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I mari della Serenissima

Ultimo Aggiornamento: 08/04/2014 01:06
12/03/2013 19:48
 
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Capitolo II
Cade la Superba




Genova, 2 novembre 1161.

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Era sbalordito. Un senso di inquietante vulnerabilità aveva preso possesso della sua mente. Andrea Tartaro era allucinato, allibito ed aveva paura. Ed era anche arrabbiato con se stesso, perché la paura non doveva appartenere ad una persona del suo rango e della sua fierezza.

Andrea Tartaro era un giovane diciottenne, Visconte di Ventimiglia e cavaliere della Repubblica di Genova, figlio del Conte Giovanni Tartaro, uno dei maggiori aristocratici genovesi e degli Otto Nobili che governavano la città. Gli era stato insegnato a comportarsi come si conveniva al suo alto rango e a mantenere un contegno degno dei suoi nobili natali. L'addestramento militare e politico impartitogli dalla famiglia, le sue discrete abilità nel combattimento, la buona prestanza fisica di cui, nel pieno della giovinezza, godeva ed i successi che riscontrava con le donne l'avevano reso, se non arrogante, comunque orgoglioso. Era stato cresciuto nel mito del suo rango nobiliare, nel rude orgoglio dei bellatores feudali e nel fiero senso di appartenenza alla Repubblica di Genova, la Superba.

Giunta l'alba di quel freddo mattino di novembre, tutte quelle cose che componevano il suo mondo apparivano improvvisamente destinate ad essere spazzate via. Ed il suo animo ne era sconvolto.

La brezza proveniente dal Mar Ligure, lassù sugli spalti delle mura cittadine, aveva quasi la forza di un vero e proprio vento. Andrea si tolse l'elmo metallico per vedere meglio, scostando i ricci corvini che gli baluginavano davanti agli occhi.

Una flotta di decine di galeotte armate occupava l'ingresso del porto e quella parte del golfo. Sugli alberi sventolavano i vessilli di Pisa.

Pisa, l'acerrima nemica di Genova. Da lungo tempo ormai le due repubbliche marinare avevano intrapreso un sanguinoso e dispendioso conflitto, militare e commerciale, per ottenere l'egemonia nel Mar Tirreno e nel Mediterraneo occidentale. La Repubblica Pisana aveva però conquistato parecchie posizioni di vantaggio negli ultimi tempi. Aveva sottomesso entrambe le isole di Corsica e Sardegna, mentre sulla terra ferma aveva ampliato la sua influenza in tutta la Tuscia, schiacciando Firenze e Prato. Un vantaggio che ormai appariva quasi irrecuperabile agli Otto Nobili genovesi, i quali, pur rimanendo tenacemente fieri, avevano preso a coltivare lo sconforto.

Ed ecco che infine Pisa era giunta in Liguria, dinanzi alle mura di Genova, a reclamare la disfatta finale della sua atavica nemica. Ed era giunta non soltanto con la propria flotta.

Andrea Tartaro infatti, voltando la testa, poteva vedere l'intero esercito terrestre di Pisa che, proprio in quegli istanti, stava marciando per invadere i declivi attorno alle mura di Genova e cingere d'assedio la città; in testa sciamavano le compagnie di servientes della cavalleria leggera pisana, che galoppavano per chiudere le strade ed attaccare i profughi ritardatari non ancora rifugiatisi oltre i cancelli di pietra cittadini.

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Un assedio, portato sia da terra sia dal mare, che che si preparava a risolversi in una morsa che avrebbe lasciato pochissime speranze ai genovesi.

*


La notte del cinquantatreesimo giorno d'assedio il giovane Tartaro non riusciva a prendere sonno. Troppi pensieri e troppe preoccupazioni si agitavano nella sua testa. E su tutti un crescente presentimento che i giochi si sarebbero presto conclusi, forse addirittura l'indomani.

«Padre, – aveva chiesto due giorni prima al nobile genitore, il cui volto era ormai invecchiato di dieci anni in un mese – perché i nostri feudatari in tutta la Liguria non inviano i rinforzi che ci servono disperatamente?».

«Non lo so, figlio. Ma temo ci sia lo zampino dei bastardi pisani... Se mai usciremo incolumi da questa situazione, farò impiccare chiunque ci abbia tradito! Lo giuro su Dio!» aveva sentenziato Giovanni Tartaro con ira.

«Forse si potrebbe chiedere aiuto ai veneziani, padre. Anche se sono nostri avversari non siamo in guerra con loro e forse preferirebbero vedere Genova ancora libera, piuttosto che sottomessa a Pisa. I pisani sono anche loro nemici dopo tutto. Magari un paio di galeotte, nottetempo, potrebbero non viste aggirare il blocco del porto...».

«Non essere sciocco! Nessun tentativo avrebbe speranze contro quell'ammasso di navi pisane laggiù! Neanche la nostra sortita ben organizzata è riuscita a spezzare l'assedio del loro esercito di terra, dieci giorni fa. I lombardi sono in buoni rapporti con Pisa e ci vedrebbero volentieri distrutti. Cercare aiuto presso i veneziani o altri sarebbe compito dei nostri feudatari liguri, visto che dovrebbero avere, al contrario di noi chiusi dietro queste mura, libertà di movimento. Ma se c'hanno traditi...». S'era allontanato quindi dagli spalti, ripetendo sottovoce e sconsolato quella parola. «Traditi...». E lasciando la desolazione nell'animo di suo figlio, che più di ogni altra cosa era abbattuto dall'arrendevolezza del padre, da sempre un uomo propositivo, combattivo e fiero.

Il vecchio Conte Giovanni, tuttavia, non sbagliava. L'attacco era stato ben organizzato dai Consoli della Repubblica Pisana, i quali s'erano preoccupati, prima e durante l'offensiva, di corrompere parecchi nobili liguri, che erano passati dalla loro parte, non vedendo quale vantaggio poteva provenirgli dal restare fedeli ad una città destinata in ogni caso alla rovina. I pochi tra loro che non si erano lasciati comprare o che non si erano arresi all'evidenza, rimanendo neutrali ed accettando il corso degli eventi, erano stati trucidati o arrestati dalle truppe che i pisani avevano mandato nell'entroterra ligure per proteggere i fianchi dell'assedio a Genova.

Pisa poteva disporre di parecchie centinaia di uomini per le sue operazioni militari, uomini attinti dai suoi ampi domini sulle isole tirreniche e nell'entroterra toscano. Genova, invece, poteva contare sulle sole forze cittadine, integrate da alcuni contingenti provenienti dai suoi feudi liguri. La disparità numerica era grande e solo il vantaggio costituito dalle mura aveva garantito sino a quel momento la sopravvivenza dei difensori.

Andrea Tartaro sapeva che i pisani, all'apparenza decisi, dopo il fallimento di un primo e raccapezzato tentativo di assalto dei bastioni, ad aspettare la resa della città per fame, si erano nuovamente rimessi all'opera già da una decina di giorni. I loro fabbri e carpentieri erano intenti nelle loro attività, abbattevano gli alberi dei boschi vicini e fabbricavano scale, rampini, torri d'assedio ed arieti. In notevole quantità. I nemici, questa volta, erano dunque decisi a minimizzare il più possibile il vantaggio difensivo delle mura e a sfruttare sino in fondo la propria superiorità numerica.

Egli dormì un sonno breve e inquieto, disturbato dai continui colpi dei martelli dei carpentieri che, nei suoi strani sogni, gli pareva di udire. E la mattina dell'indomani, poco dopo l'alba, rinvenne di soprassalto, bruscamente svegliato con uno strattone dal suo scudiero.

«Svegliati, mio signore! I pisani... Stanno assaltando le mura!».

*


Il nero fumo di tanti piccoli incendi si levava dalla città di Genova. I soldati della Repubblica Pisana sciamavano per le vie e i vicoli cittadini, dandosi al saccheggio. Le milizie genovesi erano state annientate, il loro numero sopraffatto dalla moltitudine dei pisani che si erano riversati oltre le difese attraverso i cancelli divelti dagli arieti e grazie a scale e torri lignee. La Superba era caduta, annientata dall'atavica nemica.

Andrea Tartaro cavalcava a perdifiato, disfatto nell'animo e con la desolazione in cuore. Il suo mondo, quello in cui era cresciuto ed in cui aveva sempre pensato sarebbe morto, era distrutto. La sua nobile famiglia sterminata: suo padre era morto davanti ai suoi occhi, trafitto da una lancia mentre combatteva i pisani che assaltavano gli spalti, le sue due sorelle probabilmente stuprate ed uccise nella barbara frenesia del saccheggio, che ancora seguitava in quel momento.

Il giovane Andrea s'era salvato e nella concitazione del saccheggio era riuscito a fuggire a cavallo da uno dei cancelli divelti, lasciato incustodito; cinque comites di suo padre, il defunto Conte di Ventimiglia – titolo che ora spettava a lui – ed il suo scudiero erano con lui. Si erano allontanati al galoppo dalla città in rovina, per trovare scampo ed asilo dove la mano di Pisa non potesse raggiungerli. E proprio mentre le mura di Genova erano quasi scomparse alla vista ed essi pensavano di essere ormai riusciti a fuggire non visti, avevano scorto una compagnia di servientes pisani che, accortasi di loro, aveva preso ad inseguirli. Sarebbe stata una lunga e penosa cavalcata, pensò Andrea.

L'inseguimento durò per qualche giorno, ma – a quanto pareva – i fuggitivi riuscirono infine a seminare gli inseguitori. Nutrendosi di quella poca selvaggina che riuscivano a cacciare tra una sosta e l'altra o del pane che comperavano per pochi soldi nei villaggi e nelle fattorie incontrati lungo la strada, giunsero ai confini con il Piemonte orientale. Le truppe lombarde, nemiche di Genova, si aggiravano in quei luoghi a causa delle guerre di Milano contro alcuni comuni del posto.

Dovettero quindi prendere una decisione su dove cercare rifugio. Ma la decisione era già presa, poiché rimaneva un solo luogo dove chiedere asilo: Venezia. Sebbene la Repubblica fosse anch'essa un'antica rivale di Genova, era pur sempre nemica di Pisa: forse le loro misere condizioni di fuggiaschi ed il fatto che la Superba avesse combattuto sino all'ultimo contro il temibile avversario comune avrebbero procurato loro qualche simpatia presso i veneziani. Correva voce che il Doge Domenico Morosini fosse uomo mite e misurato, saggio e cauto, e che raramente lasciava che il risentimento offuscasse il suo giudizio.

Venezia era la loro unica possibilità.

Si decisero quindi a cavalcare vero est, seguendo il corso del Po in direzione del Mar Adriatico. Una volta entrati nei confini del feudo di Ferrara, sarebbero stati relativamente al sicuro sotto l'influenza di Venezia, le cui truppe si trovavano in quei luoghi per sottomettere il Veneto ed il grande castello di Verona. L'unico – notevole – ostacolo che si frapponeva tra loro e la salvezza era la Lega Lombarda di Milano: avrebbero dovuto attraversare non visti le sue terre meridionali, con l'intento di non essere catturati. Altrimenti li avrebbe attesi un futuro di prigionia. Sempre che poi i lombardi non decidessero di consegnarli, sotto riscatto, a Pisa, affinché quei bastardi invasori potessero mandarli a morte.

Tuttavia la fortuna li assisté durante la fuga attraverso le terre lombarde; riuscirono ad arrivare incolumi sino al castello di Ferrara, dov'era di stanza l'esercito veneziano, cui si consegnarono.

I sette fuggiaschi, una volta disarmati, furono portati davanti al generale dell'armata, il giovane e nobile Renier Dandolo, che, nonostante avesse solo un anno più di Andrea, per le sue abilità già comandava un esercito della Repubblica. Egli, ascoltata la loro storia e consultatosi con l'anziano ed esperto padre Enrico Dandolo, acconsentì a che fossero portati a Venezia ed avessero udienza davanti al Doge, il quale avrebbe disposto del loro futuro. Un cauto sollievo avvolse, a sentire la decisione del generale, il giovane Tartaro e le sue membra, stanche e affaticate da interminabili giorni di cavalcata, si rilassarono per la prima volta.

Giunsero a Venezia a bordo di una nave addetta alle salmerie e all'approvvigionamento dell'esercito di Renier Dandolo. Scesero al porto a pomeriggio inoltrato, presso quella parte delle banchine e delle rimesse adibite alle operazioni della flotta. A fianco sorgevano le imponenti strutture dell'Arsenale, il cuore pulsante della potenza veneziana, da poco creato per ordine del Doge, il quale aveva voluto che tutte le attività collegate alla flotta dello Stato fossero concentrato in un unico grande centro nevralgico.

Andrea Tartaro non aveva mai visto Venezia prima di allora. E rimase meravigliato.

La città era quasi surreale, con i suoi edifici in pietra che si stagliavano sopra la superficie del mare ed affondavano le loro radici nelle acque scure, grazie a chissà quale arte. Sempre più le costruzioni, col passare degli anni, si arricchivano di finiture e di decori scultorei affascinanti: una strana commistione tra le suggestioni romaniche e gotiche dell'Europa e le armonie bizantine ed esotiche dell'Oriente aleggiava nell'aria, quasi impalpabile, eppure solidamente scolpita nella pietra. Venezia non aveva grandi strade di terra battuta, ma vicoli lastricati e, soprattutto, innumerevoli vie d'acqua. I flutti che la circondavano da ogni lato riflettevano i raggi del sole pomeridiano e conferivano all'intera, marmorea città una strana luminescenza, innaturale, quasi sinistra, ma al tempo stesso rasserenante, quanto minaccioso e ad un tempo pacifico appariva il Leone di San Marco, emblema della città. Le sottili e fitte linee di alberi, bompressi e remi affollavano innumerevoli gli spazi marittimi ed intarsiavano in una strana rete il panorama cittadino, movimentato dalla fervente attività quotidiana dei numerosi cittadini.

Il giovane Tartaro s'accorse che anche i suoi sei compagni erano rimasti sbalorditi alla vista di tutto quanto era ed appariva ai loro occhi esser Venezia. Un'opulenza ed una industriosità tali non erano mai appartenute a Genova, men che meno nel suo ultimo periodo di declino.

Ma essi non ebbero molto tempo per ammirare i mille volti della città, poiché i loro guardiani li portarono subito presso la piazza centrale, dove sorgevano il palazzo ducale e l'antica Cattedrale di San Marco, il sacro corpo del quale era sepolto proprio in quelle cripte. Entrati nel palazzo, dovettero attendere più di un'ora prima che il Doge, occupato a dare udienza alla rappresentanza di un importante gruppo di mercanti, potesse riceverli, un'ora passata a scambiarsi commenti ed occhiate preoccupate: il momento in cui sarebbe stato deciso il loro destino era arrivato.

Furono infine portati nella sala delle udienze.

Il Doge Domenico Morosini-Michiel sedeva sullo scranno ligneo centrale, riccamente intarsiato, ed era attorniato da sei consiglieri, tre per parte. Egli era anziano: il suo volto era solcato da rughe profonde, ma i capelli e la barba, seppur bianchi, erano ancora folti e, sopra ogni altra cosa, la mente era ancora acuta e lucida. Un'aria saggia e serena emanava da quella figura canuta e paludata nelle vesti ducali.

Andrea ed i suoi compagni si inchinarono e, rimanendo in piedi, attesero; gli era stato detto di aspettare che fosse il Doge a parlare per primo e di rispondere solo se interrogati. Gli occhi del vecchio Morosini e dei suoi consiglieri li scrutarono per molti attimi di silenzio, che divennero quasi insopportabili per i sette uomini in attesa.

«Ebbene – disse infine il Doge con voce calma e roca – chi siete voi, mandati qui dal nostro nobile generale Renier?».

Andrea rispose, cercando di mantenere un contegno adeguato al suo rango, senza però risultare arrogante, bensì umile: «Mio signore, io sono Andrea Tartaro di Genova, Conte di Ventimiglia, e costoro che mi accompagnano sono il mio scudiero e i miei fidi comites».

«Siate benvenuti dunque, tu e i tuoi uomini, Conte Tartaro. Ma vi vediamo laceri ed affaticati. Quali sono mai i motivi per cui giungete qui a Venezia, dinanzi a noi?».

«Veniamo nella vostra città, dopo giorni e notti di cavalcata estenuante, umilmente a chiedere ospitalità ed asilo. Siamo raminghi e la nostra patria è distrutta».

Il volto del Doge si rabbuiò, il folto sopracciglio grigio inarcato, mentre i consiglieri che lo attorniavano presero a scambiarsi commenti stupiti.

«La vostra patria distrutta, dici? Come può essere ciò?».

«Vedo che la sventura non solo mi ha reso fuggiasco, ma anche latore dell'orrida notizia... Genova è caduta, mio signore, per mano dei nemici pisani. Le armate di Pisa hanno invaso la Liguria e stretto d'assedio la nostra città sia per mare che per terra. Questo ai primissimi giorni di novembre, quasi due mesi or sono, ormai. Dopo cinquanta e più giorni d'assedio, la moltitudine dei pisani s'è riversata su di noi, ha preso le mura ed espugnato la nostra città. Genova è stata presa e barbaramente saccheggiata. Mio padre il Conte è... – la voce gli venne meno per un attimo – è stato ucciso combattendo per difendere le mura; del triste destino toccato al resto della mia famiglia non ho conoscenza. Noi siamo riusciti a fuggire al massacro da una delle porte lasciate incustodite dagli assalitori ed inseguiti abbiamo cavalcato raminghi sino a Ferrara, dove il vostro generale c'ha trovati. Ora siamo qui dinanzi a te, mio signore, senza una patria e con la morte in cuore, per chiedere umilmente asilo...». Detto ciò tacque ed il silenzio avvolse la sala.

Il Doge s'agitava un poco sullo scranno, immerso nei pensieri che quelle notizie avevano generato nella sua mente acuta. I consiglieri presero a bisbigliare animatamente tra di loro.

Ad un tratto, il capitano delle guardie che avevano scortato Andrea e i suoi sin lì interruppe i ragionamenti del Doge Domenico, informandolo: «Perdonami, mio signore, ma il generale Renier Dandolo mi ordina di riferirti che ha già mandato dei messi presso i nostri alleati di Milano per chiedere conferma della presenza pisana in Liguria».

«Bene» assentì il Doge, per poi rivolgersi all'attendente della guardia che stava a fianco degli scranni: «Sia armata immediatamente una galeotta e che parta alla volta di Genova, per constatare di persona, cogli occhi dei nostri, se i pisani occupino la città ed i porti di quelle terre».

«Sì, mio signore» disse pronto l'attendente, che lasciò subito la sala.

«Quanto a te, Conte Tartaro... – disse il Doge – Le notizie che rechi sono infauste. Non è un mistero che vi fosse rivalità tra Genova e Venezia; tuttavia v'era la pace tra le nostre due repubbliche ed una grande inimicizia nei confronti di Pisa ci accomunava. La situazione è allarmante: gli avidi pisani stanno fagocitando sotto la loro influenza l'intero Mar Tirreno ed ora che il baluardo della vostra fiera città è caduto, essi avranno facile accesso al Piemonte e alla Pianura Padana... Ben pochi ostacoli rimangono a limitare la loro cupidigia. Non di meno, oltre le Alpi l'Imperatore germanico si scuote, compiacendosi dei successi dei suoi amici pisani. Il Santo Padre, come noi d'altronde, è molto allarmato, e a ben vedere! La situazione sta evolvendo verso una direzione preoccupante...». La voce si spense un attimo mentre qualche preoccupazione gli affollava per un attimo i pensieri.

Riprese dopo pochi istanti: «Tuttavia, al momento, è prematuro fare di codeste valutazioni, senza avere una visione più chiara delle cose. Venendo a noi, puoi riposare le tue stanche membra, Conte: hai trovato qui presso di noi un asilo temporaneo. Tu e i tuoi uomini sarete ospitati a Venezia, con le limitazioni alla vostra libertà di movimento che – comprenderete – saremo costretti dalle circostanze ad imporvi. Tu, Conte Tartaro, cenerai con me stasera e risponderai alle mie domande, poiché abbiamo molto di cui parlare. E poi, dando tempo al tempo, deciderò su quale debba essere il vostro destino».
[Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 20:52]




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