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I mari della Serenissima

Ultimo Aggiornamento: 08/04/2014 01:06
11/06/2013 21:34
 
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Capitolo VIII
Sed libera nos a malo




Verona, 19 agosto 1174.

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«... per omnia sæcula sæculorum».

«Amen» risposero in coro i presenti. I pochi astanti di rango più elevato si alzarono dai loro inginocchiatoi di legno, mentre il modesto assembramento di servitori e popolani più in fondo rimase in piedi, com'era costretto a fare per tutta la durata della funzione.

«Oremus» esortò il sacerdote per poi dare le spalle ai convenuti e rivolgersi con la sua scorrevole litania latina all'altare. Per quanto esso non fosse di certo grande, ricchi ornamenti lo abbellivano, e su tutti spiccava un alto e sottile crocifisso in legno d'ebano intarsiato e fregi d'argento. «Præceptis salutaribus moniti et divina institutione formati, audemus dicere:

«Pater noster, qui es in cælis, sanctificetur nomen tuum. Adveniat regnum tuum. Fiat voluntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum...».

Renier Dandolo pregava in silenzio seguendo le parole del sacerdote, un uomo in carne con un volto gioviale, reso però quasi austero dalla tipica tonsura dei monaci. Essendo il Marchese di Verona, gli era riservato l'inginocchiatoio più prossimo al piccolo presbiterio della cappella, dal quale poteva avere una piena visuale dell'altare, illuminato dai fasci di luce che piovevano dalle tre affilate finestre a sesto acuto incise nella parete dell'abside.

Era la mattina di domenica, il giorno di riposo cristiano, ed il castello di Verona era quieto. Il Marchese ed i suoi cortigiani erano riuniti nella cappella, assieme ai vari servitori, per assistere alla Messa. Il cielo, sebbene ingrigito dalle nuvole, appariva anch'esso tranquillo, il fumo di alcuni comignoli che si protendeva pigramente verso di esso.

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Il nobile Renier era uomo di fede: suo padre, il Marchese Enrico Dandolo, scomparso anni prima, come l'aveva educato nel governo e nelle armi, così l'aveva educato anche nella religione. “Ricordati che dovremmo tutti rendere conto a Dio di come abbiamo vissuto. Tutti. E se le nostre mura e le nostre spade possono salvarci dagli uomini, solo lui, solo la nostra fede in lui può salvare le nostre anime. Ricordalo sempre”. Così gli aveva insegnato suo padre.

Fin da quando era un fanciullo, Renier aveva sempre provato una certa reverenziale soggezione durante la celebrazione della Santa Messa.

La solenne figura del celebrante ammantata dei paramenti sacri ed inondata dal sole che entra dalle vetrate del presbiterio, riservato a lui solo e a pochi altri. Le mistiche note dei canti gregoriani dei frati che si levano sempre più, seguendo le colonne della chiesa fin su nell'alto dei cieli. La schiena del sacerdote, le braccia spalancate davanti alla croce e l'aria impregnata della sua litania quasi incomprensibile. Le parole di quella strana lingua, ad un tempo così aliena e così familiare, quasi mistica. E poi le mani della figura, ora a capo chino, che si alzano stringendo il pane e mostrandolo a quella croce, immobile, silenziosa, eterna. Mentre tutti sono in ginocchio. Ed il vino. Che riverbera alla luce del sole. Così rosso. Rosso scarlatto. Rosso come il sangue. Il sangue di un dio. Bevuto da un uomo che invoca il suo nome.

Quel rito, così pregno di simbolismo e così teatrale, aveva sempre esercitato su di lui un grande fascino nei suoi anni di bambino e ragazzo. E sebbene ora egli fosse un uomo fatto e finito, istruito anche nel latino, risoluto nello spirito ed avvezzo alla crudezza delle armi ed ai piaceri terreni della carne, quel particolare senso di riverenza e suggestione non cessava di farsi avvertire ogni domenica, quando la liturgia latina riprendeva a celebrare il Signore degli uomini.

Renier era un uomo timorato, poteva dirsi. Al contrario di molti poi, non aveva remore nel mostrare la sua fede. Ciò gli era spesso valso ad aumentare la fiducia che i suoi uomini erano naturalmente portati a nutrire in lui, essendo egli una persona affabile e dallo spiccato spirito cameratesco, per quanto a volte potesse rivelarsi anche severo ed inflessibile. Gli uomini lo seguivano non tanto per rispetto o riverenza o timore, quanto più per questo suo singolare magnetismo umano; un legame, questo, che la maggior parte delle volte in cui veniva messo alla prova resisteva assai più degli altri. Era così che la sua gente guardava a lui: come un uomo che, sebbene fosse il loro signore, poteva anche essere loro amico, poiché era forte, buono e giusto. E quel suo lato devoto contribuiva solitamente a rafforzare la sua figura, nonostante in alcune occasioni si fosse dimostrato motivo di scherno da parte di alcuni. Ma a costoro era sempre riuscito a rispondere per le rime, poiché le loro battute non l'avevano mai toccato.

Tranne nel caso di suo fratello. Non Marino, il secondogenito, ma il minore dei quattro figli di suo padre Enrico. Suo fratello minore. Con quelle sue freddure e battute, sottili, insinuanti, che sempre lo lasciavano a corto di risposte, disarmato. Perché non riusciva mai a comprendere se egli stesse canzonando lui o stesse ironizzando su se stesso. Così come non aveva mai capito davvero se suo fratello credesse o meno in Dio. Probabilmente sì, a suo modo. Forse nutriva più “fede” nei segni terreni della Sua maestà, che nella Sua natura di misericordioso salvatore. Era sempre stato un individuo criptico ed ambiguo, difficile per lui da comprendere appieno.

In ogni caso, molte delle ironie di suo fratello sarebbero state additate da diverse persone come blasfeme. Il che era a sua volta ironico, visti la posizione che occupava ed il luogo dove loro padre, il Marchese Enrico, l'aveva mandato per essere “rettamente educato”.

Forse era stato quell'allontanamento che aveva incrinato i loro rapporti fino allo stato attuale. C'era affetto tra di loro – avevano pur sempre lo stesso sangue – e rispetto. Ma il tutto aveva preso un piega anch'essa in qualche modo ambigua, incerta, e sotto covavano le braci mai sopite di fantasmi e torti passati. L'allontanamento di sicuro era stato il principio. E poi c'era anche quell'altra cosa, non poteva certamente negarlo.

Le parole del sacerdote riscossero Renier Dandolo dalle sue riflessioni, lasciandolo sorpreso di quei suoi pensieri sul fratello, fatti in un momento in cui avrebbe dovuto concentrarsi nella preghiera.

«... Et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris. Et ne nos inducas in temptationem» lasciò in sospeso il frate officiante.

Gli astanti presero a rispondere all'unisono: «Sed libera no...».

Don, don, don, don, don, don...

Tutti i presenti si zittirono immediatamente, riconoscendo la particolare nota metallica d'urgenza di quella campana.

Quando ancora la nuova cappella del castello, un poco più grande, ma soprattutto più bella e raffinata della precedente, non era stata costruita, sorgeva una piccola chiesa, assai modesta, che altro non era se non una larga stanza con un crocifisso ed un tavolo di pietra. La vecchia chiesetta era sprovvista di qualsiasi cosa che potesse dirsi campanile. Molti anni prima che Enrico Dandolo e la Serenissima giungessero sotto le mura di Verona, il Marchese d'allora, Ottocaro di Stiria, aveva quindi fatto installare una campana in una delle torri del maschio, cosicché si potessero scandire le ore della giornata, richiamare gli abitanti alla Messa, rimarcare le celebrazioni e, soprattutto, dare l'allarme in caso di pericolo.

Successivamente, insediatosi nella roccaforte, il nobile Enrico aveva fatto ricostruire ex novo la cappella, provvedendo a che avesse finalmente un proprio piccolo campanile. Aveva però ordinato di lasciare la campana del maschio lì dov'era, affinché la si adibisse unicamente agli allarmi. La nota metallica, un poco isterica, che emetteva era infatti riconoscibile da tutti e facilmente distinguibile da quella tonda e piena propria della nuova campana della cappella.

Ed erano proprio i rintocchi della campana del fortilizio che si spandevano in quel momento per l'abitato.

Renier si mosse subito, gli occhi di tutti puntati su di lui. Si genuflesse velocemente davanti al presbiterio, facendosi il segno della croce, e corse fuori. Gli altri lo seguirono frettolosamente, compreso il sacerdote.

*


Era stato più semplice del previsto.

Due settimane prima s'era intrufolato all'interno delle mura del castello, confuso in mezzo ad alcuni contadini che rientravano dai campi. Le guardie non avevano minimamente fatto caso a lui. In fondo notizie da Trento non ne erano ancora giunte allora e la fortezza non era in stato d'allerta.

Una volta penetrato nel castello, si era quindi trovato con il suo contatto, la persona più banalmente indicata per un possibile tradimento, e forse, proprio per quello, la meno sorvegliata dai veneziani. “Ciò di cui gli uomini meno s'accorgono è ciò che più gli sta davanti agli occhi” gli aveva insegnato la persona che poteva definire come il suo maestro. E tutti quegli anni passati a fare la spia in Italia gliel'avevano confermato.

Alfredo di Stiria, il suo contatto, era infatti il figlio bastardo del minore dei due fratelli di Ottocaro di Stiria, ultimo Marchese della sua casata. Il padre, poco dopo la morte di sua moglie, la quale aveva sempre preteso che il bastardo, testimonianza dell'infedeltà del proprio marito, rimanesse lontano dalla sua vista, aveva deciso di riconoscerlo e naturalizzarlo, dandogli il proprio nome di famiglia. Nessuno degli eredi del Marchese Ottocaro si era preoccupato della cosa, poiché Alfredo, già venticinquenne, era ben lontano dalle prime posizioni nella linea di successione del casato e la sua eventuale pretesa sarebbe stata viziata in partenza dai suoi natali bastardi.

Tredici anni prima, però, la mano di Venezia era arrivata fino a Verona ed aveva piantato una spada nel petto degli Stiria e dei loro maggiori rampolli. Così Alfredo s'era ritrovato ad essere uno tra i pochi della famiglia ancora vivi ed un possibile candidato per la successione. Se non fosse stato che s'era anche ritrovato sottomesso ad un nuovo Marchese della stirpe degli invasori: Enrico Dandolo, cui aveva dovuto giurare fedeltà in cambio della vita. Ed i veneziani avevano ben presto smesso di preoccuparsi di lui che, per i suoi natali e per la sua irrilevante influenza, non rappresentava certo una minaccia.

Negli ultimi tre anni e più, il Bastardo senza Terra – così aveva preso a chiamarlo la gente di Verona – aveva mandato lettere in Germania indirizzate alla Corte imperiale di Ratisbona. Lettere nelle quali implorava con struggimento il Sacro Romano Imperatore di discendere le Alpi, ripristinare la sua autorità nel Veneto e ridare alla casa di Stiria e a lui, che era il – non troppo – legittimo erede, la marca appartenentegli per diritto dinastico. In cambio gli avrebbe giurato eterna fedeltà e l'avrebbe servito in ogni suo ordine quale leale vassallo.

Nessuna di quelle lettere era mai arrivata agli occhi del Barbarossa, ma qualcuna era giunta in possesso del Duca di Baviera. E quando erano arrivati a Salisburgo gli ordini dell'Imperatore di procedere all'invasione del Veneto per acquisire una stabile testa di ponte in vista di una futura campagna in Italia, il Duca s'era ricordato di Alfredo di Stiria ed aveva inviato a Verona la sua spia migliore, un astuto italiano che da anni era al soldo dell'Impero, per sfruttare quella “risorsa” in attesa, già posizionata al di là delle mura.

“Povero sciocco” pensò la spia con un moto di scherno, mentre osservava Alfredo, piegato con i suoi tre miserevoli accoliti sul grande argano di legno, darsi da fare per sollevare la seconda, pesante grata di ferro del cancello settentrionale di Verona. Chissà dove gli aveva trovati quegli sgherri, il bastardo... Si erano rivelati molto utili comunque, doveva ammetterlo: far fuori le quattro sentinelle dell'ingresso e tirar su le due grevi inferiate che serravano la porta sarebbe stato un compito decisamente arduo per lui solo, altrimenti. “Vedrai come ti ricompenserà il Duca. Se credi davvero che ti darà questo castello, non hai propria la minima idea di quello che ti aspe...”.

Don, don, don, don, don, don...

“Dannazione! L'allarme!” s'agitò la spia. «Sbrigatevi voi!» disse al Bastardo senza Terra e ai suoi tre uomini, che si erano nel frattempo immobilizzati all'udire gli urgenti rintocchi della campana.

«Ehi! Vieni tu a sollevare questa grata del cazzo se ci tieni tanto! Cristo, quanto pesa!» grugnì uno degli sgherri.

«Muovetevi!» inveì lui in tutta risposta, per poi precipitarsi alla feritoia che guardava all'esterno del cancello, situata proprio sopra l'arco di roccia dell'ingresso. Da lì vide che già alcuni cavalieri e diversi fanti con l'aquila imperiale impressa sul petto delle armature stavano raggiungendo il cancello violato, mentre il grosso del corpo di spedizione non era lontano e già stava lasciando la macchia boschiva in cui era rimasto nascosto. Un torrente di giallo e nero e grigio che avanzava impetuoso verso le mura di Verona.

“Bene. Con un po' di fortuna dovremmo farcela” pensò la spia.

*


Il Marchese Renier Dandolo attraversò le porte della cappella ed uscì nella piazza che sorgeva sull'altura dov'erano posizionati il fortilizio ed il suo unico ingresso. Suo cognato Riccardo Natale, marito di sua sorella Maria, lo raggiunse tutto trafelato, seguito da un attendente e da una mezza dozzina di soldati con le spade già sguainate.

«Soldati germanici» lo informò sinteticamente. «Attaccano il cancello settentrionale. Qualcuno gli ha aperto le grate. Qualche spia, di certo».

L'espressione vagamente smarrita dipinta sul volto del suo nobile cognato era l'ennesima conferma – conferma di cui in effetti Renier non aveva per niente bisogno – del fatto che egli non era versato nella tattica. Per non parlare poi della strategia. Riccardo Natale, un uomo prestante e dallo spiccato senso del dovere, era un ottimo combattente, dotato di un impeto istintivo e quasi ferale nella lotta; ma quando si trattava di ragionare ed approntare una linea d'azione, che fosse sul campo o sulle mappe, non era affatto a proprio agio. Preferiva di gran lunga che gli venisse detto che cosa fare.

«Non faremo mai in tempo a correre per fermarli al cancello e a tentare di riconquistarlo. Perderemmo decine di uomini inutilmente...» prese a ragionare a voce alta Renier. «Li fermeremo qui sotto, nella via che porta alla piazza. Saranno costretti a passare di lì, se vogliono raggiungere il dongione. Lo spazio ristretto ed in salita ci aiuterà a fermarli» concluse. «Raduna tutti gli uomini, Riccardo. Crea uno sbarramento nella via. Lancieri davanti, arcieri dietro disposti a scaloni, così che possano sfruttare la pendenza per il tiro».

«Vado!» si precipitò l'altro, lieto di avere ordini chiari da eseguire.

Per parte sua, Renier corse al mastio del castello, accompagnato dagli armigeri: doveva assolutamente vedere com'era la situazione coi propri occhi. All'interno del fortilizio raccolse con sé alcuni dei suoi comites, il suo scudiero e tutti i soldati che riuscì a trovare. Quando giunse agli spalti più alti, si portava ormai appresso una ventina di armati. S'affacciò a scrutare il cancello settentrionale.

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Il grosso della colonna imperiale era quasi giunto presso la porta, mentre già alcuni contingenti di fanti e cavalieri scomparivano di corsa sotto l'arco.

“Com'è possibile che siano già qua!?” si chiese. “Abbiamo ricevuto la notizia dello scoppio della guerra e della caduta di Trento soltanto una settimana fa. Devono aver lasciato una buona parte delle loro forze – forse metà – laggiù a pacificare il castello, mentre questa avanguardia si spingeva fin quaggiù...”.

L'aquila nera del Sacro Romano Impero campeggiava sugli stendardi dell'armata nemica, sventolando irata e minacciosa al di sopra di tutti quegli elmi germanici.

“Devo chiudere quelle grate!” si risolse Renier. «Con me!» ordinò ai suoi.

Gli sembrò di correre per miglia. Il frastuono che i suoi soldati producevano con le loro armature echeggiava per i corridoi di pietra.

Percorrendo passaggi celati alla vista, giunsero infine all'ingresso del corpo di guardia costruito sopra il cancello. La porta che vi immetteva era sbarrata e davanti vi era un piccolo drappello di armigeri imperiali, che quasi furono sorpresi nel vedersi piombare addosso dei nemici. Ingaggiarono il combattimento e in pochi minuti ebbero ragione degli avversari, i cui corpi caddero riversi sul pavimento e sul sangue.

Presero ad abbattere la spessa porta di legno a spallate. Dall'altro lato di essa, Alfredo di Stiria ed i suoi sgherri tentavano di puntellarla in tutti i modi. La spia – non sapevano bene come avesse fatto – li aveva abbandonati, con l'ammonimento di mantenere a tutti i costi quella porta chiusa: ne andava delle loro vite e del successo dell'attacco.

Il Marchese Renier, tuttavia, conosceva bene il suo castello e s'era premunito di raccogliere nel mastio alcune grosse asce da boscaiolo ed alcune travi di legno di medie dimensioni. Ordinò di tirare fuori le accette e di usarle contro la porta. Dopo poco l'uscio cedette.

Renier fu il primo ad entrare. In un impeto di furore calò poderosamente la spada contro l'uomo che gli si era parato davanti. Con quel solo colpo, gli recise la mano alzata che stringeva la daga e gli separò il collo dalla spalla destra, facendo arrivare la lama fin nel mezzo della cassa toracica, protetta da nient'altro che una povera stola, la quale s'imbevé di sangue e ben presto non riuscì a contenerne i fiotti.

Gli altri, atterriti dalla sua furia e male armati com'erano, si arresero immediatamente, implorando pietà. Furono presi, legati e gettati in un anglo. Tra quei tre Renier riconobbe il Bastardo senza Terra.

«Tu» constatò con una lama di odio nella voce. «Dunque questa è opera tua. Avrei dovuto dire a mio padre di impiccarti come tutti gli altri, anni fa!».

«No, mio signore! Pietà, ti scongiuro! È stata la spia a dirci di fare questo... noi non sapevamo... Ti prego, è stata la spia!».

«Taci, verme!» esclamò spazientito, rifilandogli un pestone nel ventre e rivolgendosi poi alle cose più urgenti.

Assestando un violento calcio, tolse uno dei due grossi coni di legno posti sul pavimento per fermare l'argano ed impedirgli di ruotare, abbassando così l'inferriata che reggeva. I suoi comites lo imitarono e i due argani presero a girare vorticosamente.

Con uno stridio metallico agghiacciante, una dopo l'altra le due saracinesche di ferro del cancello piombarono velocissime incontro al terreno. I rostri acuminati che spuntavano dal lato inferiore trafissero la carne dei soldati germanici che vi stavano passando sotto, ignari. Il peso di quelle reti di metallo era tale che le armature e le ossa dei malcapitati si frantumarono, le loro carni furono spappolate ed alcuni corpi vennero persino tranciati a metà. Nulla poté arrestare la corsa di tutto quel ferro fintantoché non si congiunse al terreno con due cavernosi tonfi.

Le strazianti urla di coloro che erano rimasti schiacciati attraversarono il pavimento di pietra dell'arco e giunsero sino alle orecchie del Marchese e dei suoi uomini, indaffarati nel corpo di guardia che si trovava esattamente sopra.

«Direi che il cancello ora è chiuso» disse sogghignando uno dei cavalieri veneziani.

«Presto!» esortò Renier Dandolo, non badandogli. «Tu!» ordinò. «Corri da mio cognato e digli di quanto è successo qua. Digli di risalire con le truppe la strada fino al cancello e distruggere i germani che sono intrappolati tra lui e l'ingresso». Non poteva certo affidarsi all'intuito tattico ed allo spirito di iniziativa di suo cognato Riccardo in un momento delicato come quello. I suoi primi ordini erano di mantenere la posizione e lui sarebbe rimasto asserragliato là fino al Giorno del Giudizio, se qualcuno non gli avesse comandato altrimenti. «Vai!». Il soldato si dileguò.

«Voi! Tirate su la porta e puntellatela con le assi» ordinò agli altri. «Non devono entrare qui dentro. Non devono riaprire il cancello. Dobbiamo resistere ad ogni costo!» disse, mentre le balestre imbracciate da due dei suoi armigeri, che s'erano messi a tirare dalle feritoie, emettevano il loro letale sibilo.

*


Gli uomini erano posizionati. Un assembramento di casacche bordeaux e oro ingombrava la via lastricata che scalava la piccola altura e dava accesso alla piazza e all'ingresso del dongione. Nello spazio ridotto, i lancieri pavesi avevano formato un muro di scudi e lance per sbarrare il passaggio là dove l'incrocio con un altra strada segnava l'inizio del pendio. Immediatamente dietro erano schierati i lancieri italici, i cui scudi tondi erano meno adatti a formare uno sbarramento compatto. Ancora più indietro, vi erano infine le unità di sagittari, posizionate a scaloni lungo la via in pendenza, cosicché il tiro di ciascuna compagine non fosse ostacolato dalle altre.

“Bene. È una posizione difficile da scalzare. Moriranno come mosche assaltandoci qui” rifletté compiaciuto Riccardo Natale, mentre i suoi sergenti sbraitavano gli ultimi rabbiosi ordini ai pochi che ancora non erano in formazione.

«Quei fottuti crucchi hanno solo da provarci a venir fin qua!» si galvanizzò uno di loro.

«E tu lascia che vengano. Ho proprio voglia di menar le mani stamattina... Ma non ditelo al prete, ché sennò ci fa una predica che non finisce più!» esclamò Riccardo, suscitando l'ilarità dei suoi. Il sangue già cominciava a ribollirgli di quel ferale eccitamento che lo prendeva ad ogni combattimento. Fuori dalle lotte e dalle mischie non era un uomo violento né particolarmente bellicoso o attaccabrighe, e di solito non cercava immediatamente lo scontro; ma quando era la battaglia a venirgli incontro, non si tirava certo indietro e là veniva alla luce il suo lato più istintivo e letale. Il che, quasi sempre, lo portava a fare scempio del nemico.

Per questo la gente lo definiva un gran combattente, e gli uomini erano sempre felici di averlo dal proprio lato nel momento cruciale. Vedere il proprio comandante gettarsi nella mischia con sprezzo del pericolo, abbattendo avversari di qua e dilaniandone altri di là, era sempre un toccasana per il morale della truppa.

L'attesa del nobile Riccardo Natale non dovette comunque durare a lungo. «Signore, arrivano!» fu informato. Estrasse la spada e si portò nelle prime file, vicino ai lancieri pavesi, facendo cenno ai sergenti di dare i comandi ai sagittari.

«Incoccate» sbraitarono.

«Mirate».

«Scagliate».

E gli arcieri scoccarono. Un nugolo di frecce si parò davanti alla vista dei lancieri lotaringi imperiali che per primi stavano sciamando per la via.

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I muri e l'argine scosceso dell'altura che delimitavano la via li costringevano ad avanzare più lentamente ed assiepati in colonna. I dardi si abbatterono su quella massa marciante di lance, scudi, elmi, volti e mani e vi aprirono grossi varchi, trapassando le armature ed infilzando le carni degli uomini.

Se c'era una cosa che ogni arciere sapeva, era che non esisteva freccia più efficace di quella lanciata dall'alto su un mucchio compatto. E i veneziani avevano costretto gli assalitori germanici proprio in quella mortifera situazione: i soldati imperiali non potevano far altro che continuare ad avanzare il più velocemente possibile per tentare di ingaggiare il nemico in un furioso corpo a corpo.

La densità del loro assembramento, tuttavia, era tale che ad ogni raffica di dardi, l'intera compagine pareva barcollare ed arrestarsi sotto la tagliente grandinata, per poi riprendere frastornata la corsa. I lancieri pavesi erano ancora in attesa che qualcuno dei nemici arrivasse alla loro linea di difesa.

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Cosa che gli imperiali riuscirono finalmente a fare poco dopo, gli uomini titubanti delle prime linee sospinti in avanti dalla pressione di quelli che stavano più indietro.

I lancieri lotaringi erano fanti pesanti ben disciplinati, protetti da un'armatura a scaglie e da un elmo di tipo spangenhelm, armati con un ampio scudo a goccia ed una robusta lancia; venivano reclutati nel cuore germanico del Sacro Romano Impero e solitamente componevano il nerbo dei suoi eserciti. Furono loro a caricare per primi la linea dei lancieri pavesi.

La mischia avveniva scudo contro scudo, lancia contro lancia. Il sangue imbrattava pelle e metallo, le acuminate punte che cercavano di trafiggere il bersaglio, fosse esso un braccio, un volto, una gamba od un torace. Sebbene i fanti germanici fossero meglio e più pesantemente armati, i lancieri pavesi erano però avvantaggiati dalla posizione, chiusi nella loro formazione a muraglia, e cominciarono in breve ad avere la meglio. Tanto più che spesso gli spintoni dei propri compagni che accorrevano alle loro spalle finivano per sbattere i soldati germanici sbilanciati in prima fila direttamente contro le lance pavesi, risparmiando ai veneziani la fatica di infilzarli di propria mano.

Riccardo Natale combatteva furiosamente. Attorno a lui giacevano tre cadaveri, ed in un attimo un quarto se ne aggiunse, con la testa mozzata da un poderoso fendente della sua lama. Stava riempiendo di calci e colpi di spada lo scudo di un lanciere che s'era accasciato a terra, riparandosi sotto di esso, quando due fragorosi tonfi, originati da qualcosa di metallico estremamente pesante che scontrava il terreno, e preceduti da un lacerante stridio, eruppero nell'aria, sovrastando la cacofonia del combattimento.

“Sembravano le grate...” si disse. «Continuate a combattere!» sbraitò agli uomini vicini che si erano distratti, presi alla sprovvista da quel cavernoso rumore che era giunto dal fondo della via, in direzione del cancello settentrionale.

Sebbene ancora non lo sapesse, il lungo serpente di uomini e cavalli nemici che si stava scavando la strada nel castello, attraverso il varco della porta violata, era stato decapitato. La colonna germanica, la quale continuava ad attraversare il cancello nord per riversarsi oltre le mura e nella strada dove i veneziani sbarravano il passo con lance, scudi e frecce, era stata tagliata in due tronconi dalle saracinesche che il Marchese Renier e i suoi erano riusciti finalmente ad abbassare. All'incirca un terzo delle forze imperiali si trovavano ora intrappolate tra lo schieramento veneziano nella via e la porta nord richiusa, mentre gli altri due terzi, privi di scale ed equipaggiamento d'assedio, sarebbero stati costretti a rimanere all'esterno delle mura, tagliati fuori dal combattimento, fintantoché le grate non fossero state rialzate.

Riccardo Natale continuò a combattere e ad incitare i suoi a fare altrettanto. Attacco dopo attacco, i soldati imperiali si riversarono contro il muro di scudi dei lancieri pavesi, senza mai riuscire ad infrangerlo. A decine cadevano falcidiati dalle raffiche di dardi scoccati dai sagittari, per i quali, vista la posizione sopraelevata e la calca dei nemici, era difficile mancare il bersaglio.

Le forze imperiali cominciavano a perdersi d'animo ed un certo malcelato panico cominciò a serpeggiare tra i soldati germanici e crebbe man mano che la notizia che erano intrappolati tra il cancello chiuso e la formazione veneziana correva verso le prime file impegnate nel corpo a corpo.

Un armigero dall'aria trafelata e dal volto accaldato si fece strada tra i lancieri italici rossi e oro, cercando di raggiungere il nobile Riccardo. Era l'uomo che aveva mandato Renier. Quando vi riuscì, lo informò della presa del corpo di guardia e gli riferì gli ordini del Marchese suo cognato.

«Sono in trappola!» urlò Riccardo ai suo, trionfante. «Distruggiamoli! Uomini, avanzare in formazione».

Lentamente, con il ritmico tonfo di centinaia di piedi che si spostano all'unisono, il muro di lancieri pavesi prese a muoversi e a guadagnare terreno, coperto dal fitto tiro degli arcieri. I nemici presero ad arretrare, ma coloro che non lo facevano o non potevano farlo venivano schiacciati e trafitti dalla compatta formazione veneziana in avanzata.

*


Renier Dandolo osservò i suoi uomini mentre liberavano l'entrata del corpo di guardia dalle grosse schegge di legno ancora incardinate e dagli altri rimasugli rimasti attaccati alle borchie di ferro: tutto quello che rimaneva della massiccia porta di quercia. Li osservò anche quando sgomberarono il pavimento dai cadaveri di amici e nemici, trascinando i corpi sul pavimento viscido di interiora, cervella, sangue e altri fluidi corporei, per ammucchiarli ai lati della stanza e dividerli dai feriti. La soffocante aria di quell'ambiente chiuso era pregna dell'odore della morte e nauseabonda.

Il Marchese Renier e la ventina di armati che erano con lui avevano tenuto il corpo di guardia a tutti i costi. Si erano trincerati là dentro, bloccando la porta, già in precedenza divelta, con le assi ed i puntelli che si erano portati dietro, e con tutto quello che erano riusciti a trovare. Sino alla fine dei combattimenti all'interno delle mura di Verona, non avevano fatto altro che resistere ad un nemico che tentava in tutti modi di fare irruzione all'interno della stanza degli argani: era infatti vitale per i soldati imperiali riaprire le saracinesche del cancello, così da sbloccare la trappola che si era creata e permettere al grosso del loro esercito, chiuso fuori dai bastioni, di riversarsi all'interno del castello.

Dapprima avevano provato ad abbattere la porta con calci e spallate. Poi erano passati ad utilizzare qualsiasi ferro avessero sottomano per disfare il legno della porta: spade, lance, daghe ed asce. Quando le prime brecce s'erano aperte nelle assi di quercia dell'uscio, Renier e i suoi non avrebbero saputo dire quante mani e teste e corpi si stavano adoperando dall'altro lato contro quell'ingresso, ma avevano comunque preso a tirare di balestra e fendere di spada e di lancia tutta la carne che arrivava a portata dei fori.

Ben presto, intere sezioni della porta erano state disfatte dalla furia con cui gli imperiali vi si erano accaniti contro. L'ingresso, ingombro di assi sbrecciate, travi spezzate e corpi dilaniati le cui armature grondavano di rosso, era ostruito di soldati che tentavano di irrompere nella stanza ed accoppare con la forza bruta i difensori. I veneziani avevano usato ogni mezzo per fermarli. Era stata una lotta ferale, sia gli uni che gli altri presi da una frenesia primordiale di violenza e morte, nella quale per tutti il prezzo della sconfitta era la vita.

Erano andati avanti per quelle che a Ranier erano parse giornate intere. Assuefatti alla carneficina che riecheggiava amplificata dalle spesse ed anguste pareti di solida pietra, macchiate di sangue, gli arti ed i sensi avevano preso a ricercare la morte dell'uomo che si parava loro di fronte senza che alcun comando cosciente gli fosse dato.

Quando finalmente l'avanzata della formazione agli ordini di Riccardo Natale era arrivata al cancello, lasciandosi dietro solo prigionieri o morti, e quando finalmente aveva preso possesso degli ingressi a fianco dell'arco del cancello, alla base dei bastioni, i soccorsi erano arrivati. Le compagnie di sagittari avevano invaso gli spalti delle mura per prendere a tirare contro la parte dell'esercito imperiale rimasta tagliata fuori, la quale già si era rassegnata a ritirarsi, non avendo i mezzi per prendere d'assalto le mura. Un nutrito manipolo di fanti veneziani, con in testa lo stesso Riccardo, aveva ucciso o catturato gli ultimi germanici che si assiepavano presso quell'uscio senza più porta maledetto da Dio. E infine avevano trovato il Marchese e cinque dei suoi comites, gli unici sopravvissuti, marci di sudore ed ansimanti in mezzo ad una claustrofobica e soffocante distesa di pietra, carne, ferro e sangue.

«Abbiamo vinto!» urlò trionfante Riccardo all'indirizzo di Renier, la spada con la lama tinta di rosso ancora in pugno.

Egli, riscossosi dalla catatonia che l'aveva preso per un momento, non gli rispose né gli badò. «Nelle segrete» si limitò ad ordinare, indicando con un gesto eloquente il bastardo Alfredo e i due sgherri, tremanti e pallidi come dei cenci, ancora tutti e tre legati e fermi nell'angolo dove li avevano inizialmente gettati. L'indomani li avrebbe costretti a dirgli tutto ciò che sapevano, anche per mezzo della tortura se necessario, e poi li avrebbe fatti impiccare come meritavano.

Lasciò il corpo di guardia lentamente, in silenzio, seguito dal suo scudiero, il quale per tutto il tempo dei combattimenti era stato al suo fianco. Percorse la via dove aveva avuto luogo il grosso dello scontro con il solo intento di giungere al mastio, entrare nei suoi alloggi e lavarsi tutto quel sangue via di dosso.

Il cielo livido, tumefatto come molti dei cadaveri lì attorno, aveva infine permesso alla pioggia di cadere. Piangeva, forse.

Era vero: avevano vinto. E la vittoria era stata conquistata unicamente grazie alle azioni sue e del suo drappello di guerrieri, loro che avevano così valorosamente ripreso e tenuto il corpo di guardia del cancello.

Ma Ranier non era per niente in vena di festeggiamenti. Al momento era a corto di qualsiasi tipo di energia o rimasuglio di umanità per avere la forza di gioire. Quella non era certo la prima battaglia o il primo massacro che vedeva e a cui aveva preso parte, s'intende. Tuttavia la giornata e la demoniaca violenza del combattimento nell'ambiente angusto del corpo di guardia l'avevano svuotato, prosciugandogli l'animo.

Percorrendo a passi lenti e cauti la via lastricata di ardesia e sangue, osservò i corpi che giacevano tutt'attorno, qua e là, e la pioggia lieve che li toccava insistentemente ed impercettibilmente.

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Gli venne stranamente in mente la Messa della mattina, improvvisamente disturbata, e quel Pater noster incompiuto. Quel Pater noster che avevano interrotto proprio all'ultimo verso, a metà dell'invocazione a Dio misericordioso perché avesse pietà di loro e li liberasse dagli orrori del mondo.

In mezzo a quella desolazione, come un bisogno che quasi affiorava dall'anima, gli venne spontaneo concluderlo. «Sed libera nos a malo» disse in un sussurro.

«Amen» concordò lo scudiero accanto a lui.
[Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 21:16]




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