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Capitolo XI
Lame nella nebbia




Strada per Trento, 24 marzo 1175.

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Mancavano pressapoco venti miglia per scorgere i cancelli di Trento. La strada correva davanti a loro verso nord, seguendo la salita dei prati e delle alture e schivando i boschi di pini, abeti e caducifoglie che qua e là si avvicinavano alla via, allontanandosi di molto dalle radici delle montagne, dov'erano più fitti e scuri. I profili delle cose, nitidi e delineati da vicino, sfumavano man mano che si spaziava con la vista in lontananza, fin quando anche le stesse masse di rocce e alberi e terra svanivano inghiottite nella fitta foschia. Era circa mezzogiorno e il sole era nascosto dalle nubi e dalla nebbia, che davano un'impalpabile sfumatura plumbea ad ogni cosa.

Non potevano vederli, ma più in là, sulla strada che proseguiva inconsapevole e noncurante il suo cammino, vi erano i nemici, pronti a sbarrare loro il passo.

Sebbene il Marchese Renier Dandolo avesse già dato inizio ai preparativi della spedizione per conto proprio, conscio com'era dell'importanza di riprendere la roccaforte di Trento agli imperiali del Duca di Baviera, gli ordini del Doge erano comunque arrivati due mesi prima da Venezia.

"… È vitale, perciò, che Trento venga riconquistata e i germanici vengano cacciati dai passi. Non possiamo permetterci, in un momento nel quale la Repubblica è fatalmente impegnata con tutta se stessa nella guerra contro Bisanzio e nelle colonie d'Oriente, vulnerabile com'è il suo centro, che le difese alpine vengano penetrate dal nemico germanico. I valici devono essere riconquistati e gli imperiali tenuti al di là delle Alpi e lontani dal Veneto.

Milano, dal canto proprio, saprà fare buona guardia ai suoi di valici. Nonostante i nostri alleati non siano in guerra con l'Impero, il Barbarossa è un sovrano infido ed ambizioso e tutta l'Italia deve stare allerta, perché l'aquila è sempre in agguato.

A voi dunque, nostro fido Marchese di Verona, l'arduo compito. Marciate appena pronto a nord, riprendete Trento e assicurate le strade, a qualunque costo".


La settimana precedente, ultimati gli allestimenti ed i preparativi, durante una rossa alba, Renier Dandolo e Riccardo Natale si erano messi in marcia alla testa delle loro forze. Sotto lo sguardo del castellano provvisoriamente nominato da Ranier, di sua sorella, la bellissima e altera Maria, moglie del nobile Riccardo, e delle poche sentinelle lasciate a custodire il castello, quasi ottocento soldati veneziani erano fuoriusciti dai cancelli di Verona, lasciandola svuotata.

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Avevano percorso la lunga strada che si inerpicava a settentrione con cautela, in formazione densa e chiusa, preceduta da una prudente avanguardia e da guardinghi esploratori. Sapevano che il nemico era a conoscenza della loro avanzata e che avrebbe potuto attaccarli in qualunque momento o tendere loro qualche sanguinosa imboscata.

In effetti qualche sparuta schermaglia sui fianchi c'era stata, condotta da piccoli e guizzanti manipoli di cavalieri germanici. I nemici avevano sperato di trovare una colonna veneziana frammentata in piccole compagini che avanzavano in disordine, facili e grasse prede per loro. S'erano invece trovati di fronte ad una solida massa di centinaia di fanti, protetta da arcieri e pavesi, che marciava compatta, ed erano stati scacciati con facilità.

Renier Dandolo conosceva la fama di uomo impaziente e spregiudicato che caratterizzava il Duca di Baviera. Aveva perciò confidato nel fatto che gli imperiali, forse sotto la personale guida dello stesso Duca o semplicemente condotti dai capitani ai suoi ordini, avrebbero evitato di essere stretti in un lungo ed incerto assedio e si sarebbero mossi per incontrarli in campo aperto e risolvere la faccenda in un unico scontro. Non poteva negare che, se fosse stato sconfitto, una succulenta opportunità si sarebbe presentata ai nemici: Verona, Padova, Ferrara e il resto del Veneto completamente sguarniti.

I tedeschi, sebbene inferiori nei numeri di più di un centinaio di uomini, avevano il vantaggio strategico di costringerli sul campo che preferivano, a seconda di dove avrebbero sbarrato loro il passo sulla strada, ed avevano il vantaggio tattico della cavalleria pesante. Un enorme vantaggio che – Renier se ne era persuaso – il Duca di Baviera non avrebbe esitato a sfruttare per aprirsi con un solo colpo di maglio le porte della Pianura Padana. Le forze veneziane, infatti, erano quasi unicamente composte da fanteria – solida ed affidabile com'era quella italiana, questo era vero, ma pur sempre fanteria.

Poche ore prima, nel mezzo della mattinata, gli esploratori l'avevano infine informato che il nemico era poco avanti, schierato a battaglia, in attesa.

Il momento era giunto, ed una determinata tensione si stava impadronendo di lui.

La situazione sarebbe stata davvero a loro sfavore, se non fosse che il Cielo aveva voluto diversamente, mandando loro quella provvidenziale nebbia. La foschia poteva rivelarsi un arma a doppio taglio; ma, se utilizzata opportunamente, poteva rivelarsi la chiave della vittoria.

Renier ringraziò Dio con una brevissima preghiera silenziosa. «Chiamate a consiglio i miei capitani. Dobbiamo sfruttare a dovere questa nebbia che ci ha mandato la Provvidenza» ordinò ai suoi attendenti.

*


Il capitano Heinrich da Innsbruck imprecò tra i denti. “Maledetta nebbia! Proprio nel momento peggiore! Basterebbe un briciolo di sole per vederci qualche cosa e spazzare via quei cani con una carica... Dobbiamo stare attenti. Quel Dandolo non è uno sciocco. Se fallisco il Duca mi strapperà la pelle mentre ancora sono lì che gli balbetto le mie scuse”. Il castello di Salisburgo non era famoso per i suoi ospitali ambienti e la sua cortesia, piuttosto lo era per le sue segrete.

«Tu!» chiamò in tono perentorio. «Gli esploratori sono tornati?».

«No, capitano» rispose il sergente. «Per lo meno, non che io sappia».

«Cosa aspetti, allora!? Muoviti, vai a controllare! E se non sono arrivati, mandane giù degli altri. Dobbiamo assolutamente sapere dove si trovano i bastardi veneziani».

Il soldato corse via ad eseguire i nervosi ordini di Heinrich.

“Idiota!” si concesse di pensare. “Se perderò questa battaglia sarà perché sono circondato da perfetti idioti”. Guardò le possenti cavalcature dei suoi cavalieri in armatura, che erano in attesa lì intorno, emettendo qualche nitrito ogni tanto e brucando un po' d'erba. Si rincuorò. Sebbene non fossero i temibili destrieri da guerra dei nobili e dei loro seguiti, quei cavalli erano comunque alti, forti e resistenti. E con sopra un buon uomo in cotta di maglia, scudo a goccia e lunga lancia di legno, potevano rivelarsi altrettanto micidiali.

Ripeté a se stesso per l'ennesima volta: “I veneziani in pratica hanno solo fanteria, non possono vincere. Nessuno vince in campo aperto senza cavalleria pesante. Nessuno”. Quasi gli si aprì in bocca un timido sorriso di soddisfazione, pregustando già il probabile trionfo.

Verso le tre del pomeriggio ancora nessun esploratore aveva fatto ritorno. I soldati germanici erano pronti da parecchio tempo, le cotte di maglia e gli elmi già indossati, i cavalieri in sella sui propri animali. Un certo nervosismo cominciava a serpeggiare in quell'attesa, sospesa ed indefinita come il velo di nebbia che ricopriva ogni cosa.

Il capitano Heinrich scrutava apprensivo l'insondabile orizzonte. Era lì lì per mandare un intero battaglione in avanti, cosicché almeno qualcuno potesse tornare a dargli notizie del nemico, quando il suono lontano di un corno si fece strada attraverso la foschia. E sottili, scuri profili di lance, stendardi e uomini presero a balenare incerti, appena visibili agli occhi degli imperiali, qualche centinaio di metri in avanti.

Un'eccitata frenesia, sottolineata dallo scalpitare degli zoccoli e dai nitriti dei cavalli, prese Heinrich ed i suoi uomini. Finalmente il nemico! Finalmente quegli sfuggenti bastardi si decidevano a mostrare le loro brutte facce. Avanzando in formazione per un attacco frontale, per giunta. Semplici fanti contro quattro compagnie di cavalieri in armatura.

“Poveri sciocchi” si galvanizzò il capitano, preso da un brivido di esaltazione. Come spesso accade agli uomini, il sollievo e l'eccitazione di poter finalmente vedere e conoscere ciò che prima era celato nel dubbio, e di sapere che non vi era più inquieta attesa tra loro ed il momento fatidico, rese i soldati del Duca di Baviera audaci. Ma altrettanto ciechi, e – se possibile – ancor più di quanto non fossero stati prima. E chi doveva essere il più accorto tra di loro, il loro comandante, finì per essere il primo degli imprudenti.

«Fanteria, prepararsi ad avanzare. Cavalleria, avanti!» gridò Heinrich ai suoi, dando di speroni al proprio cavallo.

I cavalieri germanici si mossero in avanti rapidamente, passando da un affrettato trotto ad un galoppo contenuto. Le confuse forme di qualche lancia apparivano e scomparivano ancora là dove si trovava il nemico. I corni imperiali suonarono la carica e i cavalieri in armatura mollarono tutti i freni alle loro cavalcature. Heinrich si muoveva e respirava in un tutt'uno con il caracollare del proprio animale.

Ancora uno, due, tre secondi e dalla nebbia sarebbe emersa la faccia atterrita di qualche fante veneziano, il fianco di un altro, lo scudo di un altro ancora e dopo avrebbe lacerato i loro corpi e visto il loro sangue scorrere. Questione di secondi. Mise la lancia in posizione, imitato dai suoi uomini.

Ecco che i cavalieri germanici galopparono inarrestabili con le aste acuminate spianate davanti a sé. Solo per fendere la nebbia.

Continuarono ad avanzare per qualche decina di metri, ma non trovarono un nemico da caricare. Rallentarono interdetti, in molti voltando lo sguardo verso il loro capitano, anch'egli confuso e indeciso. «Signore, dove sono...».

Una freccia si piantò fulminea e potente nel corpo del soldato che aveva aperto bocca, sbalzandolo dalla sella. Un nugolo di altri dardi la seguì, generato dalla foschia grigiastra, e si abbatté sulle compagnie imperiali in un clangore di ferro contro ferro. Molti gridarono di dolore, alcuni non ne ebbero neanche il tempo.

Preso alla sprovvista e nella concitazione del momento, Heinrich spronò il cavallo e gli uomini a riprendere la carica nella direzione da cui era provenuta la raffica, mentre le ultime frecce si conficcavano nel terreno lì accanto o trovavano le membra degli uomini ed i fasci di nervi e muscoli dei destrieri.

Stavano ancora galoppando nella nuova direzione, quando un'altra sibilante e letale pioggia di dardi eruppe sul loro fianco destro, falciando l'ala della loro formazione in corsa ed arrestando la loro avanzata. Confusi e intestarditi, si volsero nella foschia di un quarto di giro e ripresero a cavalcare, nuovamente seguendo l'improvviso cambio di direzione. “Non è possibile! Sembrano ovunque!” s'agitò Heinrich, mentre una freccia si conficcava innocua nel suo scudo a goccia, al centro dell'occhio dell'aquila imperiale impressa sopra.

Macinarono un altro centinaio di metri, spersi nella fioca visibilità del mondo intorno a loro. Altre due raffiche di dardi, provenienti obliquamente da entrambi gli estremi dell'orizzonte, colpirono le due ali della compagine germanica, assottigliandone le fila con un sibilo glaciale. “Dannazione! Quei cani sono aiutati dal demonio!”

Ormai la confusione era totale. Le frecce arrivavano come lampi da tutti i lati della linea dell'orizzonte, partorite da una nebbia diabolica quanto coloro che vi si nascondevano dietro. I cavalieri non sapevano dove voltarsi, non indovinavano né dove muoversi né da quale parte sarebbe giunto il prossimo dardo e neppure in quale direzione levare lo scudo per proteggersi. I cavalli nitrivano ormai atterriti, sentendo il pregnante odore del sangue dei loro simili che prendeva a tingere l'erba, ognuno contagiato dalla paura degli altri. I germanici riuscivano a stento e a fatica ad impedire che rompessero completamente la formazione.

Improvvisamente Heinrich udì il lontano e lugubre suono dei corni veneziani e, voltando la testa alle proprie spalle, vide balenare per un attimo l'oscuro profilo di un gruppo di figure a cavallo che si allontanava, immergendosi nella nebbia verso il luogo dove lui e i suoi uomini a cavallo avevano lasciato indietro la propria fanteria. Gli giunse sommesso ed attutito il rumore di urla e stridii metallici. “Maledizione! Li abbiamo lasciati troppo indietro. Dobbiamo assolutamente soccorrerli!”.

Sebbene non avesse potuto vederlo coi propri occhi, l'immagine dei comites dei due nobili signori veneziani che irrompevano, lancia in resta, contro le impreparate fila dei lancieri lotaringi e dei sergenti corazzati era vivida nel suo istinto di soldato.

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Così come quella della strage nelle fila dei suoi che ne sarebbe conseguita.

Una parte dei cavalieri imperiali superstiti, guidati da attendenti che evidentemente, nella confusione, avevano preso ad agire di propria iniziativa, si volse e prese a raggiungere la propria fanteria sotto attacco. Prima che Heinrich con gli altri potesse fare lo stesso, altre frecce richiamarono la sua attenzione in avanti.

Una flebile e fugace folata di vento aveva intaccato le coltri della nebbia, rendendole meno dense e rivelando finalmente la linea del nemico veneziano, dispiegata tra alcuni alberi, da cui erano scoccati i dardi.

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Heinrich, frastornato dalla mutevolezza degli eventi, il cui fracasso rimaneva racchiuso tra le pieghe di quel fosco sipario che aleggiava sull'ambiente circostante e – se possibile – ne veniva accresciuto, era indeciso. Non sapeva cosa fare. Caricare con gli uomini che gli rimanevano la linea veneziana, o tornare indietro a sventare gli attacchi fulminei portati contro i suoi fanti? Non riusciva a decidersi, non riusciva a concentrarsi quel tanto da permettergli di ragionare un attimo ed elaborare una tattica più o meno adeguata. Mentre attorno a lui, le frecce, quelle sì decise e senza la minima esitazione, apparivano e scomparivano tra i rivoli di nebbia, intaccando la superficie delle cose, vive, morte o inanimate che fossero.

*


Qualcosa lo teneva bloccato al terreno, impedendogli di trascinarsi via da quel luogo. Sentiva la gamba sinistra schiacciata contro il freddo suolo, un peso opprimente che gravava sull'arto e che l'aveva ormai reso insensibile talmente era anchilosato. Fece l'ennesimo, goffo ed inutile tentativo di scostarsi e liberare la gamba.

Il capitano Heinrich da Innsbruck, dopo tre infiniti secondi di acuto dolore, rinunciò nuovamente al tentativo e si abbandonò sfinito con la schiena sulla terra, ispirando avidamente l'aria dalla bocca spalancata.

Il suo cavallo era stato abbattuto da una freccia ed era caduto con lui sopra ancora in sella, rovinandogli addosso ed imprigionandogli la gamba. Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso né da quando si era ritrovato così, ancorato al terreno, né da quando le grida della battaglia che infuriava tutt'attorno si erano smorzate. Sentiva pulsare la spalla, là dove un penetrante bruciore ed un rivolo di sangue sottile ma continuo segnalavano la presenza del fusto di un dardo, profondamente conficcato nella sua carne. Non aveva più l'elmo. Qualcuno – non ne ricordava neanche il volto talmente rapido era stato l'accaduto – con un fendente di lancia gliel'aveva scalzato dalla testa, la lama dell'asta che gli aveva reciso il sopracciglio e lasciato una ferita poco profonda allungata sino all'inizio del cuoio capelluto. Gocce di sangue gli offuscavano la vista dell'occhio destro. Si sentiva intontito e confuso, sperso, tanto per cambiare.

Così come spersi e confusi si erano ritrovati gli imperiali in una battaglia che avevano voluto perché sicuri di vincere con il vantaggio della loro numerosa cavalleria. Ma la nebbia aveva inghiottito tutti, uomini e cavalli. E quando si era fatta meno densa, risputando i cadaveri ed i sopravvissuti, aveva semplicemente reso un po' più nitidi gli attacchi fulminei e sfuggenti di un nemico complice della foschia.

I veneziani avevano attaccato il centro germanico con improvvise cariche della guardia personale del Dandolo e del Natale, alternate alle raffiche dei dardi scoccati dai loro sagittari.

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Poi i reparti di cavalieri in armatura imperiali, quando erano ormai decimati e, nonostante ciò, avevano risalito per l'ennesima volta gli incerti pendii offuscati, quasi alla cieca, per cercare di ingaggiare i vili avversari, si erano ritrovati stretti tra la formazione della fanteria veneziana ed i comites.

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Private dunque del supporto della loro cavalleria infine distrutta, le compagnie di lancieri imperiali, anch'esse provate e sofferenti, erano state circondate su ogni lato dal soverchiante numero dei fanti nemici ed annientate con metodica inesorabilità.

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Gli ultimi fuggitivi, due ridicoli gruppi di arcieri contadini, se l'erano data a gambe tra la nebbia che, finalmente, quasi consapevole di non servire più, si stava alzando, inseguiti dai cavalieri di Renier Dandolo.

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La giornata si era rivelata disastrosa per i germanici, mentre il nobile veneziano aveva conseguito una vittoria decisiva, che gli spalancava le porte ad una facile riconquista di Trento e gli permetteva di adempiere alla missione affidatagli dal Doge, sbarrando nuovamente il passo alpino che conduceva in Germania, dove l'aquila aveva il suo nido.

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Heinrich vide due figure confuse che stavano ritte in piedi, sopra di lui. Un mantello scarlatto e oro avvolgeva una delle due. Le sentì scambiare qualche parola.

«E di lui che ne facciamo, mio signore? È il capitano dei nemici».

«Sembra ancora vivo... Rimuovete il cavallo. Estraetelo da là sotto e speditelo a Salisburgo, dal suo Duca, perché sappia cosa ne è stato del servo che aveva mandato a Trento. Non curatevi di mantenerlo in vita. Tanto, se mai sopravvivesse al viaggio, probabilmente non sopravviverà al suo padrone».

«Come comandi, mio signore».

Heinrich comprese che avevano appena disposto del suo destino, in una manciata di secondi, con lui presente ed ancora cosciente lì davanti a loro. Un moto di rabbia lo fece rabbrividire per un istante, ma subito si spense, sfinito nelle membra. Ed in un momento di rassegnazione, con chiara lucidità, sperò di non arrivare vivo a Salisburgo.
[Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 21:35]