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Giugno 1154

La piccola barchetta ci lascia al molo di un’imponente residenza signorile, ricca di raffinate sculture e di mosaici. Tra tutte queste decorazioni una spicca in modo particolare: lo stemma della potente famiglia dei Dandolo. Ho ormai venticinque anni, ho combattuto i pirati in Dalmazia sotto le insegne dei Polani, ho scortato per tutti i Balcani esponenti degli Ziani e dei Mastropietro, il mio corpo porta un ricordo di ognuna di quelle campagne ma il senso di minaccia non è mai stato tanto forte quanto qui. I racconti di mio padre arrivano tutti alla memoria, ha servito per più di vent’anni Enrico Dandolo come agente per lavori “bagnati”, e so di come abbia legato a sé la famiglia dei Casolo, dei modi in cui ha fatto sparire chiunque ostacolasse la sua azione sotterranea di potere all’interno della repubblica. Oramai quello che tutti indicano essere il prossimo doge, Vitale II Morosini-Michiel, è poco più di un semplice burattino nelle mani di Enrico. L’unico ostacolo a questa influenza, l’unico che non sia riuscito a eliminare, è l’attuale doge: Domenico Morosini-Michiel oramai vecchio e stanco.

Appena entriamo, io e mio padre veniamo attentamente perquisiti e spogliati di tutte le armi. Veniamo condotti per tutta la reggia, attraversando l’atrio e vari saloni, fino a raggiungere questa specie di sala del trono. In fondo ad una specie di navata da chiesa si trova una piattaforma, ricoperta di tappeti di pregevole fattura, su cui è posizionato un trono maestoso. I braccioli laterali sono formati da due leoni alati dorati, in mezzo allo schienale campeggia lo stemma bianco rosso dei Dandolo in marmo e diaspro. A rovinare tutto l’effetto è questo omuncolo grassottello, con un muso di topo su cui si legge una smisurata arroganza, un senso di superiorità nei confronti di chiunque abbia davanti che si percepisce a distanza. Mentre ci avviciniamo noto l’unica caratteristica positiva dell’aspetto di Enrico, gli occhi: vigili ed attenti a qualsiasi movimento e particolare, vi si legge una grandissima intelligenza.
Mio padre mi fa segno di inginocchiarmi e di porgere omaggio, cosa che faccio immediatamente. Lui no. Guarda dritto in faccia il Dandolo e senza alcuna formula di rispetto o di riverenza comincia a parlare:<> Il Dandolo si rabbuia in volto ma non dice niente, osserva solamente mio padre. <>. Il Dandolo non parla ancora, annuisce solo lentamente. <>.

Enrico sogghigna lentamente e quando parla esce una voce incredibilmente forte e decisa, che mai mi sarei aspettato potesse uscire da quella bocca piccola e carnosa, quasi da donna. <>. L’unica risposta che da mio padre è il sibilo dell’acciaio della sua corta daga che esce dal fodero. Io resto paralizzato ad osservare mio padre che salta indietro mentre tre bolzoni di balestra si piantano dov’era fino ad un secondo prima. Poi sento una forte botta e un dolore acuto ed improvviso alla spalla sinistra e cado per terra. Vedo il bolzone deviato dalla cotta di maglia sbattere per terra sporco di sangue, del mio sangue. Mi giro e vedo le tre guardie all’entrata della sala convergere verso mio padre. La prima inchioda all’improvviso, si piega in due e vomita una boccata di sangue, la trachea ed almeno una carotide tranciata di netto dal pugnale da lancio. La guardia dietro non riesce a frenare lo slancio ed impatta duramente contro la prima che viene sbattuta contro una colonna cade per terra e comincia a contorcersi sempre più debolmente. La terza guardia lancia un ampio fendete verticale, diretto alla testa di mio padre. Lui alza rapidissimo la daga, sovrappone le mani sull’impugnatura e devia verso destra il colpo che colpisce il pavimento. Sfruttando lo sbilanciamento dato dalla violenza dell’impatto, fa scivolare la daga verso il basso, con la punta verso il pavimento e poi, rapidissimo si gira di spalle, urta il petto della guardia con la spalla sinistra mentre la daga risale verso l’addome della guardia, trancia la cotta di maglia e raggiunge rapidamente il cuore.

Mio padre estrae la spada e si gira verso l’unica guardia rimasta, ancora sbilanciata dall’impatto e con un calcio colpisce violentemente il ginocchio che si piega all’interno eseguendo un angolo del tutto innaturale. L’urlo di dolore della guardia è interrotto dall’impatto del pomo della daga sull’elmo che la stordisce. Dal primo lancio dei bolzoni non sono passati più di venti secondi. Mio padre infila il portone e scompare all’esterno, mentre altri tre bolzoni saettano sulla sua scia.

Enrico si è alzato in piedi, quasi incredulo alla vista di questo massacro, poi si risiede e comincia a parlare tra sé: <>. Poi si gira verso di me e mi osserva a lungo. Si gira verso una porta laterale e chiama un servo. << Portatelo da un cerusico e dategli armatura, armi e la tunica con le mie insegne. Poi portale negli alloggiamenti dei comites, è una nuova recluta.>>

Mentre mi portano dal medico mi trovo a riflettere sulla mia situazione ed ho la certezza che non rivedrò mai più mio padre e che il filo che tiene la spada sulla mia testa si sia improvvisamente assottigliato…
[Modificato da RatMat 13/09/2013 11:20]



La morte verrà all'improvviso
avrà le tue labbra ed i tuoi occhi
ti coprirà di un velo bianco
addormentandosi al tuo fianco
nell'ozio nel sonno in battaglia
verrà senza darti avvisaglia
la morte va a colpo sicuro
non suona il corno nè il tamburo
[...]
Guerriero che in punta di lancia
dal suolo d'oriente alla francia
di stragi menasti gran vanto
e tra i nemici il lutto e il pianto
di fronte all'estrema nemica
non vale coraggio o fatica
non serve colpirla nel cuore
perché la morte mai non muore
non serve colpirla nel cuore
perché la morte mai non muore
"la morte" Faber


cavalieri che in battaglia ignorate la paura
stretta sia la vostra maglia
ben temprata l'armatura
al nemico che vi assalta
siate presti a dar risposta
perché dietro quelle mura vi si attende senza sosta
"fila la lana" Faber