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Capitolo X
La notte è oscura




Strada per Tessalonica, 11 settembre 1174.

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Era calata la sera. L'alone rossastro che il sole ormai tramontato aveva lasciato dietro di sé, ultima sanguigna traccia di un giorno già morto, era ancora visibile sopra lo scuro profilo occidentale delle alture intorno. Nel campo bizantino prendevano sempre più numerose ad accendersi le luci, l'allegro fuoco delle torce e dei falò che scoppiettava amichevole nel crepuscolo che si infittiva.

Il Synbasileus Alessio Comneno scostò il pesante tendaggio che ricopriva l'uscio del suo padiglione da campo ed uscì all'esterno. Respirò a pieni polmoni l'aria fresca della sera. Non badò alle quattro guardie scelte schierate a fianco dell'ingresso, che si erano irrigidite sull'attenti alla sua comparsa.

Guardò un attimo il cielo. Sebbene non minacciasse pioggia, le nubi si spandevano in ogni direzione, lasciando al cielo soprastante pochi varchi da cui fare capolino, quasi che il pesante velo steso sulla terra fosse vecchio e lacero, cosparso qua e là da piccoli e stiracchiati squarci. Il nero dell'oscurità tingeva lentamente le nuvole, i cui profili ancora rilucevano di flebili riflessi scarlatti. “Sarà una notte senza luna né stelle. Una notte buia” constatò tra sé.

Prese a camminare tra le tende dell'accampamento, facendo visita ai soldati radunati attorno ai fuochi e scambiando con loro alcune parole. Il morale era alto e vino, canti, aneddoti e storielle stavano prendendo ad animare il campo. I soldati erano sempre parsi apprezzare che il loro comandante, nonché erede al trono, si comportasse come un loro camerata, scambiando battute e sedendo un attimo davanti al falò, senza disdegnare la compagnia della soldataglia, al contrario di quel che facevano molti dei nobili bizantini, sprezzanti e altezzosi. Perciò essi non mostrarono remore nel rivolgere la parola con fare amichevole al Synbasileus.

Dal canto suo, Alessio era sempre stato a suo agio tra i propri uomini. Lo spirito cameratesco che si instaurava nell'esercito era il suo elemento: fin da quando era un fanciullo il padre lo aveva portato con sé nelle campagne militari perché potesse – come era solito dire – “respirare l'aria della guerra e diventare un vero uomo”. E quando aveva raggiunto i quindici anni e suo padre era morto, egli era passato sotto la tutela dello zio Andronico Comneno, che ora era il Basileus, infermo e morente, e del cugino Giovanni, caduto per difendere Durazzo dai veneziani.

Non a caso anch'egli era un Comneno ed i Comneni erano sempre stati una stirpe di generali e combattenti, durante i regni dei quali mai né loro né i loro eserciti erano stati in ozio. Di solito i Comneni l'ozio, decadente e raffinato, lo lasciavano agli altri grandi aristocratici romei. Ciò li aveva resi duri e forti, ammirati dal popolo, stimati ed ubbiditi dalla chiesa e, soprattutto, temuti dai nobili. Li aveva però anche resi refrattari alle manovre di palazzo e vulnerabili alle insidie politiche ed alle trame dei maggiorenti della corte di Bisanzio. Quella guerra ne era un esempio: dopo l'incendio di Galata, Manuele I, allorché le sue forze e la sua lucidità stavano venendo meno, era stato indotto dai suoi nobili consiglieri e burocrati ad arrestare più di diecimila cittadini veneziani, a confiscarne i beni per migliaia di bisanti e a infrangere i monopoli e gli accordi commerciali con l'antica alleata. Ben pochi di loro s'aspettavano che Venezia potesse rappresentare un grosso problema, privata della linfa vitale dei suoi traffici in Oriente. Ed invece la Repubblica era scesa in guerra ed il conflitto, sanguinoso e sfiancante, era ancora in bilico, lungi da una conclusione. La guerra non era stata combattuta sui territori veneziani, ma su quelli bizantini; non erano state le case, i villaggi e le città dei veneziani a bruciare, ma quelli dei bizantini; non erano state le terre veneziane ad essere invase, ma quelle bizantine.

Quella era una guerra che l'Impero non avrebbe mai dovuto permettersi di combattere, ma i burocrati laggiù, dietro le maestose mura di Costantinopoli, al sicuro nei palazzi della corte, non l'avevano capito. Presi dai loro giochi e forti dell'influenza che avevano acquisito sull'Imperatore Manuele, essi avevano aizzato un leone che, sebbene erano riusciti anche a ferire, non erano stati in grado di uccidere o domare. E gli artigli e le fauci di quel leone avevano fatto sanguinare ben di più l'aquila romea.

Se fosse dipeso da lui, si sarebbero fatti tutti i tentativi possibili per far cessare il conflitto: stava diventando impellente che tutte le risorse che venivano profuse contro Venezia, venissero invece dirottate sul fronte bulgaro e su quello anatolico. La Repubblica, sebbene si fosse dimostrata un avversario davvero temibile e coriaceo, non minacciava l'esistenza stessa della Basileia. I turchi musulmani e i barbari cumani invece sì. Ma era altrettanto importante che la corte venisse indotta in quella direzione e che i territori invasi dai veneziani fossero liberati e recuperati. Due ostacoli non di poco conto affatto. A cui s'aggiungeva, tra l'altro, l'ostacolo dell'enorme ed acrimonioso astio che la guida di Venezia, il Doge Vitale II, aveva preso a nutrire nei confronti dei bizantini dopo gli eventi di Galata. Si diceva che egli non perdesse occasione per additare iracondo al tradimento di Bisanzio e che, all'epoca, avesse giurato di farne scontare il prezzo a Costantinopoli in un mare di sangue romeo.

Era per quelle ragioni che Alessio si trovava in quel luogo, percorrendo la lunga strada di Tracia in direzione di Tessalonica e poi della capitale. Sotto la sua guida l'esercito bizantino aveva dapprima arrestato le incursioni avversarie provenienti dalla Serbia e dall'Epiro, e successivamente, alle porte di Corinto, aveva sbaragliato l'armata del Conte Giovanni Polani, che contava il grosso delle forze veneziane che avevano invaso la Grecia. Era stata una grande vittoria, specie perché era la prima vera sconfitta di grande importanza inflitta alla Repubblica dall'inizio della guerra, e perché ad essere sconfitto era stato il Conte Giovanni Polani, la cui nomea di abile comandante era andata crescendo di pari passo con i suoi successi militari contro Durazzo, Ras e Malvasia. Con ciò che rimaneva dell'esercito veneziano messo in fuga, Atene era ora stretta d'assedio dalla corposa armata che Alessio aveva lasciato in Attica, la quale – secondo ciò che si prevedeva – avrebbe avuto velocemente ragione dei difensori, espugnando la città, ed avrebbe poi proseguito a sud, riprendendo il Peloponneso e la roccaforte di Malvasia.

Lui, nel frattempo, stava ritornando alla capitale, forte del suo trionfo militare, per assistere lo zio morente e tentare di imporsi su quell'intrico di infide serpi che era l'aristocrazia di corte.

*


L'uomo si mosse quando la notte era già invecchiata e la luna non era che una supposizione dietro lo spesso manto nuvoloso che ne soffocava la flebile luce. Soltanto l'alone tremolante e rossastro di alcune torce permetteva a tratti di intuire i profili delle cose, immobili sul suolo. Il silenzio era denso quasi quanto le nubi in cielo.

Le sentinelle di guardia – non molte, per la verità – erano lontane a montare la ronda ai confini del campo, mentre il resto dei soldati dormiva nelle tende o giaceva ubriaco e sfinito nei pressi dei falò consumati, luminescenti lividi di braci sulla buia pelle della terra.

Quella rilassatezza quasi priva di alcun tipo di precauzione non lo sorprese. Com'erano sciocchi gli uomini! Sempre, dopo una vittoria, li prendeva un ingenuo ed inconscio senso di sicurezza, un senso di invincibilità che li rendeva, proprio all'apice del trionfo, di gran lunga più vulnerabili di quanto non fossero in mezzo al letale infuriare del combattimento.

Il padiglione del Synbasileus era una delle poche tende dietro alle quali riluceva ancora la flebile luce di una lampada ad olio. L'uomo si accostò allo spesso tendaggio senza fare il minimo rumore. Rimase immobile per alcuni minuti, fintantoché non si fu accertato che il sommesso, regolare respiro che poteva a stento udirsi attraverso il telo era rivelatore di un occupante addormentato. Fece mezzo giro attorno alla tenda per constatare che gli armati a guardia del padiglione fossero effettivamente fuori gioco. Chi riverso per terra, chi seduto su un rozzo sgabello od appoggiato ad un barile, i quattro erano profondamente storditi dal vino drogato che, ore prima, travestito da camerata, gli aveva portato per festeggiare la vittoria di Corinto.

Ritornò sui suoi passi, costeggiando la grande tenda, di nuovo lontano dall'ingresso. Nel punto che, all'incerta luce proveniente dall'interno, gli parve agevole e nascosto, silenzioso aprì lentamente con il pugnale affilato uno squarcio abbastanza grande da consentirgli di intrufolarsi. Entrò.

Alessio Comneno sedeva ad un piccolo tavolo ingombro di pergamene e mappe, il braccio destro abbandonato sul piano, la testa reclinata sulla spalla. Il piccolo lume della lampada ad olio gli illuminava a stento i contorni del volto; la bocca e le palpebre erano chiuse, il petto si alzava ed abbassava con placida regolarità. Pareva addormentato. Il resto del padiglione era immerso nel buio, a mala pena si riusciva a scorgere la raffinata branda da campo, che in molti avrebbero considerato ben più di un semplice letto. L'aria lì dentro era immobile.

L'uomo si avvicinò a passi lenti, cauti e pazienti, l'acuminato pugnale stretto nella mano. Si prese tutto il tempo necessario per non emettere il minimo suono. Ecco che ora gli era davanti, quasi alla distanza di un respiro. Il petto della sua vittima continuava ad alzarsi e abbassarsi, calmo, inconsapevole, ricoperto della soffice coltre del sonno. Come aveva potuto constatare in quelle settimane in cui si era infiltrato e mescolato all'esercito bizantino, il Synbasileus Alessio era un tipo energico ed instancabile, che si concedeva poche ore di riposo al giorno e, quando lo faceva, godeva di un sonno leggero. Tuttavia i suoi movimenti erano stati talmente silenti che nemmeno il fragile sonno del Comneno era stato intaccato.

La testa reclinata del romeo addormentato gli lasciava la gola esposta e vulnerabile, la pelle liscia e leggermente chiazzata dalla barba là dove ricopriva il pomo d'Adamo. Un colpo rapido e profondo e il sangue avrebbe invaso la trachea della vittima, impedendogli anche solo di gridare ed annegandolo prima ancora di dissanguarlo.

“Fin troppo facile” pensò l'uomo. E vibrò il fendente. Il freddo riflesso della lama luccicò letale per un istante nella rossa oscurità.

*


Lo attendeva. Lo attendeva da quando aveva osservato quel soldato bizantino portare un otre di vino ai quattro compagni di guardia al padiglione: circa due ore dopo, aveva visto quegli stessi compagni accasciarsi privi di sensi. E allora aveva capito che finalmente avrebbe fatto la sua mossa quella notte. L'aveva visto tagliare col pugnale la spessa stoffa della tenda, all'altro capo del padiglione. Celato in un tutt'uno con l'ombra dell'angolo drappeggiato in cui era appostato, l'aveva visto entrare e muoversi cautamente all'interno. Il sicario non l'aveva scorto. E come avrebbe potuto, d'altronde, con gli occhi che, abituati sino ad un attimo prima al buio esterno, erano stati offuscati dalla luce della lampada?

Doveva ammettere che era un discreto professionista: i suoi movimenti erano particolarmente silenti e vellutati. Ma i suoi lo erano di più.

Allorché l'uomo si avvicinò lentamente al Synbasileus addormentato, anche lui si mosse, impercettibile, nient'altro che un ombra in mezzo alle altre ombre che abitavano il padiglione. Il sicario arrivò appresso la sua vittima, e l'ombra, i cui passi ed il cui respiro, già di per sé inudibili, erano in perfetta sincronia con quelli dell'altro, gli tenne dietro.

L'intruso studiò per un attimo il Synbasileus che dormiva ignaro. Poi levò piano il braccio, stringendo il pugnale. Vibrò il colpo, puntando alla gola del romeo.

Lo scintillio di due occhi rilucette per un battito di ciglia in mezzo alla buia massa del capo della nera figura che gli stava alle spalle e anch'essa agì. Fulminea, così come prima era stata quasi immobile nei suoi cauti movimenti, con la grande mano sinistra l'ombra fermò il fendente ghermendo la stessa mano dell'altro, mentre con il possente braccio destro cinse in una morsa di ferro la gola del sicario che gli dava la schiena. Gonfiò il bicipite e fece maggior forza per soffocarlo velocemente, ma l'altro era tenace, i muscoli del collo resistenti e tesi nel disperato tentativo di resistere allo strangolamento. Il sicario prese ad agitarsi convulsamente, senza peraltro far rumore, e tentò di liberarsi dalla stretta rifilando alle reni dell'ombra, con il braccio che ancora aveva libero, tutte le gomitate di cui era capace.

Quando smise di dargli gomitate ed utilizzò quell'unica mano agibile per cercare vanamente di allentare la morsa del braccio nero, l'uomo oscuro constatò che era solo questione di secondi per la sua vittima: il soffocamento era quasi completo.

Fu allora che il sicario, vicinissimo a perdere conoscenza, fece una mossa che l'ombra non aveva messo in conto, un mossa che un uomo normale avrebbe considerato come spontanea in un frangente come quello, ma che rivelava invece un grande autocontrollo persino nel momento prossimo all'incoscienza e alla morte. Il sicario assestò con tutte le forze che gli rimanevano un calcio alla sedia da campo su cui dormiva il Synbasileus, mandandola all'aria. Alessio Comneno rinvenne di soprassalto, cadendo per terra.

La mossa non riuscì tuttavia a far perdere la presa all'ombra, che, per quanto colta di sorpresa, era preparata sempre a qualsiasi evenienza. Anzi, sortì l'effetto contrario di sbilanciare lo stesso sicario, facendogli venire meno la forza nell'arto ancora alzato ed immobilizzato con cui brandiva il pugnale. Come nel gioco del braccio di ferro, quando la resistenza dell'avversario si spezza per un attimo e si coglie la vittoria abbattendone in un baleno il braccio sul piano, così l'ombra abbatté la mano che stringeva il pugnale contro il ventre del suo stesso proprietario. Sotto lo sguardo sbigottito di un Alessio riverso per terra, che ancora non comprendeva se stesse o meno sognando, l'ombra guidò con un colpo secco la mano armata del sicario a squarciare il suo stesso addome, da cui fecero capolino le viscere. Lasciò che il corpo finalmente senza vita si afflosciasse a terra.

«All...» tentò di gridare il Synbasileus, ma subito l'ombra gli fu addosso, imprigionandogli la gola nella sua presa micidiale e premendogli la punta del pugnale sotto la mandibola.

Nel volto oscurato dell'uomo, ricoperto da un cappuccio, nero come le vesti che indossava, gli unici tratti che risultavano un poco illuminati e riuscivano a distinguersi erano una parte del naso e la bocca, le labbra in qualche modo carnose strette in una linea serrata ed attorniate da una scura barba da poco rasata.

L'ombra gli avvicinò la testa all'orecchio. «Non lo farei, fossi in te» disse lentamente. La voce era un sussurro basso e pieno, i cui spigoli tuttavia erano come levigati, le asperità del tono come retratte e pronte per essere snudate all'occorrenza.

«Ora...» continuò, in un greco totalmente privo di alcun accento straniero, ma anche totalmente neutro e scevro del colore di qualsiasi inflessione locale o dialettale. «Tu non griderai né darai l'allarme ed io non ti ucciderò. Quando leverò le mie mani dal tuo collo, ci alzeremo e tu siederai di nuovo su quella sedia. E lascerete che io me ne vada. Se farete un passo falso, qualunque passo falso, io ti ucciderò. E non farai nemmeno in tempo ad accorgertene, te lo assicuro». Silenzio.

«Siamo d'accordo?» chiese con fare calmo, così come perfettamente calmo sembrava il suo corpo, assolutamente intoccato dallo sforzo di soffocare un uomo.

Alessio Comneno, malgrado la possente mano che gli serrava la gola e la punta del pugnale che gli sfiorava la guancia, tentò disperatamente di muovere il capo per annuire. La forza del suo aggressore gli rendeva praticamente impossibile provare a scrollarselo di dosso. L'aria gli stava venendo meno ed un panico che non aveva mai provato si stava impadronendo di lui, istintivo e forte quanto prepotente ed inconscio era lo spirito di sopravvivenza di ogni tessuto del suo corpo.

L'ombra comprese il suo goffo gesto e lentamente allentò la presa, per poi allontanare la mano ed alzarsi.

Il Comneno giacque a terra ancora per un momento, la bocca spalancata nell'intento di incamerare più aria possibile ed il corpo scosso da piccoli spasmi nel sollievo viscerale dell'ossigeno che tornava ad affluire. Ripresosi, si alzò e si sedette sfiancato sulla sedia, rimettendola a posto. Fitte di dolore gli ghermivano la gola, là dove il pulsante segno rossastro lasciato dallo strangolamento era dipinto sulla pelle del collo.

L'uomo oscuro s'accorse che vi era inoltre un lieve tremore a scuotere il romeo seduto, il tremore della paura. L'aveva notato spesso: uomini coraggiosi, feroci come belve in battaglia e mai timorosi di fronte al combattimento, così fieri ed invincibili con l'armatura indosso e le armi in pugno ed il sole scintillante su tutto, uomini che, invece, se colti dalle insidie della notte, dalle ombre che sussurrano e strisciano nell'oscurità e ghermiscono nel letto e nelle stanze, quando loro non vestono gli elmi e non sono attorniati dai loro alfieri, quando vengono colti impreparati dai pericoli del buio e dalle incertezze dell'inganno, diventavano bestie spaventate e tremanti, dimentiche del proprio valore e della propria forza. Diventavano così vulnerabili. Bastava semplicemente colpirli nell'oscurità della notte e le loro difese si disfacevano. E non era forse il buio, infatti, il luogo in cui Dio aveva relegato Lucifero, perché solo nelle tenebre potesse muoversi?

Conosceva un solo uomo che, come lui, non aveva davvero paura del buio. E che forse, però, aveva invece paura della luce.

Fece per andarsene, pronto come sempre a scattare al minimo segnale di necessità, voltando la schiena al Synbasileus, che lentamente si riprendeva sulla sedia.

«Chi sei?». La voce flebile di Alessio Comneno gli arrivò da dietro le spalle.

Si voltò, fissandolo per qualche momento. Dallo sguardo del romeo, che non sapeva dove posarsi né tanto meno se abbassarsi intimorito o rimanere fisso, ma s'aggirava agitato e inquieto sull'area che corrispondeva al suo volto, l'ombra poteva intuire che l'altro non riuscisse a scorgergli gli occhi e buona parte del volto, celati com'erano dal cappuccio. Un sorriso pericoloso gli attraversò il volto per un attimo e vide il Comneno deglutire e contrarsi a disagio sulla sedia.

«Sei incauto a proferir parola, visti gli avvertimenti che ti ho dato...». Lasciò che la nota minacciosa del suo tono aleggiasse sospesa per un attimo. «E sarei assai incauto io stesso – riprese – se ti dicessi chi sono».

«Chi era... lui, allora?» disse il Synbasileus volgendo lo sguardo al cadavere del sicario riverso sui tappeti che ricoprivano il terreno, in una pozza di sangue e visceri.

“Perché nascondergli tutto? Alcune cose può anche conoscerle”. L'ombra sorrise di nuovo, quasi compassionevole. «Costui era Adelmo Fabri, uno dei più... rinomati assassini che girano per i vicoli oscuri di Venezia. Ah, pover'uomo! Mi ripeteva sempre che il momento del trionfo è il momento in cui gli uomini sono più vulnerabili. Ed ecco che, quando già pregustava il trionfo della sua missione, io l'ho ucciso».

«Lo conoscevi!?» chiese Alessio, sbalordito dal fatto che parlasse in quel modo dell'uomo che aveva appena eviscerato.

L'altro non rispose, limitandosi a un'espressione a metà tra il noncurante e il divertito.

«Che cosa voleva da me?».

«Direi ucciderti, non credi?».

«Sì certo, ma chi lo mandava?».

«E chi mai potrebbe mandare un assassino veneziano per uccidere te, che sei il successore di un moribondo e l'unico legittimo erede al trono di tutta la Basileia?» chiese sarcastico l'uomo oscuro. «Il Doge, ovviamente. Sembri più abile come guerriero che accorto come politico, sai?».

«Il Doge?» sussurrò tra sé il Synbasileus in un tono un poco sorpreso. Fin dall'inizio aveva pensato che il sicario fosse mandato da qualcuno dei grandi nobili bizantini che gli contendevano sempre meno celatamente il trono. Era ovvio che anche il Doge potesse volerlo morto: la sua prematura dipartita, alla luce della situazione generale in cui versava la Basileia, avrebbe innescato una lotta dilaniante per il cambio di dinastia e avrebbe enormemente aiutato Venezia nella guerra. Combattendo però sui campi di battaglia ellenici un nemico che si era mostrato alla luce del sole con cavalieri ed eserciti e non aveva rifuggito lo scontro aperto, non s'era abituato a tenere in conto che quello stesso nemico potesse anche muoversi e colpire nell'ombra. Una lezione che avrebbe sempre dovuto tenere bene in mente da quel momento in avanti.

Mentre faceva di quei pensieri, la mano che aveva appoggiato sulle pergamene che occupavano il tavolo da campo incontrò l'asperità di una longilinea massa sottostante. Un brivido gli corse lungo la schiena, sebbene tentò di non darlo a vedere. Se ne era completamente scordato, preso da tutto ciò che era successo. La sera, mentre studiava quelle carte, le aveva stese sul piano sopra alla daga che vi aveva appoggiato. La sua daga, che attendeva pronta per essere utilizzata. Doveva trovare il modo di afferrarla e scagliarsi contro quel misterioso e letale sconosciuto.

«E dunque, chi manda te?» chiese ancora.

L'ombra rimase in silenzio un attimo, incerta su cosa e se dovesse rispondere. «Un amico...» disse infine, lasciando aleggiare misteri e sottintesi ingombranti come lo stesso padiglione.

«Chi è questo amico che...».

«Basta» troncò l'altro la conversazione. «La tua curiosità sta superando i limiti della mia pazienza» disse con una strana pacatezza nella voce che adombrava la freddezza di un'ostilità crescente e minacciosa.

«Va bene» disse subito Alessio Comneno. «Come farai ad andartene con le mie guardie all'ingresso?» indicò con un vago gesto. In effetti si era domandato perché i suoi uomini non avessero ancora fatto irruzione nella tenda. In ogni caso doveva fare quell'ultimo tentativo per distrarre un attimo l'assassino quel tanto che bastava per afferrare la daga.

L'altro volse lo sguardo all'indirizzo dell'uscio. Nello stesso istante, più rapido che poté, egli si girò di lato per afferrare con la sinistra – era purtroppo mancino – l'arma che giaceva sotto le pergamene sul tavolino alla sua destra. Afferratala, in un batter d'occhio si rivolse nuovamente all'intruso con sguardo feroce ed i nervi tesissimi e pronti a scattare.

Ma solo il buio occupava il resto della tenda e il luogo dove un attimo prima stava quella misteriosa figura. Di lei, nessuna traccia. Era scomparsa.

Alessio Comneno, incredulo, si precipitò fuori dalla tenda, il cuore che era tornato a battergli insistentemente nel petto.

Quando gli allarmi presero a risuonare per il campo e a svegliarne gli abitanti, l'ombra era già lontana, presso la cavalcatura che aveva lasciato in attesa, nascosta nella macchia che ricopriva uno dei pendii a fianco dell'accampamento. Quando poi i primi drappelli bizantini, alla luce delle torce, presero concitatamente ad uscire dall'assembramento di tende per dare la caccia al misterioso sicario, lui aveva già guadagnato non visto la nera strada per Tessalonica e spingeva il cavallo al galoppo.

Diede un ultimo sguardo alle sue spalle, per poi dare di talloni all'animale. Doveva fare in fretta. Aveva un altro lavoro urgente da sbrigare a Costantinopoli.
[Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 21:32]