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Capitolo XII
S'incendia la tempesta




Roccaserrata, 6 aprile 1175.

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L'abbazia fortificata di Roccaserrata, nelle vicinanze di Trieste, era assediata dalla sera incipiente e dal mare. Il possente complesso, un munito insieme di mura, torrette, stalle, laboratori ed edifici di culto, si aggrappava immobile ad un modesto promontorio, mezzo erboso e mezzo roccioso, che dominava i flutti da un lato e l'entroterra dall'altro. Poco più a valle, una o due leghe più a nord, un porto cinto da spessi terrapieni e salde palizzate di legno ospitava una ventina di galee legate agli ormeggi. Un massiccio torrione in pietra vigilava sugli attracchi, con un'aria resa minacciosa dalle sottili feritoie a forma di croce. Livide nubi occupavano il cielo, annullandolo nel grigio della loro distesa. Su tutto cadeva un leggera pioggia.

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L'abbazia era uno dei tanti quartieri di proprietà dell'Ordine Marciano, le terre coltivate e coperte da basse macchie e piccoli boschi che la attorniavano uno dei molti benefici feudali ad esso assegnati. Ma tra i tanti, Roccaserrata era forse il principale possedimento marciano lungo tutta la costa orientale dell'Adriatico e, dopo il quartier generale di Rialto, a Venezia, la prima delle sue sedi per fervore di attività e concentrazione di potere. Da lì, l'Ordine controllava gli altri suoi domini sparsi per l'Istria e la Dalmazia.

Per quasi due secoli, il promontorio aveva ospitato un piccolo convento di frati benedettini, che con la loro devota ed infaticabile opera avevano portato avanti la coltura e la bonifica di quei luoghi. Il passare del tempo, tuttavia, aveva assottigliato le loro fila; carestie, scorribande di pirati, predoni e signorotti dalmati e magiari avevano fatto il resto: alla soglia del 1150 il convento era l'ombra di se stesso, le terre brulle e incolte, gli edifici macilenti ed in rovina, i pochi monaci vecchi e stanchi. L'abbazia era dunque passata nei possedimenti dell'Arcivescovo di San Marco, che non se ne era curato quasi per niente e che alla prima occasione – la costituzione dell'Ordine – se ne era liberato inserendo anch'essa nel vasto insieme di benefici e terre da assegnare ai marciani. I monaci e i cavalieri dell'Ordine avevano rinominato il posto Roccaserrata ed avevano portato nuova linfa all'insediamento, ristrutturando le costruzioni del convento, ampliandole di molto, fortificandole con difese che stringevano l'intero promontorio. Contadini migranti e coloni, provenienti dai dintorni di Pola e dal resto dell'Istria, s'erano uniti ai monaci marciani nel mettere a frutto la terra, felici di aver trovato di che vivere e prosperare alle dipendenze di un pio ordine monastico e non di un tirannico feudatario, protetti dalla nuova roccaforte e dal suo braccio armato. Il porto poi, che serviva una parte consistente della flotta dell'Ordine, ma che era utilizzato pure come banchina commerciale, aveva portato ulteriore lavoro e popolazione.

Con la luce ormai all'imbrunire e i contadini già ritirati nelle proprie abitazioni, i monaci in preghiera dietro le spesse mura di pietra della grande cappella, l'abbazia appariva un luogo di silenzio sospeso. Il mormorio del mare che si strusciava contro gli scogli copriva i richiami che le sentinelle armate si mandavano di tanto in tanto, le fioche luci dei fuochi che illuminavano merli e monofore.

Il Gran Maestro Giovanni Dandolo sedeva alla scrivania della sua camera da letto presso gli appartamenti a lui riservati nell'ala più nuova dell'abbazia, intento a scrutare pergamene e rapporti alla luce delle candele. Su un angolo del tavolo, delicatamente abbandonato alla stessa maniera con cui nella mente si accantona con fare premuroso un'idea o un guizzo di pensiero, forse utile in tempi futuri, stava un manoscritto. Rilegato in pelle scarlatta, portava un titolo vergato in greco: con tutta probabilità era di fattura bizantina.

Bussarono contro la spessa porta di quercia, all'altro capo dell'ampia stanza.

«Avanti» consentì lui.

Una delle due sentinelle che stavano di guardia ai suoi alloggi entrò. «Mio signore, un uomo... Roberto Selvo dice di chiamarsi. Vorrebbe vederti». Il tono era incerto, come incerta e diffidente doveva essere stata l'espressione sul volto della guardia quando gli si era presentata davanti la figura di quel serale visitatore, immaginò il Gran Maestro con un pensiero divertito.

«Fallo entrare» disse, aggiungendo poi mentre la sentinella stava già tornando sui suoi passi: «Non sarò disturbato ulteriormente stanotte».

«Certo, mio signore» annuì l'altro ubbidiente, per poi allontanarsi.

Dopo un attimo, una scura figura passò l'uscio della camera. L'uomo era alto, la corporatura si intuiva possente sotto le nere vesti in cui era paludato, le labbra e la mascella volitiva circondate da una corta peluria, la parte superiore del volto celato all'ombra del cappuccio. Se lo tolse, rivelando un volto squadrato ed un capo i cui bruni capelli erano quasi rasati, nonché un paio di occhi freddi e sicuri, dello stesso colore grigio del mare.

Giovanni Dandolo sospese infine la lettura del rapporto che teneva in mano e volse lo sguardo su di lui. Un leggerissimo sorriso, la cui profondità era appena intuibile, gli increspò le labbra per un momento di silenzio. Poi riprese la sua tipica espressione ambigua, s'alzò della sedia e si diresse a scrutare il buio orizzonte da una delle piccole monofore. Nel farlo, indicò all'altro, con un gesto che voleva dire “serviti pure”, la caraffa di vino ed il calice che stavano sulla scrivania.

Continuando a guardare la sera di fuori, lo salutò a suo modo: «Ce ne hai messo di tempo. Ti aspettavamo già due mesi or sono».

Roberto Selvo, noncurante dell'inconsistente rimprovero, si tolse il pesante mantello scuro e si servette del vino, nello stesso calice da cui – ne era certo – poco prima aveva bevuto il Gran Maestro.

«Percorrere la strada del ritorno è stato molto meno agevole di quanto credessi. Ci sono stati dei contrattempi che non avevo messo in conto...» disse senza la minima traccia di prostrazione nella frase. «Mio signore». Aggiunse le ultime due parole con tono insinuate, le pieghe di quel basso suono di velluto che era la sua voce pronte ad adombrare docilità od ubbidienza o scherno o qualcos'altro.

«Ebbene?».

«Ho portato a termine gli ordini che mi avevi assegnato. Tutti e tre. Devo dire che è stato quasi divertente a Costantinopoli. Ho dato quel foglio tanto prezioso al tuo frate farmacista che si sta già dilettando in questo stesso momento. Sembrava quasi che mi fossi presentato con una scheggia della vera Croce talmente mi guardava in modo estatico». Diede in una breve risata.

Il Gran Maestro annuì compiaciuto e celatamente sollevato, liberandosi finalmente in cuor suo di quella fastidiosissima spina di sospesa tensione che si portava dietro ormai da sette mesi.

«Contrattempi, hai detto?» lo interrogò un poco curioso.

«Sì, mio signore. Il viaggio è stato quasi più semplice nelle terre dei romei che non nelle nostre. Lungo il tragitto del ritorno, presso Tessalonica, ho perso tempo a tappare alcune bocche che potevano dimostrarsi dannose. Poi ho passato settimane nella regione di Durazzo ad aggirare le soldataglie bizantine che razziavano qua e là. Una compagnia di cavalleggeri m'ha persino scoperto ed inseguito per giorni prima che riuscissi a seminarla, ma nel frattempo mi aveva costretto a riaddentrarmi sulle montagne dell'Epiro, dalle quali ero appena disceso. Per raggiungere la città, Durazzo, mi ci è voluta un'eternità. Ed una volta arrivato finalmente là, mi sono ritrovato i cancelli sbarrati e le guardie che non mi facevano entrare dicendomi che potevo essere una spia o un sicario del nemico, quegli idioti!».

La cosa divertì Giovanni. «Dio ha un grande senso dell'ironia».

«Delle sue ironie Dio a volte potrebbe farne anche a meno».

«E perché mai? Senza le sue ironie la vita sarebbe così noiosa e grigia. Va' avanti».

«Non potendo prendere una nave a Durazzo, ho proseguito lungo la costa, sempre con molta cautela. Ho raggiunto Ragusa e da lì mi sono finalmente potuto imbarcare, giungendo qui».

Il Gran Maestro annuì di nuovo alla conclusione del resoconto. Dopo un poco, indicò la pergamena che stava studiando poco prima, ancora lo sguardo perso nell'oscurità della notte incombente, incorniciata dalla finestra. «È arrivato ieri. Il rapporto del Cavaliere Capitano di Rialto. Ci comunica che Cipro e Creta sono ormai nel caos più totale: la popolazione continua la ribellione, le guarnigioni sono travolte o assediate. I bizantini hanno riconquistato buona parte della Grecia ed hanno ripreso Atene, sebbene la cosa gli sia costata molti e molti più uomini di quanto credessero. Il Conte Polani si è rifugiato con ciò che rimane delle sue forze a Malvasia: il castello è stretto d'assedio ma resiste, unicamente grazie ai nostri aiuti dal mare. Mentre Di Caprio... Di Caprio dovrebbe essere da qualche parte nell'Egeo settentrionale a dar battaglia. Per contro, i romei – come mi hai appena confermato – fanno incursioni nei territori di Durazzo e il popolo è nervoso, ma la situazione al momento è sotto controllo. Nel frattempo il mio caro fratello Renier non è stato con le mani in mano e ha schiacciato i germanici a Trento, chiudendo la strada delle Alpi e costringendo il Duca di Baviera a mangiarsi il fegato, con gran soddisfazione e grato elogio del Doge, per altro» concluse con palese falsa ammirazione. «Ah! Mio padre aveva ragione: il nostro Renier è proprio un virgulto d'uomo». Sogghignò un poco.

«Almeno su una cosa tuo padre aveva ragione» disse Robeto Selvo con malizia e complicità, passando ad un tono più familiare rispetto al quello distaccato di prima.

Giovanni rise per un momento e non badò alla variazione di registro adottata dall'altro, abituato com'era a quella teatrale commistione di ruoli che aveva luogo nei loro rapporti. «Vero».

Volse lo sguardo sul volto del suo interlocutore e lo scrutò per qualche immobile secondo. «C'è un piccolo alloggio riservato per te: puoi farti accompagnare dai servi. Dopo un così lungo e faticoso viaggio immagino sarai molto stanco».

Roberto Selvo intercettò con la punta della lingua una goccia di vino che gli era scivolata sul labbro superiore e posò il calice. Si avvicinò a Giovanni, a lenti passi. Gli strinse i fianchi tra le mani e chinò il capo un poco in basso, vicinissimo al volto di lui, le labbra dell'uno che quasi sfioravano quelle dell'altro. «Per niente...» sussurrò, prendendo a guidarlo con premurosa forza in direzione del letto.

*


Nello stesso momento in cui a Roccaserrata ci si accingeva a trascorrere la notte, per i più nel sonno, per alcuni in preghiera o di guardia, per altri nel piacere, il buio della sera ammantava d'oscurità anche le lontane acque dello Stretto dei Dardanelli. I marosi s'agitavano inquieti, prostrati dal freddo vento che spirava da nord. Le nubi scorrevano veloci nel cielo e si addensavano sempre più. Dagli squarci che lasciavano la luce della luna ricadeva a chiazze sulla crepata superficie del mare, tingendo le onde ed i flutti di sinistri bagliori che apparivano e scomparivano senza sosta. Le piccole luci di centinaia di fuochi e torce, pure esse prostrate dal vento e tremolanti, sfilavano lente poco al di sopra del pelo dell'acqua, in direzione nord-est.

L'Ammiraglio veneziano Lodovico di Caprio, stretto nel suo pesante mantello per ripararsi dalla fredda umidità dell'aria, osservava la sua flotta avanzare a fatica, combattendo il vento e la corrente. Sia l'uno che l'altra giungevano prepotenti da est e, se non contrastati, avrebbero in poco tempo fatto scarrozzare le imbarcazioni contro la costa e le scogliere che cingevano quello specchio di mare obliquamente da ovest a nord e che si profilavano minacciose su entrambi i loro fianchi ed alle loro spalle.

Stavano percorrendo l'angusto braccio di mare a nord della città bizantina di Dardanellia, da cui il luogo prendeva il nome, nel punto in cui lo stretto, come l'ansa di un fiume, virava bruscamente verso est e si profondeva in una curva a gomito quasi perpendicolare. Di lì a pochi minuti la flotta avrebbe doppiato il promontorio che stava sulla destra ed avrebbe disegnato una decisa virata verso oriente, per poi entrare nel secondo tratto dello stretto che portava all'imbocco del Mar di Marmara, là dove le coste gemelle di Tracia ed Anatolia si separavano, allargandosi in un più ampio specchio marino.

Gli alberi delle galee, con le loro vele latine, non erano issati, essendo ritirati nella stiva, ed i remi da soli aravano ritmicamente le acque. Tutto era pregno del profondo e salmastro odore del mare, che di notte – l'Ammiraglio lo sapeva bene ormai, dopo un'intera vita passata sulle navi – si faceva così avvolgente da sembrare vivo.

“Sono troppo vecchio per questo freddo” pensò sarcastico di Caprio tra sé. “E forse sono troppo vecchio anche per la guerra”. Non gli sarebbe affatto dispiaciuto trovarsi in quel momento nella sua grande casa di Venezia, nelle sue stanze, a godersi il tepore del fuoco del camino. Magari tenendo la finestra aperta, così che l'odore della salsedine potesse un poco entrare nella sala. Così da non avere nostalgia né dell'uno né dell'altro luogo, né del mare né della terraferma. In fondo lui era un uomo di mare ed era ben consapevole di non poter restare a lungo senza di esso. La cosa gli parve un buon compromesso per un vecchio marinaio qual'era e si ripromise soddisfatto, una volta finita la guerra, di trascorrere le sue serate di riposo e vecchiaia in quel modo.

Ma la guerra continuava, infausta, crudele, infaticabile. E lui vi era nel bel mezzo.

La flotta al suo comando era partita da Venezia all'incirca due mesi prima. Aveva percorso la rotta orientale cautamente, attraccando lungo il tragitto nei principali porti di Pola, Zara e Ragusa per incamerare vettovaglie, uomini ed altre imbarcazioni. Era poi giunta in vista del castello di Malvasia, all'imbocco del cui porto aveva distrutto la modesta squadra di navi romee che poneva il blocco. Entrata con la forza, la flotta aveva quindi raggiunto gli attracchi della roccaforte. Il castello era stretto d'assedio da un esercito bizantino e l'unica salvezza poteva provenirgli dal mare.

Nel mentre Lodovico stava dando tutti gli ordini per sbarcare le tonnellate di provviste che ingombravano le stive delle sue navi, affinché rifornissero le vuote cantine del castello, un Giovanni Polani estatico, con un'aria di puro sollievo e di eterna gratitudine incisa sul volto severo s'era precipitato da lui, quasi correndo. Gli aveva stretto la mano e dato grandi e fraterne pacche sulle spalle. «Dio sia ringraziato! Siete i nostri salvatori!» gli aveva calorosamente gridato quando ancora non aveva finito di percorrere il molo.

E dopo che il trasbordo era stato completato, il Conte della Zeta aveva cenato con il suo graditissimo ed insperato ospite, gustando per la prima volta dopo mesi del cibo che almeno avesse sapore di cibo e non di carogna o muffa. «Con tutti i rifornimenti che ci hai portato potremo andare avanti a resistere per un anno e più!» aveva sentenziato tutto contento. «Hai il nostro eterno riconoscimento, Ammiraglio».

«Abbiamo solo fatto il nostro dovere» s'era schernito di Caprio.

C'era rispetto tra loro due. Quasi inconsciamente l'uno guardava all'altro come se fosse la propria controparte sul lato opposto della barricata, nel mondo come nella guerra: Giovanni Polani era certo che, se si fosse dato al mare ed alla flotta, sarebbe stato un uomo niente affatto diverso dall'Ammiraglio di Caprio; allo stesso modo quest'ultimo aveva la divertita sensazione che, se il suo destino fosse coinciso con la terra e i cavalli e i castelli, egli sarebbe stato uguale al Conte della Zeta.

La flotta, dopo appena tre giorni passati agli ormeggi di Malvasia, era ripartita, attraversando obliquamente il Mar Egeo e ben guardandosi dal fare scalo presso Creta, funestata com'era l'isola dalla rivolte popolari e del brigantaggio. Imboccato lo stretto, era proseguita fino a giungere all'importante porto romeo di Dardanellia, che aveva assaltato e devastato senza incontrare, con gran conforto dell'Ammiraglio, alcuna rilevante resistenza. Ma il loro vero obbiettivo era più a nord e non potevano perdere altro tempo per raggiungerlo.

Costantinopoli. Gli ordini del Consiglio e del Doge erano chiari: Costantinopoli.

L'Ammiraglio di Caprio doveva condurre la flotta più possente che Venezia avesse messo in mare dall'inizio della guerra direttamente in casa del nemico. Gli era stato comandato di penetrare lo Stretto dei Dardanelli, mettere a ferro e fuoco tutti gli approdi e gli insediamenti costieri bizantini, piccoli o grandi, nel Mar di Marmara ed infine giungere al Corno d'Oro. Ed una volta là, distruggere il porto della capitale romea e fare tutti i danni che sarebbero stati capaci di fare: abbattere le darsene e i magazzini, razziare le merci e saccheggiare, uccidere o catturare tutti coloro che capitavano a tiro, occupare postazioni utili e strategiche, finanche, se si fosse presentata la possibilità, a penetrare le grandi mura e dare fuoco ai quartieri portuali, se non addirittura all'intera città. Venezia voleva che il nemico fosse colpito nel suo centro nevralgico, che i bizantini tremassero e le genti della capitale fossero atterrite, che i magnati della Basileia scoprissero con amarezza e panico che la lunga mano di San Marco, nonostante tutto, era ancora in grado di giungere fin lì e ghermire loro il cuore.

Ma Venezia voleva anche altre due cose. Voleva che, una volta per tutte, grazie alla distruzione del porto di Costantinopoli, fosse annientata la capacità bizantina di portare la guerra sul mare ed il proprio dominio delle rotte e delle acque fosse incontrastabile. E voleva pure rinsaldare lo spirito della propria gente: solo un'azione spettacolare come quella avrebbe riacceso gli animi e l'orgoglio ed avrebbe smorzato alla radice il malcontento che di giorno in giorno serpeggiava più virulento tra il popolo.

L'Ammiraglio Lodovico guardò i marinai che stavano di guardia sulla sua nave, interrogandosi se anche nella sua flotta si celassero spire di quel malcontento. Si fece forza. Gli animi parevano saldi ed il morale alto. E difficilmente poteva essere altrimenti: una flotta coesa e portentosa, che avanzava inesausta, forte di più di trecento navi, poteva rinfrancare lo spirito di qualunque veneziano. Le navi erano quasi tutte tipiche galee sottili da guerra veneziane: formidabili imbarcazioni, mortalmente eleganti e leste, che facevano della propria manovrabilità e rapidità le loro armi letali. Le tipiche navi tonde dell'Europa settentrionale e centrale, i cog, con la loro panciuta stazza, erano sempre parse grottesche ai veneziani, così come i dromoni bizantini che, più che grottesche, parevano dei goffi e vetusti giganti. Forse solo i temibili drakkar vichinghi, il cui ricordo ancora vagheggiava qua e là nel Mediterraneo, spesso in storie e leggende, potevano essere tenuti in qualche considerazione da un veneziano. Ma, in ogni caso, i drakkar erano fin troppo rudimentali e barbari perché si potesse davvero pensare di paragonarli alle navi di San Marco.

Le figure sottili e taglienti delle galee, animate dall'inesauribile rollio di migliaia di remi, solcavano, come dardi sulla superficie marina, i flutti con agguerrita fierezza. E pur faticando contro la corrente ed il vento, mantenevano la loro insidiosa dignità. Di Caprio le osservava con spirito amorevole e quasi paterno.

Gocce di pioggia caddero sul suo volto, distogliendolo dai pensieri. Ben presto una fitta e fine pioggia prese ad animare l'aria e a discendere sulle acque dei flutti come sui legni delle navi. “Perfetto!” pensò niente affatto entusiasta. “Pioggia sui miei reumatismi”.

Prima che potesse profondersi tra sé in una sboccata invettiva degna di un vero marinaio, la voce allarmata del suo capitano lo colse: «Ammiraglio! Ammiraglio, luci in vista a proravia, sul lato di dritta!». L'avanguardia della flotta, dove lui si trovava, proprio in quel momento era intenta a virare verso est e a doppiare il promontorio della stretta ansa, per poi percorrere il restante lungo tratto di mare che immetteva quindi nel più vasto Mar di Marmara. Lo sguardo delle vedette aveva quindi potuto per la prima volta spaziare sull'orizzonte orientale del grande canale e lì avevano scorto un folto assembramento di piccole luci che avanzavano sulla superficie dell'acqua.

Preso dall'efficiente frenesia di chi governa una nave, di Caprio gridò di risposta: «Cosa sono e quante sono?».

«Tante, signore! Navi, non possono che essere navi!».

Navi!? Come poteva essere!? Come avevano fatto i bizantini a sapere della loro incursione navale in tempo per radunare quello che rimaneva delle loro forze in una flotta abbastanza consistente per affrontarli? Di Caprio non si capacitava. Forse era una squadra bizantina che ignara stava doppiando anch'essa lo stretto, nella direzione contraria. Sperò ardentemente che fosse così e che quelle imbarcazioni si trovassero lì per caso e che avrebbero fatto dietrofront e alzato i tacchi non appena si fossero accorte di loro. Se fossero stati in mare aperto, Lodovico, al comando di trecento e più galee veneziane, avrebbe riso di quei tozzi gusci di noce all'orizzonte. Ma lì, chiusi com'erano tra le insidiose coste dello stretto, in uno spazio che a mala pena consentiva il cauto passaggio della sua grande squadra navale, ogni piccola minaccia poteva dar luogo ad un grande pericolo. Specie se la minaccia era organizzata.

Ma non poteva essere. Gli esploratori e le spie gli avevano assicurato che l'intero Stretto dei Dardanelli, il punto più pericoloso di tutta la rotta, era libero e sguarnito, così come, eccezion fatta per alcune sparute navi di pattuglia, lo era l'intero Mar di Marmara, e che non avrebbe sicuramente trovato ostacoli o resistenza fin sotto le mura di Costantinopoli. “Puzza di tradimento. Puzza di inganno” non riuscì a non pensare l'Ammiraglio, mentre il timore della fondatezza di quel sospetto in pochi secondi gli crebbe in cuore.

Il suo capitano tolse ogni adito all'incertezza: «Sì, mio signore, non ci sono dubbi: una flotta di dromoni e galee. Avanza verso di noi. Ne conto approssimativamente una novantina».

L'improvviso allarme della vedetta di poppa non fu altro che la conferma di cui Lodovico non aveva più bisogno: «Allarmi! La retroguardia segnala navi a meridione!».

«Maledizione!» proruppe di Caprio in urlo tanto cavernoso da sovrastare il rumore del mare e della pioggia. «Quante!?» sbraitò alla vedetta.

«Cinquanta o più, credono».

Nella sua testa, con la velocità di un battito di ciglia, s'era già delineato con nitidezza lo schema della situazione. Una squadra navale, di dimensioni ragguardevoli, stava venendo loro incontro da nord-est, all'imbocco orientale dell'angusta ansa perpendicolare dello stretto, mentre una seconda, di poco minore nella consistenza, da sud-sud-ovest, all'altro capo della curva. La prima contro l'avanguardia veneziana, la seconda contro la retroguardia. Le loro intenzioni inmichevoli erano ormai fuor di dubbio. Il colpo di maglio sarebbe venuto dalla squadra più grande che sopraggiungeva da oriente, spinta dal vantaggio del vento in poppa e della corrente a favore. La seconda squadra evidentemente aveva il compito di tagliare loro la fuga, imbottigliandoli nello stretto, e di attaccarli alle spalle. Una trappola perfettamente calibrata, in un tratto di mare perfettamente insidioso. Un tratto di mare che l'Ammiraglio aveva preteso decine di volte che fosse tenuto d'occhio dalle spie e dagli esploratori e che ripetutamente gli avevano assicurato esser libero. Ma che libero non s'era infine rivelato.

Le navi nemiche erano già tremendamente vicine: con tutta probabilità i bizantini, conoscendo bene quei luoghi familiari e sapendo dove li avrebbero incontrati e intrappolati, avevano navigato a vista protetti dal buio della notte e con i fuochi spenti, calcolando perfettamente i tempi. Li avevano riaccesi solo quando ormai la preda non poteva più fuggire o prendere adeguate contromosse.

“Dannata sia questa fottutissima costa che ci impedisce di manovrare! Devo fare qualcosa o qui rischiamo un disastro!”.

Ma che cosa? L'unica cosa che poteva fare era pregare che la sua flotta, la cui rapidità e manovrabilità era stata astutamente annullata dalla scelta del luogo in cui i bizantini stavano facendo scattare la trappola, forte dei suoi numeri resistesse all'attacco. Quei dromoni tuttavia, con il proprio bersaglio così inchiodato dall'incapacità di spaziare, assumevano ora le temibili sembianze di arieti lanciati allo sfondamento. E se quelle navi erano equipaggiate con il fuoco greco... Dio Misericordioso!

L'unica manovra che potesse attuarsi per sperare di scampare ad un situazione come quella, o quanto meno salvare quanto più possibile della flotta, era priva di certezze di successo. L'avanguardia veneziana avrebbe dovuto ingaggiare la prima flotta nemica e tenerla occupata, tentando di resistere, mentre la retroguardia ed il centro dovevano fare immediatamente marcia indietro e cercare di sfondare la seconda squadra bizantina proveniente da sud, aprendo un varco a tutta la flotta e permettendole di lasciare lo stretto, ritirandosi nella salvezza del vasto spazio dell'Egeo, dal quale era appena giunti. Ma sarebbero riuscite le galee ad aprire una breccia nella formazione bizantina meridionale? Sarebbero riuscite soprattutto a manovrare per girarsi in tempo e condurre la controffensiva? E loro che stavano nell'avanguardia, sarebbero riusciti a sostenere l'impatto con la squadra bizantina orientale e a trattenerla perché non facesse scempio di un centro che nel frattempo sarebbe stato intento a rigirarsi?

Lodovico di Caprio pregò Dio che li assistesse in quel momento fatale. Poi, in un secondo, gridò gli ordini: «Segnalate a tutta l'avanguardia: remi avanti tutta. Arcieri sui ponti. Formazione d'attacco! Ingaggiare il nemico a proravia!». Accertatosi che gli uomini s'erano subito accinti ad eseguire, diede i restanti comandi: «Segnalare invece a tutta la retroguardia e al centro: invertire la rotta immediatamente. Remi avanti tutta verso meridione, alberi issati e vele spiegate. Formazione d'attacco! Ingaggiare il nemico a sud e sfondare la linea!».

Come un vespaio ronzante scatenato da un'improvvisa minaccia, l'intera flotta veneziana s'animò delle grida e delle imprecazioni dei marinai, dei richiami degli ufficiali, degli stridii del legno, dei remi e del sartiame. Su tutto il sibilo del vento e il frenetico rintocco della pioggia, mentre il suono dei tamburi che dava il ritmo ai rematori accelerava sempre più fino al parossismo. I remi artigliavano i flutti come le zampe di tante belve inferocite.

Pochi minuti ed ecco che le massicce e scure sagome dei dromoni bizantini erano lì davanti a poche decine di metri. Le frecce dell'una e dell'altra parte già solcavano il cielo con il loro letale ronzio e mordevano la carne degli uomini.

“Dio mio, sono già su di noi! Se anche la loro seconda squadra è così veloce, sarà addosso alla nostra retroguardia mentre ancora non s'è girata” ebbe il tempo di pensare di Caprio prima che l'inquietante mole di una nave nemica si presentasse loro davanti.

«Virare ad est-nord-est! Ritirare i remi di dritta, presto!».

I rematori del lato destro della galea fecero appena in tempo a ritirare i remi prima che il dromone bizantino vi si potesse avventare sopra spezzandoli. L'imbarcazione passò velocemente loro affianco senza riuscire a speronarli. Gli arcieri di entrambi i ponti si scoccarono contro furiose raffiche di dardi. L'inumano gemito del legno che si spezza li fece però loro voltare lo sguardo a sinistra, dove una galea veneziana non aveva fatto in tempo ad evitare il rostro di un dromone. La nave, con un esplosione di travi e schegge di legno, aveva ricevuto l'affondo nemico sul fianco. La prua del dromone penetrò in profondità, squarciò il ventre della galea, schiacciò le membra dei rematori del banco di dritta e spezzò letteralmente in due lo scafo. Le frecce, incendiarie e non, volavano in ogni dove.

Mentre l'Ammiraglio osservava disperato la tragica fine dell'imbarcazione, i cui due restanti tronconi velocemente colavano a picco con il loro carico di marinai urlanti, chi aggrappato ad un remo, chi impigliato nel sartiame che scivolava giù, chi risucchiato sotto lo scafo nemico, un improvviso lampo rossastro accecò la notte e il mare.

Per una frazione di secondo tutto divenne bianco attorno a loro. E l'orribile spettacolo giunse prima del raccapricciante odore della carne bruciata e delle strazianti grida degli uomini.

Alla loro destra, un dromone bizantino, equipaggiato sulla prua con un grosso tubo metallico terminante in un enorme sifone, eruttò un fiume di fuoco liquido contro una delle imbarcazioni veneziane. La nave s'accese come un rogo, illuminando a giorno l'area circostante, ruggendo come un essere demoniaco. Il fuoco greco in pochi istanti disfece alla stregua di una foglia secca l'intera galea sottile, spargendo fiamme e scintille dappertutto. Subito il fuoco si propagò ad un'altra nave veneziana che si trovava troppo vicino a quel rogo, e poi ad un'altra ed un'altra ancora, in una sequenza infernale. Le navi veneziane erano troppo attaccate l'una all'altra, costrette com'erano dal loro numero in quello spazio angusto. I dromoni bizantini, checché attaccassero con le frecce, i rostri o il fuoco greco, non potevano mancare il bersaglio, il loro nemico impotente a manovrare e a scansarsi.

Ovunque andasse con lo sguardo, l'Ammiraglio di Caprio non vedeva altro che la devastazione infuriare, il nemico aprirsi la strada tra la formazione veneziana come una lama s'apre la strada tra le carni, i dardi colpire uomini e acqua, i corpi galleggiare tra le onde e i remi, i legni infrangersi l'uno contro l'altro, rumori terribili ed inumani sovrastare la pioggia e l'ardente rombo del fuoco, le galee sulle ali estreme combattere impotenti con i remi spezzati la corrente e rovinare orribilmente contro gli scogli. Su tutto una sinistra e mortifera luce rossastra si spandeva ed artigliava le cose prim'ancora che fossero le stesse fiamme a farlo. La disfatta aveva un volto terribile e diabolico.

Egli ancora non lo sapeva, ma al di là del promontorio che segnava il gomito dell'ansa dello Stretto dei Dardanelli, la situazione era la stessa, se non addirittura peggiore. La seconda squadra bizantina aveva ingaggiato la retroguardia mentre ancora le galee di questa, rese goffe ed incapaci dalla costrizione fisica in cui si trovavano, gli davano il fianco e non avevano ancora completato la virata. Fu come il lupo che si getta contro il ventre dell'agnello. I rostri distrussero quasi interamente la prima linea veneziana, mentre il fuoco greco prendeva anche lì a portare la sua rovinosa devastazione. La pioggia non aveva il potere né di spegnerlo né di attenuarlo, così come non ce l'aveva il mare, che anzi contribuiva assieme al vento a propagarlo. Dense ed enormi macchie di quella misteriosa pece greca che non poteva essere spenta dall'acqua si spostavano infuocate come tanti iceberg alla deriva, galleggiando sul pelo dell'acqua, incoronando i flutti dell'intero stretto di rosse fiamme fameliche.

Di Caprio era attonito. “L'Inferno... È così che dev'essere l'Inferno...”. E loro ci sarebbero finiti presto, all'Inferno.

Un tremendo scossone riverberò per tutto il ponte della sua galea e lo gettò a terra. La caduta lo fece riavere della catatonica disperazione in cui lo spettacolo l'aveva gettato. Si costrinse ad alzarsi e ad agire: doveva salvare da quel disastro quanti più uomini e navi poteva.

Accorgendosi di un dromone bizantino che puntava su di loro, prese ad urlare gli ordini: «Attenzione! Remi di dritta, spingere! Virare a...».

Non fece in tempo a terminare la frase. Nella concitazione non aveva notato che la prua di quel dromone montava uno dei terribili sifoni dei bizantini. Vide un bagliore rosso ed arancio scaturire dalla fauci spalancate di quel mostro, che altro non poteva essere se non un drago mitologico. “San Giorgio, salvaci!”.

Poi il getto incandescente di fuoco greco investì in pieno la galea.

*


Alessio Comneno si allacciò sulle spalle il mantello purpureo. Un sole sanguigno stava sorgendo. Il tetro pensiero di quelle storie secondo cui l'alba di un sole rosso era segno che molto sangue s'era versato nella notte precedente gli agitò la mente. “Dobbiamo fare presto”.

«Muoversi!» inveì contro la quarantina di cavalieri della pronoia che lo stavano scortando, la maggior parte dei quali ancora non era pronta a rimettersi in sella o addirittura s'era appena svegliata. Alessio poteva capirli: avevano cavalcato tutto il giorno precedente e tutta la notte. Neanche tre ore per far riposare i cavalli e le membra stanche e doloranti, che già li spingeva a riprendere la corsa frenetica. Ma dovevano fare presto.

Una settimana prima il Synbasileus era a Malvasia, intento a seguire e dirigere le operazioni contro il castello tenuto dal Conte Polani. Era stato costretto a prendere in mano le redini delle operazioni militari dopo la vittoria di Pirro che era stata la presa di Atene. I veneziani che tenevano il capoluogo dell'Attica, nel cadere assieme alla città che difendevano, s'erano portati nella tomba tanti di quei bizantini che la presa dell'insediamento era costata all'Impero i due terzi e più della sua armata. Per evitare che qualcun'altro dei suoi generali incompetenti, sottovalutando il nemico, potesse distruggere, nella presa del castello, quell'altro loro esercito che assediava Malvasia, s'era recato là ed aveva preso il comando.

Il morale era alto. Il castello sembrava abbastanza vicino alla capitolazione per fame e loro già pregustavano la vittoria grazie alla quale pure il Peloponneso sarebbe stato liberato anche dall'ultimo degli invasori.

Poi era arrivata quell'enorme flotta. Alessio era rimasto sbalordito. Quella moltitudine di galee veneziane aveva sbaragliato in un batter d'occhio la loro squadra che poneva il blocco sul porto. Era attraccata ed aveva scaricato tanti di quei rifornimenti da permettere a Malvasia – il Comneno se n'era persuaso – di reggere l'assedio fino al Giorno del Giudizio.

Ma la paura più grande gli aveva stretto il cuore quando, tre giorni dopo, quella mostruosa flotta era ripartita facendo rotta verso nord-est. E subito egli aveva presagito dove stesse puntando: Costantinopoli. La capitale dell'Impero era in enorme pericolo.

Mandando rapidi messaggeri in avanti, anch'egli era montato a cavallo con la sua scorta, per raggiungere il più in fretta possibile Costantinopoli ed allestire disperate difese. Per tutto il viaggio l'opprimente terrore di non riuscire ad arrivare in tempo l'aveva tormentato e a ragion veduta: i cavalli non potevano competere con la velocità delle navi, specie se dovevano attraversare via terra tutta la Grecia e la Tracia.

Quand'erano quasi in vista delle mura di Tessalonica, tuttavia, gli era venuto incontro un messaggero proveniente da Costantinopoli. Egli l'aveva informato di come il Megas Doux Romano Laskaris, comandante della flotta bizantina – o almeno di ciò che ne rimaneva dopo anni di guerra – lo salutasse e gli dicesse di non temere: erano già al corrente della minaccia che si stava avvicinando via mare, avevano radunato tutte le navi a disposizione ed avevano preso tutte le precauzioni che era stato in loro potere prendere. Sulla qual cosa, si avvide Alessio, il Megas Doux sembrava parecchio fiducioso.

Molto più arduo gli era risultato comprendere, da quel poco che fu in grado di dirgli il messaggero, in quale modo a Bisanzio fossero venuti a conoscenza dell'attacco con un preavviso sufficiente a preparare una contromossa. Le spiegazioni su quel punto erano state piuttosto vaghe, riferendo di spie e vie oscure. Per un attimo gli era balenato alla mente il ricordo dei due assassini che mesi addietro avevano surrealmente visitato la sua tenda.

Alessio aveva comunque proseguito a spron battuto per Costantinopoli, volendo essere là in quel momento fatidico di grande pericolo, la cui sorte non era affatto sicura né determinata. Aveva ordinato di fare quella sosta quando avevano raggiunto nottetempo la metà circa della strada che collegava Tessalonica alla capitale, mosso a pietà dai suoi uomini stremati.

Ora aveva fretta di ripartire, quel pressante senso di urgenza che s'era improvvisamente rianimato alla vista di quell'alba rossa come il sangue. Stava per montare in sella, quando gli uomini lo avvertirono di qualcuno che giungeva cavalcando velocemente.

Dispersa che fu la nuvola di polvere ed arrestato con un sonoro nitrito il cavallo in corsa, un messaggero dalla fronte sudata discese e si presentò al Synbasileus, mentre gli altri uomini si facevano il più possibili vicini per udire le nuove.

«Mio signore! Mio signore Alessio! Ti porto notizie da Costantinopoli. Due notizie in effetti». Il tono dell'uomo era agitato.

«Parla» gli comandò subito e senza preamboli.

«La prima: una grande vittoria, mio signore! Una grande vittoria! La flotta dei veneziani è stata sconfitta e distrutta nello Stretto dei Dardanelli. Due terzi e più delle loro navi sono bruciate o sono affondate contro gli scogli, i loro uomini uccisi ed annegati. La nostra flotta li ha attaccati nottetempo di sorpresa, bruciandoli con il fuoco greco, sventrando loro gli scafi e spingendoli a rovinare contro le coste. La capitale è salva e non è stata toccata. Quel che rimane delle navi veneziane si è disperso ed è fuggito in rotta. Gioisci, mio signore: Costantinopoli è in festa!».

Il grido di gioia dei suoi uomini riempì l'aria. Tutti si abbracciavano esultanti e si davano grandi pacche fraterne sulle spalle. Qualcuno persino accennò con la voce alcune note di una canzone.

Il sorriso stava dipingendosi a forza anche sulle labbra del Comneno, ma egli si dominò. Con un brusco richiamo riportò il silenzio e chiese: «E l'altra notizia?».

Il volto del messaggero si oscurò. Trovate le parole, dopo un secondo di silenzio riferì: «Il lutto accompagna la felicità per la sconfitta del nemico. Il cuore del povero Basileus Andronico non ha retto al sollievo e alla gioia portati dalla notizia. Egli è... morto, mio signore. È morto nel suo letto, davanti ai messi che gli avevano riferito della vittoria».

Alessio rimase impietrito, così i suoi cavalieri. Sebbene per mesi avesse aspettato quella notizia, viste le condizioni di salute dello zio, non era comunque preparato ed accusare il colpo non era facile.

Improvvisamente il messaggero si inginocchiò a terra davanti ai suoi occhi che lo fissavano interdetti, il capo chino, e scandì a voce alta, cosicché tutti i presenti potessero udire: «Salute a te, mio Cesare Alessio. A te che ora sei il Re dei Re, il Regnante dei Regnanti».

I cavalieri romei, compresa in un attimo la situazione, levarono le spade al cielo e gridarono in coro: «Salute Alessio, Re dei Re, Regnante dei Regnanti!».

Il Comneno rimase in silenzio, immobile come una statua di sale. Guardò negli occhi uno ad uno gli astanti. Poi, con passo deciso e silenzioso si diresse al suo destriero e con un balzo atletico montò in sella.

«A Costantinopoli!» ordinò perentorio, lasciandosi dietro gli altri che stupiti si affrettavano a imitarlo. Lanciò immediatamente il cavallo al galoppo, cosicché il ritmo forsennato della corsa potesse coprire lo stordimento e l'inquietudine che gli avevano serrato l'anima.

*


Si svegliò e aprì gli occhi. Fasci di luce mattutina penetravano dalle piccole finestre monofore dall'arco a tutto tondo. Uno di essi rischiarava il pesante tavolo di legno al quale era seduto Giovanni Dandolo con indosso le vesti del suo ordine, intento a scrivere qualcosa.

Roberto Selvo osservò per qualche secondo la figura china sulla pergamena, i contorni nitidi e definiti dal chiaroscuro originato dalla luce. Poi stiracchiò il corpo possente, nudo sotto le coperte del letto, emettendo un mugugno di soddisfazione. Non si alzò, rimase sdraiato nel letto.

Erano passate poco meno di tre settimane dalla sera in cui era giunto là a Roccaserrata ed il suo soggiorno si era rivelato alquanto piacevole e rilassante. Aveva potuto riposarsi e rilasciare la tensione accumulata in mesi di missione in terra nemica. S'era rifocillato, aveva letto, era andato a caccia, aveva fatto qualche esercitazione con le armi, e non solo quello.

«Ben alzato» lo salutò il Gran Maestro senza volgere lo sguardo dal foglio, la piega di un lieve sorriso che gli prendeva l'angolo della bocca. «Vedo che ti piace dormire di giorno e vivere di notte, a te. E in effetti, se così non fosse, non saresti tu».

«Già» assentì quasi bonario Roberto. «Mentre tu vivi di giorno, vivi di notte e non dormi mai. Dovresti concederti più sonno».

«Verrà il tempo in cui potrò concedermi tutto il riposo perso, al più tardi quando sarò morto».

«Vorrà dire che un giorno di questi ti costringerò io a riposarti come si deve» lo minacciò scanzonato.

Si godette per un attimo la pace di quel giaciglio, il calore delle coperte sulla pelle nuda.

Inseguendo un pensiero distratto disse poi: «Anche se non ho mai voluto farti domande sulle tue trame, a volte mi chiedo il perché dei tuoi ordini».

«Lo sai bene che se chiedessi ti risponderei. Cosa vuoi sapere?».

«Nulla. Solo quello che ritieni di dirmi. E comunque non ho bisogno di sapere per compiere il mio dovere: puoi disporre di me come vuoi. L'hai sempre saputo». Gli lanciò uno sguardo complice. «Ma quello che mi incuriosiva, mentre tornavo dalla Grecia, è per quale motivo mi hai fatto salvare il Comneno. Solo perché lo puoi controllare meglio?».

«Beh, ovviamente. Ed anche perché è ingenuo. L'hai notato tu stesso, no?».

«Sì, non è troppo perspicace... Diciamo che l'ho visto abbastanza stupito all'idea che il Doge potesse farlo assassinare».

«Appunto. Egli è un Comneno, cresciuto dai Comneni. Bravo ed impetuoso sui campi di battaglia, scomodo sul trono, sprovveduto tra le stanze di palazzo. Non è uno stupido, per carità, ma manca di sottigliezza» disse Giovanni con un vago gesto della mano sinistra. «Mentre Niceforo... Niceforo è uno sciocco, ma uno sciocco cui piacciono gli intrighi. E questa sua... infatuazione per l'intrigo – infatuazione per altro niente affatto corrisposta, direi – avrebbe anche potuto renderlo sospettoso e capace di intuire» gli spiegò. «Per questo te l'ho fatto salvare. Perché mi serve un Comneno sul trono di Costantinopoli. Questo Comneno».

«Ti serve? Come ti servo io? Chissà poi per quale disegno...».

«Oh, credo che ormai tu lo sappia già» insinuò con un sorriso sornione Giovanni, per poi alzarsi dalla sedia ed avvicinarsi al letto. «Chissà che cosa ti ho sussurrato all'orecchio in questo letto, nell'incoscienza del sonno... Quali segreti della mia anima ti ho rivelato, segreti sconosciuti persino a me stesso...» gli sussurrò. «E poi tu non mi servi. No... Di te io ho bisogno. Di te ho avuto bisogno sin da quel giorno a Rialto, quando ancora studiavo nella biblioteca dell'Ordine».

Dalla finestra giunse il suono lontano del nitrito di un cavallo. Il Gran Maestro, scostatosi dal letto, si avvicinò alla monofora per dare un'occhiata.

«Un messo, a quanto sembra» informò. Sulla sua fronte per un secondo si disegnò una piccola ruga, che Roberto notò. Dopo tutti quegli anni, sapeva perfettamente che quella ruga faceva la sua veloce apparizione allorquando il Dandolo o riceveva un motivo improvviso di preoccupazione o vedeva giungere il momento d'agire. Si chiese quale dei due casi fosse quello.

«Torno subito». Il Gran Maestro uscì dalla stanza.

Per venti minuti e più, Roberto Selvo poté continuare a godersi la tranquillità del letto, lo sguardo perso nei raggi di luce che piovevano nella stanza, la mano del braccio destro alzato sotto il capo che sonnolenta accarezzava il capo rasato.

Poi Giovanni Dandolo rientrò con quel suo tipico passo che, sebbene fosse fermo e misurato, riusciva a trasmettere agli altri la fretta della situazione mantenendo la dignità della calma. «Vestiti, Roberto. Prepara le tue cose. Ho dato ordine di armare la galee al porto: partiamo immediatamente per Venezia».

Roberto Selvo non fece domande. Sapeva che la spiegazione non avrebbe tardato a giungergli per bocca di Giovanni. Infatti, mentre si vestiva, questi, il volto tagliato a metà da una lama di luce che gli illuminava la bocca e il mento e gli celava nell'ombra il resto del capo, lo informò succintamente con tono imperscrutabile: «Di Caprio è stato sconfitto. Rovinosamente sconfitto. La flotta è stata distrutta dai romei nello Stretto dei Dardanelli».

Roberto non disse niente, e così pure il Gran Maestro. Sapeva che altri dettagli su quegli eventi glieli avrebbe forniti più avanti.

Quando uscirono sull'ingresso dell'abbazia, i cavalli già li attendevano, assieme ad un folto drappello di armigeri dell'Ordine Marciano e di muli carichi di bagagli. Roberto stava per montare in sella, quando alle sue spalle sentì provenire un tenue sferragliare di metallo contro pietra ed una voce rinsecchita e roca che gridava e mugugnava qualcosa. Un uomo, il torace nudo e schelettrico, il capo quasi completamente calvo, gli occhi infossati nelle orbite, veniva trascinato di peso da due soldati dell'Ordine. Le catene che gli cingevano i polsi e le caviglie tintinnavano contro i gradini di granito.

Roberto non si scompose, issandosi a cavallo come se nulla fosse. “A quanto pare anche Niceforo Paleologo viene con noi” sogghignò tra sé.
[Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 21:53]