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Capitolo XIII
Pietà




Costantinopoli, 15 maggio 1175.

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L'aria era tiepida e gentile, l'atmosfera quieta. Piccoli rivoli di fumo portavano pigramente il penetrante sentore dell'incenso qua e là. Dalla grande apertura che dava sulla terrazza, i cui stipiti erano drappeggiati da sipari di sottile tessuto, raccolti per permettere alla luce e alla lieve frescura d'entrare, giungevano le sommesse voci della più grande città del mondo conosciuto. Una cacofonia che non riusciva ad arrivare prepotente, come invece era nelle strade, a turbare la serenità dei quartieri imperiali. Tutto ciò che riusciva a penetrare nel silenzio del Gran Palazzo della corte bizantina pareva il sommesso respiro di un cane accucciato.

Voltò lo sguardo dalla porta-finestra alla volta che copriva la sala. I perlacei occhi di Santa Sofia lo guardavano fisso, gentilmente implacabili come sono gli occhi di colei cui Dio ha concesso di sapere tutto, di vedere cosa si cela nel cuore di qualsiasi uomo. Vesti composte da miriadi di tasselli rossi ed azzurri ammantavano la figura dell'eterea donna, ed un piccolo mare di frammenti dorati ne cingeva il volto, figurando il circolare, visibile segno della sua santità.

“Sofia, la Conoscenza” pensò. “Tu vedi, tu conosci, tu sai. Rivela anche a me ciò che vedi, dimmi ciò che devo fare, mostrami la via, ti prego”.

Alcuni dei suoi predecessori erano stati particolarmente pii e quando quell'ala del palazzo era stata rifatta avevano voluto ricoprire le pareti ed il soffitto del grande studio degli Imperatori con gli splendidi mosaici di figure di grande saggezza e virtù. E su tutti, sopra la più grande delle arcate a tutto sesto che immettevano allo spazioso terrazzo, perfettamente delineata sulla volta con quella divina inconsistenza tipica delle icone greco-ortodosse, avevano messo a campeggiare Santa Sofia.

I suoi predecessori, sì. Perché adesso lo erano davvero. Perché adesso anche lui era un Imperatore romano. Anche lui era un Cesare, un Re dei Re, un Regnante dei Regnanti. L'ultimo di una lunga serie – ininterrotta, come sostenevano da sempre i romei – che da Augusto portava fino a lui. L'apice di una linea di potere e tradizione che si snodava per più di mille anni e che si perdeva ormai nelle nebbie della leggenda e del mito.

Il Basileus Alessio Comeno diede un ultimo sguardo al mosaico della santa, lanciando un ultima, silenziosa preghiera. “Guidami”.

Uscì sulla terrazza ed inspirò a pieni polmoni per scacciare la preoccupazione, lasciando che il sole, che già aveva preso lentamente ad acquisire il suo calore estivo, gli scaldasse le membra e gli illuminasse il volto. Quanto avrebbe dato per trovarsi in un accampamento militare, magari nel campo d'assedio di Malvasia, circondato da sbracati soldati che si schernivano, cantavano, si ubriacavano, scopavano con prostitute e servette, si addestravano, dormivano senza alcun pensiero se non quello di ingurgitare la razione di vino del giorno seguente o di trovare qualche soldo da spendere con una delle baldracche o di tirare qualche freccia contro le mura del castello peloponnesiaco, tenuto dai veneziani.

Invece egli era lì, nell'immota opulenza del Palazzo della Magnaura di Bisanzio, nelle stanze dei suoi regali predecessori. Untuosi servi e boriosi magnati lo circondavano, i loro inchini e i loro sorrisi trasudavano falsità, le loro parole erano come le tessere di quei mosaici: schegge dai colori appariscenti e sgargianti, tirate su a nascondere lo scuro di vecchi mattoni. Le pareti erano immense, i corridoi interminabili. I passi risuonavano attutiti e flebili sui tappeti pregiati; vigeva un'eterna penombra che non scompariva mai: di giorno si faceva semplicemente più chiara e di notte semplicemente più scura. Le lampade ad olio producevano piccole e taglienti fiammelle che parevano sempre immobili, le spire degli incensi che bruciavano senza emettere un suono irretivano gli spazi come tante ragnatele sottili. Un continuo viavai di persone attraversava le stanze, ma la loro presenza era provvisoria e quasi passava inosservata, tanto i loro movimenti erano accorti e composti: non sarebbero neanche stati in grado di increspare la superficie di una pozza d'acqua. L'intero, monumentale complesso di costruzioni pareva ricordare agli uomini la loro miserevole vacuità, la loro imperfezione, la loro transitorietà, la loro triste e meschina inadeguatezza alla serena, perfetta ed immobile bellezza del divino.

E su tutto gli occhi. Le centinaia di occhi raffigurati nei mosaici e negli affreschi sparsi per ogni dove nei quartieri imperiali. Vedevano tutto, osservavano ogni più remoto angolo, registravano le mosse di chiunque s'aggirasse in quei luoghi. E sondavano le anime di ogni uomo o donna, distanti, remoti, intoccabili.

Su di lui i loro sguardi si puntavano sempre, fissi, e lo seguivano con più veemenza, con più attenzione, con più sospetto. Perché era lui che ora erano chiamati a spiare, dopo decine e decine di predecessori, era lui che erano chiamati a sorvegliare, soppesare, valutare ed infine giudicare e condannare. E tutti parevano dirgli la stessa cosa: “Sei solo di passaggio. Non sei né il primo né l'ultimo che guardiamo. Sei solo una foglia secca che cade lentamente davanti ai nostri occhi, ma noi abbiamo visto la primavera di quest'albero, e la fulgente estate. Ora vediamo l'autunno, e saremo ancora qua quando calerà l'inverno. Tu sarai andato, soppesato delle tue colpe e condannato per la tua inadeguatezza, e noi saremo ancora qua. Non sei che un breve respiro per noi che viviamo con i cuori immobili da secoli. Noi siamo Costantinopoli e tu non sei altro che un miserabile venuto a disturbare e postulare davanti ai nostri scranni silenti. Tu passerai, passerai in un momento, morirai mentre ti fissiamo, così come è morto tuo zio, soffocato dal nostro sguardo, e noi resteremo, resteremo ancora qua, memori di tutto, avidi di parola, prodighi di inumano silenzio”.

“Cristo! Persino nella mia latrina ho sei occhi che mi guardano pisciare e cagare!” pensò con stizza. L'imperatore che aveva fatto decorare la stanza della latrina in quel modo doveva aver ricavato un qualche depravato senso di piacere all'idea di far raffigurare anche su quelle pareti figure che potevano guardare gli abitanti dell'appartamento imperiale intenti ad espletare i loro bisogni fisiologici.

Il Gran Palazzo, da alcuni chiamato Palazzo della Magnaura, era un enorme complesso monumentale situato presso l'apice sud-orientale del Corno d'Oro. Al di là degli enormi quartieri e dei giardini imperiali, al di là del titanico ippodromo, vestigia di un passato in cui tutto il mondo appariva più grande e luminoso, si dipanava come un'enorme tela intessuta la città di Costantinopoli, l'erede di Roma antica. Parecchi chilometri in là, verso nord-ovest, esattamente all'estremo opposto, il pantagruelico agglomerato urbano finiva seccamente, racchiuso dalle possenti e grandi mura che lo cingevano, mura che nessun straniero era mai riuscito a valicare in armi e che davano alla capitale di ciò che ancora si gloriava essere l'Impero Romano la sua fama di imprendibilità.

Da più di ottocento anni il Gran Palazzo ospitava l'amministrazione e la corte imperiale della Basileia. Opulentamente sistemato tra le infinite abitazioni cittadine ed il mare del Bosforo, adombrato dalla divina mole della Cattedrale di Santa Sofia, incontrastato gioiello di tutta la cristianità ortodossa, con la costa dell'Asia Minore a portata dell'occhio, il complesso pareva racchiudere in sé l'eternità dei secoli e l'essenza di un impero che nella mente dei suoi abitanti era destinato a non avere mai fine.

Tuttavia, il Palazzo della Magnaura aveva cominciato anch'esso a conoscere l'incostanza e la fragilità di tempi costretti a cambiare insieme al mondo. Il Basileus Manuele Comneno aveva infatti deciso, durante il suo regno, di spostare la corte nel Palazzo delle Blacherne.

Le Blacherne erano quanto più di diverso poteva esserci a Costantinopoli rispetto al secolare complesso degli Imperatori. Più che di un palazzo si trattava infatti di una vera e propria fortezza, non dissimile nella natura militare delle sue strutture ad alcuni grandi castelli occidentali, sebbene più basso e tozzo. Era situato all'estremo opposto del Corno d'Oro, addossato alle grandi mura teodosiane, nei pressi della porta omonima: facilmente difendibile e munito di torreggianti fortificazioni, dominava da un lato la campagna e dall'altro le periferia della città e le radici della lingua di terra su cui essa era costruita. Tutte le migliorie, le comodità e i decori che Manuele I vi aveva apportato non erano comunque stati in grado di oscurare la sua essenza prettamente bellica.

All'epoca era parso quasi naturale che il primo degli Imperatori Comneni, una dinastia legata per storia e carattere al mondo dell'esercito, avesse rotto con la tradizione ed avesse spostato la propria dimora in un castello. Molti presso la corte avevano infatti sussurrato con scherno che la magnificenza e la raffinatezza di una regale dimora come il Gran Palazzo non erano certo adatte ad un soldato, e che il soldato in questione s'era quindi andato a scegliere come abitazione quattro mura merlate e qualche torre, assai più appropriate a lui.

Il Palazzo delle Blacherne era in effetti un luogo di gran lunga meno maestoso e confortevole. Ma aveva il pregio di essere molto meglio difendibile; poteva esser raggiunto con più agio e velocità, essendo presso le porte urbane e non dovendosi attraversare l'intera capitale; non veniva toccato dalla graveolenza e dall'aria stantia generate dall'enorme insediamento cittadino, e là i magnati della corte potevano essere meglio controllati, la sicurezza della persona dell'Imperatore meglio salvaguardata. Tutte cose che avevano spinto Manuele Comneno a stabilirsi in quel luogo.

Il suo successore Andronico, ormai defunto, capendo quanto ancora fosse marcato il solco che divideva la nuova dinastia dall'antica aristocrazia patrizia, aveva voluto riprendere la tradizione e ribadire la continuità della casata Comnena con la lunga teoria degli Imperatori d'Oriente. La sede della corte era stata dunque spostata nuovamente nel Palazzo della Magnaura, sebbene il regno di Andronico fosse durato poco. Egli, non a caso, sembrava essere un uomo assai più avvezzo agli usi della vecchia nobiltà e meno fuori luogo tra le opulenti ed artefatte spire della corte di quanto non fosse stato il primo Comneno.

Diventato Basileus, Alessio aveva voluto rispettare il proposito di ritorno all'aderenza alla tradizione cominciato da suo zio e aveva mantenuto la residenza imperiale nella Magnaura. Cosa di cui stava già cominciando a pentirsi. Sotto molti punti di vista, infatti, egli era più simile all'Imperatore Manuele e alla sua vocazione di soldato. E non passava giorno in cui l'idea di seguire il suo esempio e spostare di nuovo la corte presso la fortezza delle Blacherne non facesse capolino nella sua mente, tentandolo.

Cosa avrebbe dato per essere lì su quella terrazza a passeggiare con suo zio Andronico, ancora vivo e rimessosi dalla malattia, chiacchierando e gioendo della grande vittoria del mese passato, chiedendogli consiglio, ricevendo ordini, studiando le mosse da fare nella guerra contro Venezia e nell'assedio di Malvasia. Suo zio, fintantoché era stato in sufficienti forze, aveva abitato e guidato la capitale molto meglio di quanto lui sperasse mai di poter fare.

Non vi erano dubbi che Alessio Comneno non fosse l'uomo più adatto per avere a che fare con la corte bizantina. Lo sapeva lui e lo sapevano pure tutti i magnati, i maggiorenti ed i servitori della capitale. Per questo aveva la costante preoccupazione che quell'ambiente infido potesse avere ragione dell'uomo sostanzialmente semplice che era. Ma sapeva pure che questa sua semplicità poteva rivelarsi anche un grande punto di forza.

Nessuno osava sfidarlo apertamente perché tutti conoscevano la sua fama di soldato e quanto l'esercito gli fosse legato, composto com'era da uomini che i Comneni avevano guidato, uomini con cui egli aveva condiviso i dolori e le gioie, le perdite e le vittorie, il desco e le notti sotto le tende o le stelle. Per quanto fossero grandi l'influenza e le ricchezze che i magnati della capitale possedevano, essi avevano comunque timore che il nuovo Basileus usasse le truppe e le soldataglie, che gli erano fedeli, se si fossero spinti troppo oltre. E tanto, fino a quel momento, era bastato per tenere al suo posto la corte.

La successione di Alessio non era ancora stata funestata dalla rivolta di alcuno, sino a quel momento. Le crepe si potevano comunque intravedere: un passo falso e si sarebbe ritrovato con mezza Basileia in subbuglio, i nobili che avrebbero approfittato della situazione per dargli contro. Ma i nobili al momento se ne stavano in silenzio e non sembravano essere smaniosi di testare di che pasta fosse fatto.

“La scomparsa di Niceforo è stata una manna dal cielo, altrimenti a quest'ora avrei tutti i Paleologi e metà degli Angelo-Ducas e dei Laskaris in armi oltre le porte della città” si ripeté per l'ennesima volta.

Un servitore lo raggiunse – in quel modo particolare di avvicinarsi in uso presso la servitù della corte che Alessio non riusciva a non definire “di soppiatto” – e gli si inchinò davanti. «Mio augusto signore, chiedo perdono. I postulanti attendono la tua udienza».

«Attenderanno ancora un attimo». Uno dei pochi lati positivi di essere il Basileus era che nessuno poteva osare mettergli fretta. «Immagino che anche quest'oggi nessuno dei Paleologi o degli Angelo-Ducas si sia fatto vedere a corte» interrogò il servo.

«Mi dolgo, mio Cesare, ma nessuno di questi nobili signori è qui. Né abbiamo notizia di alcuno che stia giungendo in città».

«Naturalmente» disse tetro Alessio.

Quando l'Imperatore Andronico era morto, dopo che gli era stata riferita la notizia della vittoria nello Stretto dei Dardanelli, tutti i Paleologi e gli Angelo-Ducas presenti in città, assieme a diversi altri nobili, avevano immediatamente lasciato Costantinopoli per recarsi alle loro terre nelle province, ufficialmente per spargere la notizia dei grandi accadimenti che avevano avuto luogo e sorvegliare i loro possedimenti nel periodo incerto della successione, in realtà – come sapeva bene – per adunarsi, discutere, macchinare, valutare se opporsi o meno al nuovo Basileus e, se del caso, preparare le proprie forze.

Alessio aveva convocato tutte le grandi famiglie e gli alti nobili bizantini a Costantinopoli perché gli rendessero omaggio. La maggior parte era già giunta e si era prostrata, alcuni avevano mandato missive per informare che sarebbero arrivati presto.

Dai Paleologi e dagli Angelo-Ducas, invece, non era giunto niente. Né sottomissione né ribellione. Evidentemente erano indecisi sul da farsi. E come poteva non essere ciò? Con Niceforo Paleologo scomparso, essi avevano ben poche pretese da vantare e da opporre ai suoi diritti di successione. Né potevano accusare il nuovo Basileus di essere stato responsabile della scomparsa del loro congiunto, sia perché egli a quel tempo si trovava a decine e decine di leghe dall'Isola di Lesbo, dove il fatto sembrava essere accaduto, sia perché la stessa isola non era mai stata un feudo dei Comneni né era mai stata sotto il loro controllo.

Alessio avrebbe dunque pazientato, sperando che Niceforo non saltasse fuori all'improvviso. E c'erano buone probabilità che, con un po' di tempo, privi com'erano di grandi margini di manovra, anche i Paleologi e gli Angelo-Ducas, insieme a tutti i loro accoliti, si sarebbero rassegnati e sarebbero venuti a rendergli omaggio.

Si decise infine a lasciare la terrazza e a rientrare: l'udienza lo attendeva. Mentre il servo gli camminava al fianco, rispettosamente defilato, Alessio volle informarsi: «Quanti sono oggi?».

«Oh, non molti, mio augusto signore, una ventina appena...». I servi della corte avevano uno strano senso delle proporzioni in fatto di udienze. Una ventina di persone da ascoltare in udienza gli avrebbe portato via più di mezza giornata. Ma evidentemente, in tempi da poco passati, essi avevano forse avuto modo di vedere numeri ben più grandi, con decine e decine, se non centinaia di postulanti. «... di cui una mezza dozzina all'incirca dovrebbero essere proposte nuziali».

Alessio Comneno alzò gli occhi al cielo. Quello era un tasto dolente. Sapeva perfettamente di non poter più scampare, ora che non era più solo il Synbasileus, ma l'Imperatore: doveva prendere moglie. E possibilmente generare degli eredi. Ma chi prendere in sposa?

Se si fosse lasciato guidare dal cuore o dall'attrazione, di certo avrebbe scontentato alcune tra le più potenti famiglie nobili, giacché – e non riusciva a capacitarsene! – queste ultime avevano tutte generato fanciulle non propriamente affascinanti. Se invece avesse guardato al rango, probabilmente si sarebbe appioppato per il resto della vita un'infida, orgogliosa e petulante moglie di nobilissimo sangue, neanche troppo bella a guardarsi, che l'avrebbe infastidito fino a portarlo alla tomba.

“Ma almeno posso scegliere” tentò di consolarsi. A molti infatti non era riservata quella possibilità, e sua sorella Maria Comnena era tra questi. Il compito di sceglierle uno sposo spettava a lui, come fratello e come Basileus. “Mia sorella... Deve sposarsi anche lei. E al più presto. Entrambi dobbiamo stringere i legami con il patriziato, per rendere più saldo il nostro trono. Devo ricordarmi di cominciare a sondare i partiti per lei”. La politica matrimoniale, al confronto delle strategie di guerra, gli sembrava assai più complicata e infida.

Quando entrò di nuovo nello studio per la grande arcata, i raggi del sole che gli scaldavano la schiena morirono all'istante. L'immobile e silenziosa atmosfera del palazzo lo avvolse di nuovo, con le sue spire d'incenso che tentavano di ghermirlo, con i suoi occhi di ceramica e tintura che tentavano di trapassargli l'anima.

*


La stanza delle torture era un buio antro al di sotto del Palazzo delle Blacherne, nelle viscere di Costantinopoli. Lì la luce del giorno non arrivava mai ed i muri erano avvolti in una continua notte. I minuti si alternavano alle ore e le ore ai giorni senza apparente distinzione. Lo scorrere del tempo era lento come il gocciolare del sangue, distorto dall'incoscienza del dolore. Era facile perdere la cognizione del susseguirsi dei giorni, non v'erano segni che marcassero le ore. Non i pasti, non la luce e la tenebra, non il canto di un gallo o l'alternarsi del rumore del dì con il silenzio della sera.

Lodovico di Caprio aveva perso da tempo il conto dei giorni. Era arrivato a perdere persino cognizione di se stesso. Ma il dolore sordo e pulsante che affliggeva il suo corpo era sempre lì a ricordargli che era ancora vivo. Per lo meno, quello rimaneva un punto fermo, in quel luogo separato dalla realtà del mondo.

Il suo corpo era spezzato e tremante, per la sofferenza ed il freddo. Era appeso per i polsi, crudeli bracciali di metallo glieli cingevano e lo tenevano sollevato ad un palmo dal terreno, scorticandoglieli fino all'osso. Da tempo aveva cessato di avvertire i segnali di dolore che gli mandavano. Così come da tempo era scomparsa la sofferenza delle braccia: ormai l'articolazione di entrambe le spalle era uscita dalla propria sede, spezzandosi. I suoi arti superiori erano diventati l'inerte prolungamento delle catene che pendevano dal soffitto di pietra.

La pelle del torace era per metà ricoperta da un'orrenda, biancastra e maleodorante ustione. Il resto del suo nudo corpo era un intrico di ferite da frusta, da taglio e da ferro rovente, delle forme più disparate. Alcune erano quasi del tutto incrostate di sangue rappreso, altre continuavano a vomitare lentamente freschi rivoli rossi, altre ancora stavano virando alla cancrena, cospargendosi di livido pus e tingendo la pelle attorno di un sinistro colore bluastro.

Cinque dita dei piedi gli erano state strappate, assieme all'occhio sinistro. E là dove una volta pendeva la sua virilità, c'era solo un'orribile cavità nera e rossa, sanguinante. Il cazzo, gli avevano strappato anche quello. Era stata una delle prime cose contro cui si erano accaniti, brandendo un infernale strumento di metallo a forma di pera che si era chiuso ghermendo il suo membro e troncandolo alla radice, nella sofferenza più atroce che avesse mai provato.

Quante volte aveva maledetto il suo fisico da marinaio ancora robusto e forte, nonostante l'età, temprato da decenni di mare e flotta, che ancora restava in vita. Ora non aveva neanche più la forza di maledirlo.

Ricordava come in un sogno i primi giorni di tortura, quando ancora era fiero e combattivo, disposto a tutto pur di non parlare. S'era persino fatto beffe dei suoi aguzzini. «Siete dei fottuti pivelli! Dei dilettanti: da noi l'Inquisizione fa ben di peggio» aveva detto loro.

Uno dei carcerieri che comprendeva la sua lingua aveva tradotto ai compagni le sue parole. E questi, come punti sull'onore, si erano adoperati nei giorni seguenti a dare il meglio di sé nel torturarlo, secondo tutti i modi che gli erano venuti in mente.

In realtà non sapeva se in Italia l'Inquisizione facesse di peggio: non aveva mai sperimentato sulla propria pelle le sue attenzioni. Era da pochissimo tempo, infatti, che questi sacri organi avevano preso ad operare in Francia del sud e nell'Italia settentrionale, per scovare e giudicare i nemici della vera fede. I Vescovi, visto il diffondersi delle pericolose predicazioni valdesi e catare, stavano correndo ai ripari con veri e propri tribunali di indagine. Quelle che di Caprio aveva sentito erano solo chiacchiere e voci di persone che avevano assistito a qualcuno dei primi processi, o degli interrogatori, o delle poche esecuzioni che c'erano state. Sebbene fossero solo delle voci, tuttavia raccontavano già di cose sanguigne.

La sottigliezza di questi inquisitori che accompagnavano nelle indagini i Vescovi di Santa Madre Chiesa adombrava una grande astuzia ed un sacro furore ancor più grande: dietro ogni parola di quegli ecclesiastici si nascondeva una trappola logica o teologica, permeata costantemente dalla volontà di snidare l'errore, quantunque addirittura inconsapevole, sulla verità della fede. Nei loro interrogatori procedevano inesorabili per demolire pezzo dopo pezzo le anime degli accusati ed infine rivelare la macchia, nera e lampante come il peccato originale.

Negli ultimi processi le loro parole avevano cominciato ad essere coadiuvate dalla tortura. Mentre l'inquisitore trafiggeva le difese della mente con le sue continue domande ed insinuazioni, qualche carceriere penetrava quelle delle membra con ferri roventi, lame acuminate, sinistre macchine. Era infatti il “braccio secolare” – come lo chiamavano i Vescovi – a sporcarsi le mani con il lavoro di bassa macelleria, poiché coloro che appartenevano alla Chiesa non potevano versare il sangue di un uomo. E sempre all'autorità di feudatari, giudici regi o tribunali cittadini e comunali erano poi rimessi i condannati, perché fossero giustiziati o imprigionati. Alla Chiesa spettava di giudicare le anime, condannarne i peccati, distruggere con la “persuasione” le devianze della fede, mirando alla purificazione delle persone; ai poteri laici e temporali, invece, spettava il compito di agire sui corpi degli uomini, incarcerandoli, mutilandoli, uccidendoli.

Una sinistra reputazione stava perciò prendendo piede presso alcuni strati del popolo, in particolare tra coloro che avevano qualche simpatia per le predicazioni dei catari e dei valdesi, timorosi ormai di questi tribunali che apparivano loro implacabili. Tuttavia nulla era ancora stato stabilito con certezza e fermo criterio, l'iniziativa lasciata alla discrezione dei Vescovi e degli inquisitori secondo la loro particolare inclinazione.

Si continuava a discutere infatti, presso gli ecclesiastici ed i grandi teologi, su quali fossero le migliori metodologie da adottare per condurre l'interrogatorio, se la tortura dovesse essere ammessa sempre o limitata, quali fossero gli strumenti da impiegare, e soprattutto quali i casi in cui doveva ricorrersi alla pena capitale e quale il metodo dell'esecuzione, che in ogni caso si preferiva non comportasse il concreto spargimento del sangue della vittima. Soprattutto nel Sacro Romano Impero erano molti, tra laici e chierici, quelli che propendevano per il rogo, terreno e purificatore preludio – dicevano – delle inestinguibili fiamme dell'Inferno che avrebbero arso per sempre i peccatori colpevoli.

Il Papa non si era ancora pronunciato. Ma si sapeva che un Concilio si sarebbe presto messo all'opera e che lo stesso pontefice stava lavorando ad una costituzione sul tema dell'eresia, collaborando con l'Imperatore Federico, per definirne stabilmente i canoni dello sradicamento.

Ad ogni modo, già allora solo una parte degli accusati sopravviveva agli embrionali processi. Per gli inquisitori era sufficiente uno scambio di poche battute per acclarare la devianza degli individui la cui eresia era malcelata o persino ostentata. Più lunga e articolata era invece la strada per scovare l'eresia meglio nascosta, ma anch'essa, solitamente, finiva per venire allo scoperto di fronte alla loro ferrea determinazione. Quasi tutti quelli su cui quei primi tribunali decidevano di utilizzare la tortura confessavano. Diversi confessavano pure colpe e immonde turpitudini di cui erano innocenti, o almeno inconsapevoli.

Per molti dei condannati c'era l'esecuzione capitale. Coloro che nell'ora fatidica si pentivano ed accettavano la mortale espiazione forse – così si riteneva – avrebbero ancora potuto aspirare al pietoso perdono di Dio Onnipotente. Coloro che invece si rifiutavano di riconoscere il loro nero peccato anche in punto di morte erano destinati al divino, eterno tormento.

Almeno, queste erano le voci che Lodovico di Caprio ricordava di aver sentito.

E in tutto ciò si scoprì a trarre una consolazione che gli dava uno strano senso di calore, nonostante il suo corpo spezzato, attanagliato dalla sofferenza, non fosse più in grado di sentire granché. La consolazione che qualcosa di meglio l'avrebbe atteso una volta morto. Non era un eretico, non aveva colpe di fede: le eterne fiamme dell'Inferno gli sarebbero state risparmiate e forse il Signore Misericordioso avrebbe perdonato i suoi modesti peccati, accogliendolo nella pace celeste. Quella consapevolezza riusciva a dargli un lievissimo sollievo ed andava e veniva di pari passo con il buio che a tratti gli oscurava la vista dell'unico occhio sano.

Sollievo che scompariva non appena i suoi pensieri tornavano a interrogarsi su quale sorte fosse toccata a suo figlio.

Il più grande dei suoi figli, l'unico che era sopravvissuto alla fragilità degli anni d'infanzia. Aveva fatto di lui un bravo marinaio, educandolo nelle cose del mare e della marineria al meglio. L'ultima volta che gli aveva parlato era stato prima che la flotta penetrasse l'ingresso dello Stretto dei Dardanelli, quando aveva radunato i suoi luogotenenti per gli ordini finali. Suo figlio infatti era capitano di una delle galee e comandante del centro dello schieramento. A trent'anni era la versione più giovane e forte del padre, già temprato da molte tempeste e scontri navali, già versato nel comandare gli uomini e le navi.

Probabilmente anche lui era morto assieme ai tanti altri veneziani. Se Dio era davvero misericordioso, l'aveva fatto morire colpito da una freccia o da una scheggia di legno o l'aveva fatto annegare tra i flutti. Se invece non lo era, allora suo figlio era stato bruciato vivo dal fuoco greco. “Signore, abbi pietà di lui”.

Lodovico di Caprio aveva perso conoscenza e l'aveva ripresa un centinaio di volte da quando era in quel luogo. Aveva urlato, aveva pianto, i suoi sfinteri avevano ceduto in continuazione. Le feci e l'urina si erano mescolate al sangue sul pavimento della segreta, l'aria puzzava di vita purulenta sull'orlo della morte.

Aveva perso coscienza persino delle parole e dei suoni che emetteva la sua bocca. Nel tripudio di dolore e alienazione non aveva più saputo discernere che cosa dicesse a se stesso e che cosa dicesse a coloro che lo guardavano e lo interrogavano. Tutto s'era mescolato in un'infinita tenebra di sofferenza.

Accanto a lui – poteva distinguerle – penzolavano altre figure. Tutti suoi compagni veneziani, senza dubbio. I pochi superstiti che i bizantini avevano recuperato e avevano ritenuto di mantenere in vita per gli interrogatori, ripescandoli dai relitti incendiati delle galee sottili della Serenissima. Tutti quanti spezzati nel corpo e nello spirito com'era lui. La maggior parte aveva enormi e putride ustioni simili alle sue che ricoprivano loro grandi porzioni di pelle: il mortifero ricordo lasciato dal fuoco greco.

Qualche flebile lamento si alternava al cigolio delle catene. Per il resto era silenzio.

Ad un tratto s'accorse della presenza di alcuni uomini che lo stavano fissando. Non sapeva da dove fossero usciti fuori; probabilmente erano giunti quando andava e veniva dallo stato di incoscienza e torpore che gli annebbiava i sensi. Strabuzzò l'occhio destro per mettere a fuoco la stanza.

Di fronte a lui stava in piedi e silenzioso il Basileus Alessio Comneno, scortato da due guardie e altrettanti aguzzini. Lo guardava con interesse. Nei suoi occhi poté leggere comprensione e pietà.

L'aveva già incontrato alcune volte, durante gli strazianti interrogatori. E l'Imperatore gli aveva come dato l'istintiva impressione che egli fosse un suo simile, un uomo d'armi abituatosi ma mai rassegnatosi completamente alla natura sanguinosa della violenza. Forse quel sovrano avrebbe avuto pietà di lui, perché più di altri – contrariamente agli aristocratici e patrizi che comprendevano solo il freddo linguaggio del profitto e del potere – conosceva le sofferenze che gli uomini pativano in guerra.

Ma quando il Comneno gli rivolse la parola non c'era traccia né di compassione né di calore umano.

«Ci hai già detto molte cose, Ammiraglio» disse in un latino stentato, prendendo tra una parola e l'altra il tempo per comporre la frase in quella lingua che evidentemente non possedeva granché. «Ci hai rivelato i numeri della tua flotta, degli uomini, la via che avete seguito. Le cose che avete fatto prima di essere distrutti. Il rifornimento di Malvasia, il saccheggio dei nostri porti, la distruzione di Dardanellia. Persino la situazione nelle isole di Creta e Cipro, che ci avete rubato ma che ora sono in rivolta». Fece una pausa, forse per fargli comprendere che era ormai già venuto meno a tutti i suoi propositi di non parlare neanche davanti alle più gravi sofferenze. Che il suo silenzio non aveva retto, che il suo onore di Ammiraglio della Repubblica era già stato piegato, che il mutismo non era più necessario, perché vano. Per fargli comprendere che la tortura l'aveva vinto e spezzato e che non vi era più alcuno scopo nell'ulteriore riluttanza a parlare.

«Ci hai rivelato tutto quello che volevamo sapere. All'inizio hai resistito, ma alla fine hai parlato, in un modo o nell'altro, come tutti. Ti rimane solo da dirci qual'era il vostro vero obbiettivo. Risparmiati altro inutile dolore. Dimmelo ora».

Lodovico di Caprio guardò quell'uomo per un lungo attimo di silenzio, la sofferenza che gli grondava, rossa come il sangue, dal corpo nudo e martoriato. «Se... Se pensi che sia così...».

Un ferro rovente gli morse la carne sotto lo sterno, nel mezzo della grande ustione che ricopriva la sua pelle. Un'ondata di insopportabile sofferenza gli esplose nel cervello, mentre un tremito incontrollato scuoteva le sue membra nel tentativo di allontanarle dalla fonte del male.

«Il Re dei Re ti ha fatto una domanda e una soltanto. Rispondi a quella domanda, miserabile!» gli berciò il carceriere che sapeva la sua lingua, allontanando il tizzone di metallo.

Di Caprio tentò di riversare aria nei polmoni stremati. «Io... Io non... posso...».

Di nuovo il crudele tocco dell'acciaio rovente. Di nuovo l'esplosione di impietoso dolore. E mentre tentava di balbettare qualcosa, lo colpirono ancora, ancora e ancora. Svenne. Rinvenne e svenne di nuovo.

Una secchiata di acqua gelida gli fece riprendere conoscenza. Si ritrovò con l'acuminata e luminosa cuspide rossastra del ferro rovente che puntava al suo occhio destro. Il calore che emanava, a meno di un centimetro dall'iride, generava in lui il bisogno viscerale di chiudere la palpebra, ma la paura lo costringeva a tenere l'occhio sbarrato.

«Basta!» trovò la forza di urlare. « Basta... Vi prego, basta! Basta...» piagnucolò.

«Rispondi, allora!»

«Sì, sì...». Non riusciva più a sopportare tutta quella sofferenza. «Noi... Noi dovevamo... Il nostro obbiettivo era Costantinopoli».

«Costantinopoli?» chiese sospettoso il Basileus. «Non i nostri traffici nel Mar Nero? Non le città portuali del Bosforo o il resto della nostra flotta?».

«No. Costantinopoli... Gli ordini del Doge erano di giungere a Costantinopoli. Distruggere il porto. Saccheggiare e affondare le navi alla fonda. Distruggere tutto ciò che fossimo stati in grado di distruggere. Dare fuoco alle mura e ai quartieri vicino. Saccheggiare e dare fuoco persino alla Magnaura, se ne fossimo stati capaci».

Davanti all'espressione un poco sbalordita del Comneno, aggiunse: «Dovevamo infliggervi un colpo crudele e spettacolare, per risollevare il morale di Venezia. Avevamo alcune navi piene di casse di scarti, ciocchi e schegge di legno secco. Centinaia di barili di olio da lampada e pece. Metri di stoffa grezza per aiutarci ad appiccare l'incendio e a propagarlo».

Alcuni dei compagni di tortura che penzolavano con lui dal soffitto, quando ancora erano stati in grado di scambiare qualche parola tra loro, gli avevano riferito di come, nel mezzo della battaglia, le navi che trasportavano quelle sostanze, quasi tutte panciuti e lenti cog alla maniera nordica, colpite dal fuoco greco dei dromoni bizantini erano saltate in aria con tale potenza che avevano portato parecchie delle imbarcazioni attorno e delle stesse navi nemiche con sé, sbalordendo i bizantini che mai più si immaginavano ci fosse nelle loro stive un simile, infiammabile e letale carico, che aveva moltiplicato la capacità distruttiva dell'incendiaria pece greca.

Il Basileus lo osservava corrucciato, lo sguardo adombrato da una nuova espressione di rabbia. «Costantinopoli» disse come se quel nome gli fosse estraneo. «Voi volevate incendiare la nostra capitale».

«Quelli erano gli ordini» confermò sofferente di Caprio.

Dopo un attimo, il Basileus fece per lasciare la segreta.

«Come l'avete scoperto!? Come avete saputo che stavamo arrivando!?». Non comprendeva neanche lui quale impeto l'avesse preso per urlare quelle parole alla schiena del sovrano bizantino. L'impeto di chi si sente tradito e senza scampo, probabilmente.

Il carceriere si accigliò. «Come osi parlare al Re dei Re, verme!» disse alzando il ferro arroventato per trafiggerlo di nuovo.

Alessio Comneno si voltò, fermando con un gesto della mano l'aguzzino prima che potesse colpire. «Che sappia pure. Vivo da qui non uscirà, in ogni caso». Gli si riavvicinò. «Una spia. Una spia occidentale» disse registrando l'orrore che si dipingeva nell'occhio del torturato di fronte a lui.

«Come può essere...».

«Una spia occidentale ha avvertito il Megas Doux Laskaris della posizione della vostra flotta, della rotta che avrebbe seguito e all'incirca delle sue dimensioni. L'ha avvertito in tempo perché il Megas Doux riuscisse a richiamare le nostre navi e a mettere in piedi la trappola. Una spia evidentemente mandata da qualcuno che conosceva bene il piano del vostro Doge». Pronunciò l'ultima parola quasi sputandola. «Forse uno dei suoi consiglieri. Ad ogni modo, mi sa che avete un alto traditore a Venezia».

Un traditore! Era dai drammatici momenti della battaglia dei Dardanelli che Lodovico di Caprio aveva preso a sospettarlo. Ma ricevere la cruda e definitiva conferma, dava a quell'idea un'insopportabile consistenza di realtà. “Se mai sopravviverò, troverò questo ignobile cane di un traditore e lo ricoprirò di pece. E gli darò fuoco. Lo giuro!” si ripromise con rabbia. “Lo giuro su Dio!”.

La voce del Basileus risuonò per le anguste pareti della stanza. «Tutto quello che ci serviva sapere, ce l'hanno detto. Liberate gli altri e giustiziateli come meritano».

«E costui, mio Cesare?» chiese l'aguzzino accennando a di Caprio.

«Lui rimanga ancora in vita, finché non avrò deciso della sua sorte».

Il Basileus se ne andò, accompagnato dalle guardie e dai carcerieri. La robusta porta di legno si richiuse sui cardini arrugginiti, con stridulo lamento. In quel luogo, anche le porte sembravano soffrire.

Il silenzio tornò a prendere possesso della segreta, senza che gli uomini che tristemente l'abitavano avessero la forza di romperlo.
[Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 22:13]