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Nel frattempo il Regno cominciava a prosperare. I traffici commerciali inverdivano, le strade erano percorse da viandanti e piccole carovane, le greggi e le mandrie pascolavano numerose sui prati e sulle torbiere, sempre nuovi terreni erano strappati agli artigli delle grandi foreste e dei piccoli boschi e messi a coltura; non v'era villaggio, città o castello che non avesse una qualche opra di deforestazione o bonifica in corso, come non v'era insediamento ove non fosse cominciata la costruzione di qualche nuovo edificio, da una cappella ad una bottega per il fabbro, da un banco del grano od un mercato ad una struttura portuale, da un alloggiamento della guarnigione ad una sala consigliare.

Le iniziative dei mercanti si moltiplicavano e spandevano: diversi tra loro tornarono a viaggiare oltre i confini del Regno in tutta l'Europa occidentale, sostenuti in questo dalla diplomazia del Cancelliere dello Scacchiere, il quale continuava ad inviare i propri legati per raggiungere con gli altri Regni europei accordi commerciali che aprissero le porte delle risorse di ciascuno ai traffici dell'altro.

In particolare, due rilevanti spedizioni mercantili si dipartirono in quegli anni, tra il 1157 et il 1162, dall'Inghilterra e viaggiarono verso sud e verso est, per raggiungere sia le calde terre iberiche e almohadi, ove avrebbero commerciato sete e tessuti, la carta di Xatavia, l'oro e gli schiavi della catena africana dell'Atlante, sia per recarsi nelle ricche terre italiche, ove la carta di Fabriano, le ceramiche et il vetro veneziani, il marmo della Tuscia e dell'Istria, le sete et il sale della Sicilia sarebbero state le merci da loro trafficate. Anche i giacimenti d'oro della Boemia furono raggiunti, ma colà sempre erano scontri con i mercanti imperiali e polacchi et il controllo di quei traffici passava continuamente dall'uno all'altro, o nelle mani di questi, o nelle mani di quelli o nelle mani di quegli altri ancora. La preziosa ambra delle terre danesi di Selandia, invece, divenne con il tempo esclusivo appanaggio dei mercanti inglesi.

Le produzioni interne al Regno non erano poi da meno, e spiccavano tra queste i rinomati vini dell'Aquitania et i metalli ferrosi estratti in Bretagna, Devon e Galles. Ma sopra ogni altra cosa, grande ricchezza procurava all'Inghilterra il traffico della lana, la quale, ricavata dalle numerose greggi che si moltiplicavano sempre più, veniva riunita in matasse nei sacchi o filata cogli arcolai e stivata nei porti della Manica, donde, per mare, giungea ai laboratori delle terre fiamminghe, i quali la lavoravano in tessuti. E sì grandi erano codesti traffici che l'allora Conte delle Fiandre, Thierry d'Alsace, un nobile più o meno indipendente dai suoi potenti vicini di Francia e Germania, volle mettervi mano e tassare il commercio della lana con un pesante et iniquo dazio, da cui concupiva di ricavare ingenti ricchezze personali. Gravi erano gli effetti di codesta gabella, i quali incidevano di molto sul commercio laniero e sulle casse dello Scacchiere.

Già prima che le gilde mercantili, le quali prendeano sempre più a fiorire nel Regno, si presentassero insistentemente in ambascerie persso la Corte, chiedendo a gran voce azioni risolute contro i Fiamminghi, il Re avea risolto assieme ai suoi Lord consiglieri di portare la guerra nelle Fiandre e di sottometerle al potere dell'Inghilterra. Una mossa siffatta avrebbe, d'altronde, non solo riaperte libere e fruttuose strade al commercio della lana, e non solo fatto acquisire al Regno il possesso di un feudo molto ricco, ma avrebbe anche assicurato agli Inglesi il controllo di una regione chiave sul continente e molto ambita e dalla Francia e dall'Impero, le azioni d'invasione dei quali, nei confronti della regione fiamminga, apparivano ai più accorti come una mera questione di tempo. Il Re era inoltre alquanto indispettito dall'arrogante e riottosa irriverenza del Conte Thierry d'Alsace, et all'enessima ambasceria fiamminga che recava uno sdegnoso et offensivo rifiuto di riconoscere le ragionevoli prerogative inglesi e l'apertura di una trattativa sulla questione, incorrendo in uno degli esplosivi accessi d'ira per i quali il suo forte carattere era noto, il Sire ordinò che i messi fiamminghi fossero ricondotti in malo modo alla loro terra natia, recando seco al proprio signore unicamente ceppi e catene, l'unica risposta appropriata che per Enrico II potea darsi al Conte delle Fiandre.

Nel frattempo, altre nuove erano giunte a Corte, nuove che riferivano della presa della vasta Contea di Tolosa da parte delle forze aragonesi e che, sebbene non individuassero un pericolo immediato per il Regno, convinsero il Re di come un'espansione et un rafforzamento dell'Inghilterra erano urgenti e d'uopo.


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Fu così che il Re radunò le truppe necessarie nei pressi di Canterbury, nell'Essex, e parò un esercito sì di medie dimensioni, cossicché le casse del Regno non fossero dissanguate, ma altresì di qualità elevata, composto da due battaglioni di lancieri corazzati, da altri tre di archi lunghi – armi codeste che il Re avea adottato nelle proprie forze dopo che Lord Hamelin ne aveva potuto constatare la grande efficacia in occasione della guerra contro il Galles – e dai due battaglioni di cavalieri feudali che costituivano la guardia del Sire. Imbarcatosi al porto di Chatham, all'estrema foce del Tamigi, et attraversate sulle navi le acque comprese tra lo Stretto di Dover et il Mare del Nord, sbarcò con i suoi 450 uomini circa nei pressi del porto fiammingo di Bruges, il quale quasi subito cadde nelle mani degli Inglesi. Fu indi respinta una manovra delle forze fiamminghe che accorrevano, in ritardo, a difendere Bruges. Apertisi la strada a colpi di lama, le truppe del Re mossero contro la città di Gand, capitale delle Fiandre, la quale fu cinta d'assedio nell'anno Domini 1160 e tuttavia non fu assaltata.

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Le forze inglesi, infatti, erano inferiori al numero dei difensori cittadini, e per loro un assalto frontale delle mura avrebbe costituito un grande rischio; altresì gli assediati, guidati dal Conte Thierry d'Alsace stesso, si asteneano dall'effettuare un attacco di sortita contro gli assalitori, giacché aveano timore dalla fama del Re e delle sue truppe, conquistata nelle terre di Bruges poc'anzi, e giacché gli Inglesi, prevedendo un lungo assedio, aveano eretto tutt'attorno alla città terrapieni e palizzate difensive, al fine d'isolare completamente l'insediamento et impedire colpi di mano da parte dei Fiamminghi. Per sostenere i costi dell'assedio, oltre ai bisanti che – v'è da dire: al contrario di quanto si possa pensare vista l'accortezza dello Scacchiere sotto l'Arcidiacono Rufo – arrivavano quasi con generosità dal tesoro del Regno, il Sire permise che fossero saccheggiate alcune magioni e case nobiliari, ma soltanto quelle direttamente riconducibili al Conte et ai suoi fiancheggiatori, mentre le proprietà dei plebei e dei piccoli nobili fiamminghi che s'erano schierati dalla parte di Enrico II furono risparmiate.

Si racconta di come, dopo alcuni mesi d'assedio, un messo del Re s'avvicinasse ai cancelli sprangati della città e, data una voce alle sentinelle di guardia nemiche che lo vedevano ivi giungere per parlamentare, comunicasse ai difensori l'offerta del Plantageneto, il quale avrebbe risparmiato la vita di tutti loro in cambio della resa immediata. Dagli spalti lignei s'affacciò indi lo stesso Thierry d'Alsace, il quale lanciò nell'aere, in direzione del messo, un qualche cosa di metallo. Il messo guardò il grovigio ferroso ch'era rovinato sul terreno, a qualche passo da lui, e vi riconobbe le stesse catene e gli stessi ceppi che il Re avea irosamente consegnato, mesi prima, all'ambasceria fiamminga, e sentì il Conte esclamare a gran voce dalle mura: "Rendiamo all'illustre Sire d'Inghilterra, Enrico il Mangiarane, la sua risposta, giacché essa si addice più a lui che a noi!".

Il messo inglese raccolse i vincoli da terra e li portò al campo del Re. Entrato nella tenda reale, ov'Enrico era intento a pianificare con i propri attendenti, consegnò al Sire i pesanti vincoli e gli riferì le parole dell'Alsace. Il Re – da quel che si narra – rosso divenne in volto e la sua ira proruppe come fiume in piena, tanto che tra parole e grida di collera egli ribaltò nell'impeto il pesante tavolo d'abete su cui poggiavano mappe e cibo e candele. L'ira del Re fu tale che alcuni dei suoi attendenti colà presenti, homini forti et avvezzi alla crudezza della guerra, furtivamente si defilarono, temendo addirittura per la propria incolumità. Ma il Re non era solito rivolgere la propria collera su coloro che non la meritavano o non n'erano la ragione, bensì su coloro che lo offendeano e gli erano nemici. Così egli diede spietatamente ordine che tredici tra i numerosi prigionieri fiamminghi, catturati mentre tentavano di recare celatamente vettovaglie e rifornimenti alla città assediata, fossero impiccati con quelle stesse catene, uno al giorno, uno dopo l'altro, per tredici giorni consecutivi. Et ordinò che lo fossero in un loco all'interno della terra di nessuno, tra le mura cittadine et i terrapieni d'assedio, un loco che non potea non vedersi dagli spalti di Gand. Et ordinò ancora che, una volta terminate le impiccagioni, i vincoli usati a guisa di corda fossero conservati, perché con essi – a Dio piacendo – si sarebbe incatenato et impiccato lo stesso Thierry d'Alsace.

Per trdici giorni e tredici notti il corpo inerte et agonizzante di un prigioniero fiammingo, ogni dì diverso, penzolò dall'alto del ramo di una grossa quercia, schelettrica e spoglia, radicata su un piccolo colle brullo di poco distante dalle mura urbane. Il lieve cigolio e clangore metallico che da quelle catene appese e mosse dal vento giungea all'orecchio era invero spaventevole, e rendea il tutto ancora più sinistro. E per tredici giorni l'inquietudine gravò come una presenza fisica sui cuori di tutti quei Fiamminghi che, o per guardia o per altro, stavano sugli spalti; persino il borioso Conte ne fu colpito e sentì germinare nel suo animo il dubbio e la paura.

L'assedio intanto perdurava, mese dopo mese, e sebbene all'interno della città scoppiassero epidemie e pestilenze, dilagasse l'inedia et il morale s'abbassasse sempre più, i Fiamminghi resisteano, ma non attaccavano. Probabilmente Thierry d'Alsace era ancora convinto che prima o poi sarebbero giunte forze di soccorso dal castello d'Anversa e che, pertanto, bisognasse resistere fintantoché i loro alleati non avessero attaccato le linee inglesi alle spalle. Egli però era all'oscuro di come il signore d'Anversa si fosse già accordato con il Re, et in cambio della promessa che avrebbe mantenuto il proprio titolo et il proprio feudo, aveva giurato fedeltà all'Inghilterra.

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Frattanto, alcune notizie di importante rilievo giunsero colà al Sire Plantageneto, intento nell'assedio di Gand. La prima lo informava che, a conclusione di lunghe trattative diplomatiche con il nordico Regno di Norvegia, avea avuto luogo nel marzo dell'anno di grazia 1161 il matrimonio tra la Principessa norvegese Brigida Haraldsdotter et il Principe Goffredo Plantageneto, matrimonio che andava a sigillare la nuova alleanza tra i due Regni.


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Tale alleanza rafforzava la posizione dell'Inghilterra, ponea al riparo da eventuali scorrerie dei normanni, i cui padri soprattutto erano stati alacri nel fare ciò, le terre inglesi settentrionali e mettea sull'avviso gli infidi e bellicosi nobili scozzesi delle Lowlands e delle Highlands.

Le altre nuove riferivano invece di decisi movimenti del Regno di Castiglia e Leon e di quello d'Aragona contro le regioni indipendenti limitrofe alle terre plantagenete in Francia. E riferivano soprattutto di una grande paura che tornava ad invadere la cristianità: una jihad era infatti stata indetta contro Costantinopoli dagli infedeli musulmani, e l'eventuale caduta della grande città, baluardo di ciò che rimanea della grande Roma e porta d'Europa sull'Oriente, avrebbe significato il ritorno dell'incombente minaccia islamica sulle terre cristiane del continente.


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Intanto, l'assedio della capitale fiamminga si avviava al proprio termine. Poco dopo l'arrivo del nobile Sir Stefano II di Cowles, il quale avea sposato la Principessa Maria di Blois et avea così fatto entrare la propria casata nel novero delle grandi d'Inghilterra, i difensori di Gand, oppressi dalla fame e grandemente ridotti nel numero per via dell'inedia e delle pestilenze, si risolsero a condurre un attacco disperato per spezzare il blocco inglese.

La battaglia che seguì ebbe luogo innanzi alle porte occidenatli della città, sul suolo, gelato dall'inverno, della terra di nessuno. Nel mentre i Fiamminghi faceano fuoriuscire dai cancelli i propri homini, il cui numero era più che dimezzato dall'inizio dell'assedio e si attestava ora sulle 334 unità, il Re ebbe tempo di schierare i suoi 500 soldati (o poco meno) in formazione da battaglia. Prima che i nemici completassero le loro manovre, la cavalleria feudale inglese diede di sprone e caricò i reparti di cavalieri pesanti fiamminghi, che già si dirigeano di gran lena verso le file degli archi lunghi al fine di spazzarle via e sottrarre agli Inglesi il grande vantaggio che questi davano loro.


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La cozza fu terribile e le lance in resta dei militi inglesi penetrarono nella carne dei cavalli e trafissero le cotte di maglia dei nemici. Questi risposero all'assalto e combatterono con tenacia, ma erano inferiori di numero, debilitati nel fisico, et i loro cavalli anch'essi (molti di quei fieri animali erano infatti serviti da pasto agli assediati durante i lunghi mesi di blocco): in breve tempo furono costretti a ritirarsi.

Fu allora che il Conte d'Alsace, vedendoli fuggire, scese in campo accompagnato dalla propria scorta montata e, radunati i superstiti, guidò la carica contro il centro dello schieramento inglese, ove i due battaglioni di sergenti corazzati, posti a protezione degli arcieri, si paravano ad accoglierli.


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Questi, a costo di diverse perdite, ressero l'urto dei cavalieri fiamminghi e li impegnarono in un combattimento spalla a spalla.

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La cavalleria inglese, frattanto, muovendo una manovra d'accerchiamento, si unì alla pugna, colpendo il nemico sul fianco et alle spalle. Il sangue prese ad imbrattare le armature e le lame dei combattenti. Accerchiati da tutti i lati, i cavalieri fiamminghi soccombettero tutti, chi ucciso da una lancia, chi ferito da una spada, chi catturato, et il Conte fu infine disarcionato e fatto prigioniero dagli homini del Re, che lo trascinarono via urlante – ordine del Sire era infatti quello che non lo si uccidesse, ma lo si catturasse vivo.

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Annientata l'intera cavalleria nemica e colpiti i Fiamminghi nel loro morale, le linee inglesi si ricomposero e lasciarono che la sibilante opra degli archi lunghi concludesse lo scontro. La fanteria fiamminga difatti, non potendo star dietro alla velocità della propria controparte a cavallo, s'appropinguava solo in quel momento contro i nemici et era per la maggior parte composta dai rinomati picchieri delle Fiandre, terribili quando il loro muro d'aste s'abbatte contro cavallieri e fanti alla carica, ma lenti e vulnerabili a rapide manovre in campo aperto et alle frecce. Essi erano là, che lentamente avanzavano in formazione, alla stregua di enormi e minacciosi istrici. Ma nulla poteano contro il micidiale tiro degli archi lunghi, i quali ebbero tutto il tempo di traffiggerne continuamente i ranghi dalla distanza e di volgerli in fuga, decimati. Nella loro rotta, i picchieri coinvolsero anche i pochi spadieri et arcieri fiamminghi rimasti, titubanti innanzi all'avanzata degli Inglesi. E fu cosa facile per i cavalieri del Re inseguirli e concludere lo scontro: tutti i soldati difensori erano stati catturati od uccisi, a fronte di 143 homini persi dagli Inglesi.

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Una volta che le truppe inglesi ebbero preso possesso della città e, per piegarne l'insolenza, l'ebbero saccheggiata, mettendo assieme 1.544 bisanti per le casse dello Scacchiere, il Re ordinò che si compisse il fato del tracotante Thierry d'Alsace. Egli fu preso et impiccato, in spregio al suo rango, ai rami di quella stessa quercia ov'erano stati appesi i tredici prigionieri, e lo fu con quelle stesse catene per mezzo delle quali lo erano stati loro e che cotanta parte aveano finito per avere nei rapporti tra il Conte fiammingo e l'Inghilterra. A chiunque fu proibito di toccare e seppellire quel corpo penzolante, et esso fu lasciato lì per lungo tempo alla mercé degli elementi e delle bestie. Il Re, frattanto, tornò in Inghilterra, alla sua Corte di Londra, per riprendere in mano più appropriatamente l'amministrazione del Regno.

Fu così che, dopo tre anni e più d'assedio, nell'inverno del 1163, la città di Gand cadde e le Fiandre furono sottomesse. Stefano II di Cowles diveniva il nuovo Conte di Fiandra e le manovre militari sul fronte fiammingo aveano termine.


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Nel mentre, la convulsa situazione dei feudi e dei signori del continente francese andava definendosi, in particolare modo per l'azione degli Aragonesi, i quali aveano preso possesso della Contea d'Alvernia e Rouergue, e per mano degli Imperiali, i quali erano calati sulla Savoia e sul Delfinato et aveano espugnato la ricca città di Lione.


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Erano comunque tempi di pace e di serena industria quelli che il Regno vivea al suo interno e, finita che fu la guerra fiamminga, anche al suo esterno.

I giorni del Re, frattanto, furono allietati dalla gioia di veder venire al mondo, nell'anno di grazia 1164, la sua figlia primigenita, che egli, in brevissimo tempo imparò da amare grandemente. Vero era come il Re, in cuor suo, desiderasse ardentemente un maschio, in particolar modo affinché si mettesse al sicuro la successione al Trono, e tuttavia v'era qualcosa nella personalità di quella graziosissima bambina sua figlia che gli ricordava se stesso e gli facea intravedere il carattere forte e la grandezza di sua madre. E così mai vi furono mesti periodi tra lui e la figlia e sempre v'era grande amore paterno et altrettanto amore filiale, e rispetto et orgoglio.

Per i primissimi anni la Principessa, che portava il fiero nome di Alexandra, fu accudita dalla madre, la Regina Eleonora d'Aquitania, e cresciuta presso di lei. Quando però ella raggiunse i cinque anni d'età, il Re Enrico volle che prendesse ad abitare presso l'Imperatrice Matilde, la di lei nonna, nell'Abbazia di Notre-Dame-du-Pré a Rouen, in Normandia, affinché quest'ultima potesse crescerla et educarla nelle cose che concernono una Principessa e Dama d'Inghilterra et anche nelle cose del potere secolare e del governo, in cui Matilde era grandemente versata. La Principessa Alexandra visse dunque la sua prima giovinezza colà, istruita et accudita dall'illustre nonna, con la quale instaurò un rapporto filiale simile a quello che avea con il Re suo padre. Ella cresceva in quegli anni bella et in salute, forte e fiera nell'animo, elegante nel portamento e nelle maniere, erudita et astuta nella mente.

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Giungea all'attenzione del Re, frattanto, la notizia di grandi movimenti delle forze scozzesi. Esse infatti aveano attraversato il Canale del Nord, partendo con le navi dal porto scozzese di Wigtown, et erano sbarcate nell'Irlanda orientale, espugnandone la principale città, Dublino, e sottomettendo l'intero cosiddetto Mide.


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Diversi tra i grandi Lord d'Inghilterra chiesero ad Enrico II di rivendicare contro gli Scozzesi i diritti inglesi alla sovranità sull'Irlanda, e di mettere in atto una contromossa, attacando la città irlandese di Cork. Ma il Re non concordò con i consigli dei suoi nobili, giacché non ritenea i tempi maturi per intraprendere un'altra spedizione – la guerra nelle Fiandre s'era conclusa soltanto da un anno. In più, mantenere sotto il tallone le bellicose genti irlandesi e terminare la conquista della loro verde isola sarebbe costato molti homini et infinite fatiche al piccolo Regno di Scozia, la qual cosa avrebbe fiaccato le loro risorse per un'eventuale guerra contro l'Inghilterra: tale pensiero rinfrancava l'animo del Re, che decise indi di porre da parte, per il momento, la questione irlandese.
[Modificato da ~ Cerbero ~ 09/12/2012 13:51]