior slancio alla carica della cavalleria magiara, che il khan non si permetteva di sottovalutare. Decise pertanto di disporre tutti gli arcieri a sua disposizione alle spalle della compatta linea dei kankali, lasciando i soli peceneghi a svariare larghi sull’ala sinistra. La cavalleria, per contro, venne disposta sulle due ali, a destra quella cumana, a sinistra la Guardia e il suo personale corpo.
Dalla sua posizione rialzata Oremus Vak osservò con aria pensosa l’armata kipchaq che si disponeva. Sapeva bene che la sua fanteria non sarebbe mai stata in grado di sfondare la linea nemica, erano solamente milizie. Tuttavia riteneva di avere delle possibilità, soprattutto grazie alla sua cavalleria pesante. Perciò la concentrò tutta all’ala destra e ne prese il comando, ordinando al contempo agli ufficiali di fanteria di avanzare e impegnare l’intera linea avversaria. Quindi si rizzò in sella, spada in pugno, fissò per un lungo istante i suoi soldati e ordinò l’avanzata.
Gza Osen vide il nemico mettersi in marcia. Non era la sua prima battaglia campale, ma i turchi che arrancavano nella neve delle pianure alane non facevano quell’impressione, non davano quel senso di sicurezza letale che quei cavalieri in armatura pesante trasmettevano, coi vessilli purpurei che garrivano al vento sotto un cielo coperto da nuvole cineree. Alla sua destra, alle spalle dei kankali, i primi arcieri cominciavano a tendere gli archi e a far volare le frecce verso il nemico. Più avanti i peceneghi stavano provando a infastidire l’avanzata della cavalleria, ma dovevano continuare a muoversi per non cadere preda di mischie a senso unico.
Il suo attendente, che gli cavalcava a fianco reggendo lo stendardo reale, diede un leggero colpo di tosse, quel tanto che bastava a far capire al suo signore che era tempo di dare qualche genere di ordine. Gza si concentrò: la cavalleria nemica stava risolutamente puntando verso di lui e chiaramente il piano di Vak era di riuscire a ucciderlo, per generare un effetto domino rovinoso. Se i magiari fossero riusciti a prenderli in piena carica la situazione sarebbe rapidamente volta al peggio, e Gza non poteva permetterselo.
Fece appena un cenno al comandante della Guardia, che comprese. I corni suonarono, i vessilli vennero sciolti e catturati dal vento, una sorta di irreale silenzio calò sul campo di battaglia – dove pure già si combatteva fra lancieri e le frecce continuavano a sibilare – mentre la Guardia cominciava a muoversi e a prendere inarrestabile velocità. Poi, lanciando alto il loro grido di guerra – “Per il Khan!” – la Guardia si lanciò, autentico muro d’acciaio, alla carica.
I cavalieri magiari provarono a loro volta a reagire caricando, ma solo pochi di essi avevano già acquisito la necessaria velocità e vennero presi in pieno dall’attacco kipchaq. Le lance della Guardia infransero scudi e corazze, sfondando petti di uomini e cavalli, aprendo pericolose voragini nei ranghi avversari. Tuttavia i magiari erano combattenti di razza e non si arresero certo per così poco: abbandonate le lance, inutili in mischia, misero mano alle spade e ben presto si scatenò un turbinio di lame e mazze che si alzavano e abbassavano, fra urla, schizzi di sangue e nitriti.
Gza intanto si era spostato in posizione più laterale e ora si lanciò a propria volta alla carica per portare sostegno alla Guardia, che combatteva in un rapporto sfavorevole 4 a 1. Il suo intervento costrinse anche Vak a inserirsi nella mischia, accentuando la bolgia infernale.
Tanto che in breve i cavalieri magiari furono in grado di costringere alla mischia parte degli arcieri a cavallo mongoli, che fino ad allora operavano alle spalle dei kankali.
Il loro forzato intervento permise però alla Guardia di ritirarsi, risistemarsi in posizione e tornare alla carica, rinnovando il massacro. Anche Gza dovette a un certo punto lasciare la pugna, ferito da un colpo di spada; ma a nulla valsero i tentativi dei suoi attendenti di farlo allontanare oltre perché si curasse; il khan si fasciò rapidamente la ferita, reimpugnò la sciabola e tornò a dare di sprone, di nuovo nella breccia.
Se è vero che ambo gli schieramenti compirono atti di grande valore in quella mischia, è altresì vero che Oremus Vak non riuscì a ottenere quello che si rea prefissato, il khan nella polvere, morto. E questo non poteva non pagarlo, non quando la sua ala sinistra praticamente non esisteva e la sua fanteria era dunque pericolosamente esposta.
E fu proprio da lì che arrivò la tempesta che i magiari non potevano né evitare né fermare.
Come fiamma inarrestabile i cavalieri cumani irruppero nello schieramento di fanteria magiara e lo consumarono, lasciando al vento il compito di spazzare via le ceneri del loro incendio.
Proseguendo nella loro cavalcata verso la gloria, demolirono le compagnie di arcieri e infine andarono a colpire le terga della cavalleria magiara, ormai così duramente provata. Che, nonostante orgoglio, coraggio e valore, non aveva più energia fisica e mentale per reggere un simile attacco. Il definitivo colpo di grazia arrivò per mano di un cavaliere, la cui lancia trafisse Oremus Vak mentre si ritirava.
Il sole, che per la verità non si era mai molto mostrato, tramontò infine su una giornata gloriosa per il khanato, orrida per l’Ungheria, decisiva per le sorti del conflitto. Il computo totale delle perdite rivelò che a fronte di 1.400 kipchaq rimasti sul terreno erano stati uccisi/catturati qualcosa come 9.500 magiari, un divario enorme tanto più che quasi l’80% delle perdite kipchaq si erano verificate fra quelle unità che avevano combattuto contro la cavalleria nemica. La notizia del trionfo volò di città in città e di villaggio in villaggio, così come il coraggio leonino dimostrato dal khan, che sempre più veniva acclamato come Gza l’Eroe.