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Capitolo V
Venti di guerra




Pola, 14 aprile 1172.

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Il pomeriggio era nuvoloso. Una sostenuta brezza spirava da nord-ovest, portando con sé grigie nubi che si dipanavano veloci nel cielo per assumere forme enormi ed inquiete, quasi a minacciare la terra sottostante. Il mare ondeggiava infastidito ed il grido dei gabbiani riempiva l'aria umida e primaverile. Altre navi stavano attraccando al porto del castello di Pola, la principale fortezza veneziana in Istria. Nella sommessa cacofonia generale di piedi in marcia, ordini di ufficiali, sciabordio del mare e richiami dei gabbiani, si poteva distinguere il ritmico rumore di centinaia di remi che muovevano all'unisono per infrangere le onde. Erano giorni che le galee andavano e venivano dallo scalo, sbarcando truppe ed approvvigionamenti che si univano a quelle già in attesa nei pressi del castello. Una flotta di notevole entità, radunatasi poco fuori il porto in una delle insenature naturali della costa, stava ora rientrando tra le banchine fortificate, per proteggersi dal mal tempo in arrivo. Tutto il paesaggio era animato da un fervore marziale, seppur misurato: cavalli, soldati, carri ed ufficiali si muovevano ordinatamente qua è là intenti nelle loro attività, le botteghe artigiane di fabbri, conciatori ed arcai erano all'opera per preparare armi, armature, selle, briglie, ferri per i cavalli, mentre i magazzinieri e i foraggieri spostavano le provviste sui carri delle salmerie o le stivavano nelle cambuse delle navi. Sotto l'esperta guida del Marchese d'Istria Enrico Polani, un'alacre attività ferveva per approntare tutti i preparativi necessari.

La Serenissima scendeva in guerra.

Dal Veneto, dall'Istria e dalla Dalmazia giungevano in quelle settimane uomini e cavalli, mentre altri si radunavano ai più lontani confini sud-orientali della Zeta. E l'Arsenale di Venezia era all'opera come non mai, poiché decine di nuove navi erano in costruzione ad un ritmo sorprendente. Presto le armi della Repubblica avrebbero portato la distruzione contro i suoi nemici.

All'incirca otto mesi prima, infatti, il Doge Vitale II Morosini-Michiel aveva ricevuto a Verona, dove si trovava per un'ispezione, un urgente dispaccio inviatogli dal Consiglio veneziano. Incredibili notizie erano giunte dall'Oriente.

L'insediamento di Galata, situato nelle strette vicinanze di Costantinopoli, era un vecchio emporio genovese che, con la caduta della Superba, avvenuta dieci anni prima ad opera dei pisani, s'era reso praticamente autonomo e s'era costituito in una piccola potenza marinara commerciale. Nell'estate del 1171 un incendio di grandi proporzioni e di cause ignote l'aveva devastata. Certo, la distruzione di Galata, la quale interferiva non poco nei traffici mercantili della Repubblica, era stata vantaggiosa per i veneziani e da loro salutata di buon grado. Ma non vi erano prove che fossero stati gli agenti di San Marco ad appiccare l'incendio che l'aveva rasa al suolo. E tuttavia l'Imperatore Manuele, non badando all'assenza di prove e cogliendo al volo l'occasione, spinto dai suoi infidi nobili, aveva addossato in tronco la responsabilità a Venezia.

Fu ordinato che tutti i cittadini veneziani presenti sul territorio della Basileia fossero arrestati ed i loro beni confiscati. Più di diecimila cittadini della Repubblica erano stati gettati nelle prigioni romee e decine di migliaia di bisanti erano andate perdute per via dei sequestri fatti degli ufficiali del Basileus. Lo sconvolgimento fu grande a Venezia; l'indignazione ed il risentimento ancor di più.

Bisanzio, infrangendo l'antica amicizia e molti degli accordi che intercorrevano con la Repubblica, aveva voluto ribaltare la situazione della penetrante invadenza commerciale veneziana, fatta di esenzioni da dazi e gabelle e di monopoli mercantili, ed assestare un durissimo colpo all'influenza veneziana in Oriente. In spregio ad un alleato legato ad essa da una lunga e atavica storia, il rancore della Basileia s'era infine mostrato. Quello che era cominciato secoli addietro come uno stretto rapporto di interdipendenza, protezione e collaborazione, sarebbe ora finito nel sangue. Ma il sangue versato sarebbe stato quello dei bizantini, così infatti aveva sbraitato il Doge su tutte le furie.

Quella della vicenda di Galata era un'umiliazione, oltre che un vero e proprio attacco, che Venezia non poteva tollerare in alcun modo.

Il punto di non ritorno s'era poi toccato nel gennaio dell'anno successivo, quando la Basileia aveva mosso guerra contro il Regno d'Ungheria, fedele alleato della Repubblica. L'Imperatore bizantino, vecchio, malfermo ed ormai prossimo alla morte, era facilmente controllato dal Synbasileus e dalle importanti casate romee, di fatto i mandanti di quella ottusa e bellicosa politica.

Se già la gran parte dei trattati commerciali era stata stracciata a seguito dell'"onta di Galata" – così avevano preso a chiamarla i nobili –, dopo l'attacco bizantino contro i magiari anche l'alleanza con Bisanzio era ormai del tutto infranta. Il conflitto che s'annunciava poteva apparire impari, viste le reciproche dimensioni territoriali, ma la Repubblica era ricca, audace e piena di energie, mentre l'Impero Bizantino, seppur antico e sconfinato, era decadente, insidiato da molti nemici e con le casse esangui.

Il rancore del Doge Vitale, come quello dell'aristocrazia, era cresciuto giorno dopo giorno, nutrito dal risentimento che egli provava per un popolo ed una cultura che aveva sempre considerati come vicini ed amici. Una gelida inimicizia era scesa nei rapporti tra le due fazioni ed il Doge aveva ordinato al suo ambasciatore presso Bisanzio – uno dei pochi veneziani che, in virtù dell'immunità accordata ai legati di principi e sovrani, era scampato alla valanga di arresti – di tornare seduta stante a Venezia. Come ultimo atto diplomatico, prima di lasciare Costantinopoli egli aveva consegnato alla Corte bizantina un ultimatum ufficiale di San Marco, che pretendeva l'immediato rilascio di tutti i cittadini veneziani e la riconsegna di tutte le ricchezze a loro confiscate. La risposta bizantina non era giunta.

Venti carichi di guerra soffiavano ormai alla volta dell'Oriente e le navi veneziane si preparavano, armate, a tagliare i marosi con remi e vele per portare l'ira della Serenissima nei mari e nelle terre dei romei.
[Modificato da ~ Cerbero ~ 22/10/2013 23:29]