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I mari della Serenissima

Ultimo Aggiornamento: 08/04/2014 01:06
18/03/2013 22:34
 
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Capitolo III
L'Ordine Marciano




Zara, 14 maggio 1162.

[IMG]http://i50.tinypic.com/3505g92.jpg[/IMG]

La galeotta attraccò al porto della città dalmata di Zara nella tarda mattinata. Trasportava rifornimenti ed effettivi per la locale guarnigione sotto il comando del Provveditore Generale di Dalmazia Marino Morosini-Michiel. Dalla nave scese un messo che s'incamminò per le strade cittadine alla volta del palazzo del Provveditore.

Zara era la più ricca colonia marittima della Repubblica e, sebbene fosse ben lungi dagli splendori di Venezia, il suo porto e la sua cittadinanza avevano poco da invidiare alla capitale in termini di traffici e fervore economico; da lì Venezia controllava l'intera Dalmazia, una prospera terra che s'estendeva in lunghezza per un vasto tratto della costa orientale del Mar Adriatico.

Il messo giunse presso il palazzo del Provveditore, uno dei pochi edifici cittadini interamente costruito in pietra e situato sulla piazzetta centrale, di fianco alla Chiesa di Santa Maria del Mare. Le porte della chiesa erano aperte, tutti gli allestimenti sacri posseduti dalla parrocchia erano esposti; sul sagrato un drappello di ecclesiastici e chierici erano radunati, assieme a molti cittadini, e parlottavano con calma tra loro.

L'Arcivescovo di Venezia, titolare della Cattedra di San Marco e Cardinale della Santa Romana Chiesa, era in visita presso la città di Zara. Da un mese aveva intrapreso un viaggio in tutte le terre orientali veneziane per visitare le parrocchie locali, appartenenti alla sua vasta diocesi, e dare impulso all'opera di evangelizzazione che ferveva in modo particolare in quei luoghi.

"Bene" pensò il messaggero. Il Cardinale doveva essere ancora al palazzo a conferire con il Provveditore.

Si presentò a rapporto a Marino Morosini mentre questi si stava congedando con l'Arcivescovo.

«Mio signore, porto i saluti del Doge e dispacci per te da Venezia» disse, consegnandoli. Poi si inginocchio e baciò l'anello vescovile al dito del Cardinale.

«Eminenza, porto anche a te gli omaggi del Doge ed una sua lettera personale che m'è stato comandato di consegnarti».

Orio Mastropiero, Arcivescovo di San Marco, prese con la mano affilata la missiva. L'anello pastorale di rubino riluceva di sanguigna luce e spiccava sulle sue pallide dita. L'Arcivescovo Orio era abbastanza giovane – aveva quarant'anni – per la carica che ricopriva, ma le sue qualità erano ben note; e su tutte spiccava quel sereno fervore che in quel suo viaggio pastorale in Istria, Dalmazia e Zeta stava dimostrando una volta di più. Orio era sempre stato un uomo di autentica fede, seppur non certo estraneo ai giochi della mondanità e della politica; il suo spirito di dedizione alla missione apostolica veniva acuito ogni qual volta vedeva l'ordine e la pace che la religione riusciva a portare in luoghi magari un tempo barbari e pagani, come quelli in cui era. E riteneva che fosse uno scotto decisamente basso da pagare quello di doversi dedicare anche alla mondanità della politica, se veniva, com'era nei fatti, remunerato dell'enorme contributo dato all'evangelizzazione cristiana dalla politica coloniale della Repubblica. Secondo Orio, quella che intercorreva tra San Marco ed il suo Doge era un'ottima simbiosi, poiché, se da un lato portava allo Stato potere, ricchezza ed influenza, dall'altro garantiva alla Chiesa sicurezza, devoto rispetto e possibilità di diffusione. E, non di meno, portava cultura e civiltà là dove prima vigevano costumi ancestrali, arretrati e spesso crudeli. Tanti più erano i popoli che vivevano urbani ed in pace sotto il dominio di Venezia, tante più erano le anime che la Chiesa poteva ambire a salvare con il Verbo di Dio, egli ne era profondamente convinto. Il fatto poi che la Repubblica fosse alleata con il Papato e s'opponesse agli spregevoli intenti dell'Imperatore germanico di mortificare e soggiogare l'autorità universale di San Pietro gli riusciva particolarmente gradito e confortante. Poteva, in tutta coscienza e serenità d'animo, dedicarsi a servire fedelmente entrambi i padroni: la Repubblica di Venezia come la Santa Chiesa.

La sua duplice posizione di Arcivescovo di Venezia, custode delle spoglie dell'evangelista di Cristo, e di Cardinale romano, oltre a dargli grande prestigio ed un pio orgoglio, gli conferiva un ruolo chiave nei rapporti tra la Repubblica e la Chiesa, nonché tra potere secolare ed autorità spirituale.

L'Arcivescovo Orio diede un'occhiata curiosa alla lettera che il messo gli aveva consegnato: portava un sigillo di ceralacca con il timbro personale del Doge.

«Che tu sappia, soldato, vi sono forse comunicazioni urgenti qui dentro?».

«No, eccellenza. Il Doge ti manda a dire che non è urgente che tu legga la missiva, ma spera che l'aprirai non appena avrai tempo da dedicarci».

«Molto bene. Porta i miei omaggi al nostro Doge, soldato, e la benedizione del Signore». E diede la lettera al proprio arcidiacono segretario, perché la custodisse.

«Sarà fatto, eccellenza. Dio ti custodisca» disse il messo, inginocchiandosi a ribaciare l'anello pastorale.

L'Arcivescovo Orio si congedò quindi dal Provveditore Morosini e uscì al tiepido sole di primavera che illuminava la piazzetta. Seguito dai suoi diaconi e da due armigeri di scorta, egli si diresse alla vicina Chiesa di Santa Maria del Mare, dove i chierici e la gente lo accolsero con calore e riverenza.

*


Scesa la sera, il Cardinale Orio si ritirò negli alloggi che gli erano stati messi a disposizione da Marino Morosini presso il palazzo del Provveditore Generale. Congedò l'arcidiacono e prese a leggere la missiva del Doge. Sua grazia lo salutava rispettosamente ed elogiava la sua dedizione all'opera cristiana in occasione del viaggio pastorale intrapreso, per poi ribadire il mutuo e proficuo beneficio che la Santa Chiesa e la Repubblica si portavano e potevano ulteriormente portarsi a vicenda. Il Doge veniva poi al punto: egli desiderava conferire, appena possibile, con sua eminenza in merito ad un progetto. I pochi accenni che faceva di questo progetto indicavano la sua intenzione di costituire un ordine di monaci e cavalieri, a metà tra il monastico ed il laico, sotto il patrocinio del Santo Padre e la guida del Consiglio veneziano. Scopo dell'ordine sarebbe stata una non meglio precisata opera di custodia della sapienza e della cultura, nonché di evangelizzazione delle genti e di cura delle terre. Maggiori dettagli gli sarebbero stati resi noti in occasione del loro auspicato colloquio. Il Doge individuava nel riverito Arciescovo di San Marco la figura ecclesiastica naturale e privilegiata per fungere e da guida spirituale del nuovo ordine e da intermediario presso il Pontefice.

Tutto ciò era tipico del nuovo Doge, pensò Orio Mastropiero. Il saggio Domenico Michiel-Morosini era morto tre mesi prima, spegnendosi improvvisamente, ma serenamente nel proprio letto. I massimi nobili della Repubblica avevano subito acconsentito a che il Consigliere Vitale gli succedesse alla carica. Da tre mesi, dunque, Venezia era governata dal Doge Vitale II Morosini-Michiel, il quale sembrava aver mutuato dal proprio predecessore la capacità di giudizio, l'equità e una certa saggezza. Era risaputo, tra l'altro, che il nuovo Doge era uomo che apprezzava la cultura, in special modo quella antica e bizantina. E ciò suggeriva al Cardinale che il 'progetto' avesse qualche cosa a che fare con questa sua inclinazione.

Orio mise via la lettera, intenzionato a rimandare le proprie valutazioni una volta che avesse incontrato il Doge. E tuttavia già vedeva di buon occhio quel progetto, che oltretutto sembrava voler nascere sotto l'autorità spirituale della Chiesa veneziana. Decise che avrebbe sì concluso il suo viaggio pastorale sulle coste adriatiche prima di tornare a Venezia, ma che l'avrebbe accorciato. Chiamato l'arcidiacono, concordò con lui i cambiamenti da apportare al programma di viaggio.

*


La gondola dell'Arcivescovo Orio Mastropietro passò a fianco dell'isola di Rialto. Sull'isola era in costruzione un grande edificio, provvisto di cappella. L'opera era a buon punto e già ne si potevano scorgere i profili nel nuovo stile gotico che si stava diffondendo sempre più in Europa, stile opportunamente ibridato dagli architetti veneziani con il gusto orientale in auge a Venezia. Là dove sarebbe sorta la grande biblioteca, già si ergevano i contrafforti e gli ampi archi a sesto acuto che avrebbero ospitato splendide vetrate istoriate.

Il nuovo quartier generale del neonato Ordine Marciano – questo il nome per esso scelto dal Doge – avrebbe rappresentato in pieno l'elevatezza morale della sua missione.

E quel giorno era infatti prevista la cerimonia di fondazione dell'Ordine presso la Cattedrale di San Marco, dove l'Arcivescovo si stava recando. Erano passati quasi sette mesi da che aveva ricevuto la lettera del Doge e tutto era poi stato fatto con grande celerità.

I contorni della nuova entità erano ora ben definiti. L'Ordine Marciano sarebbe stato composto sia di laici che di ecclesiastici. Un Capitolo Generale sarebbe stato il suo organo di governo, presieduto da un Gran Maestro eletto dallo stesso Capitolo dietro consultazione del Consiglio della Repubblica e dietro l'approvazione dell'Arcivescovo di Venezia, guida spirituale dell'Ordine e membro del Capitolo Generale. Il Gran Maestro, carica che sarebbe durata a vita o sino alla rinuncia dello stesso, sarebbe stato scelto all'interno della cerchia dei maggiori aristocratici della Repubblica, fosse anche egli già un consigliere o addirittura il Doge. Del Capitolo Generale avrebbero fatto parte, oltre all'Arcivescovo e al Gran Maestro, le figure laiche dei Primi Cavalieri, del Cavaliere Generale e del Dottore Segretario, figura quest'ultima che poteva essere sia laica che ecclesiastica. Tra i membri religiosi del Capitolo, invece, vi sarebbero stati il Padre Bibliotecario, l'Abate Generale ed il Dottore Teologo. Era infatti stato deciso che l'ordine avrebbe presentato una componente laica, inclusiva dei cavalieri e degli armigeri, preposti alla sicurezza dei dell'Ordine e delle sue operazioni, e dei vari servitori; la componente religiosa sarebbe stata determinata invece dalle varie tipologie di monaci: amanuensi, bibliotecari, insegnanti e amministratori della terra. I laici avrebbero dovuto prendere il solo ordine d'obbedienza, mentre i religiosi, essendo monaci, tutti e tre gli ordini di castità, povertà ed obbedienza. Ogni membro dell'Ordine avrebbe poi dovuto giurare fedeltà alla Repubblica di Venezia.

L'Arcivescovo Orio storse un poco la bocca al pensiero di come il Doge Vitale, dopo molte discussioni, era riuscito a spuntarla e a costituire l'intero Ordine sotto il diretto e sostanziale controllo del governo veneziano. L'Ordine diventava il braccio religioso-culturale, nonché armato, della Repubblica. I monaci avrebbero avuto l'alto compito di custodire tutte le opere di cultura di cui entravano in possesso, di condurre l'insegnamento, tenere scuole e di creare ampie biblioteche acquisendo i testi e i libri più svariati e facendone copie, nonché di mettere a frutto le terre amministrate. Di primaria importanza erano la lingua latina, ma soprattutto la lingua greca, che ogni monaco e alto funzionario dell'ordine era tenuto a conoscere e per l'insegnamento della quale erano stati incaricati diplomatici e interpreti che, nello svolgimento delle loro funzioni presso i bizantini, l'avevano appresa.

Il braccio militare avrebbe garantito la difesa e la sicurezza delle sedi e delle terre dell'Ordine, nonché avrebbe appoggiato nell'ambito bellico e logistico le sue operazioni, in armonia con quelle più generali di Venezia. Tutti i Cavalieri e gli armigeri sarebbero provenuti dalle truppe della Repubblica ed in esse sarebbero stati inquadrati. Erano già state individuate ricche terre in Istria come in Dalmazia e in Veneto da assegnare all'Ordine: i membri laici, infatti, sarebbero stati stipendiati interamente dalla Repubblica, mentre la componente monastica avrebbe utilizzato per il proprio sostentamento i frutti e i proventi delle concessioni terriere e feudali dategli. Inoltre i monaci, improntati alla laboriosità dei loro fratelli benedettini e cistercensi, le avrebbero fatte fruttare, ben amministrandole, disboscandole e bonificandole. Ad ogni beneficio sarebbe corrisposta un'abbazia retta da un Abate, il quale avrebbe esercitato la maggior parte delle prerogative feudali, escluse quelle che per loro natura erano di competenza del Cavaliere Capitano, figura deputata al comando degli armati e alla custodia dell'Abbazia stessa.

Una Regola Marciana disciplinava interamente e specificatamente i doveri, le funzioni e la fisionomia di entrambe le componenti dell'Ordine. La Regola, approvata sia dal Consiglio che dall'Arcidiocesi di Venezia, era già a Roma allo studio del Papa; c'erano tutte le certezze che anche il Santo Padre l'avrebbe rapidamente approvata e ratificata, vista l'amicizia e l'alleanza che lo legava alla Repubblica.

Ormai tutto era disposto, ogni preparativo necessario fatto. Mancavano solo più i sigilli ufficiali e rituali.

La gondola dell'Arcivescovo attraccò ai piloni di Piazza San Marco ed egli avanzò in processione, seguito dai diaconi e attorniato dalla folla, sino ai portali della Cattedrale. Là lo attendeva tronfio il Doge Vitale, circondato ad una certa distanza dai consiglieri e dai maggiori nobili veneziani: quasi tutta l'oligarchia aristocratica che governava la Repubblica era adunata davanti alla Cattedrale, quel giorno.

L'Arcivescovo Orio si inchinò al Doge, poi questi si inginocchiò a sua volta e baciò l'anello pastorale. I due si girarono alla volta dell'ingresso della Cattedrale, le schiene illuminate dal sole del mattino.

«Una splendida giornata illumina la nostra città, non trovi, eminenza?».

«Oserei quasi dire che il Cielo mostra il suo apprezzamento per questa pia nostra opera, mio signore».

«Decisamente. La nobiltà di questo nostro atto non può che riuscirgli gradita, ne sono certo. E dunque vieni con me, eminenza. Non attendiamo oltre: abbiamo un ordine da fondare».

[IMG]http://i42.tinypic.com/25kot2u.jpg[/IMG]
[Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 20:57]




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