Magari ci proverò in altra occasione, questa cronaca volge al termine ed ho pure problemi di connessione.
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Costantinopoli, la cinquantunesima gemma della corona, ormai somigliava ben poco alla metropoli descritta dagli anziani che, in gioventù, vi avevano prestato servizio come Variaghi. La dominazione islamica aveva radicalmente mutato il suo volto, e la stessa cosa era avvenuta in tutte le province circostanti, salvo quella di Tessalonica. Le speranze di tenerla erano praticamente nulle, la miglior cosa da farsi era arraffare ogni ricchezza e lasciare che i turchi riprendessero possesso di un guscio vuoto: i danesi scelsero di fare esattamente l‘inverso.
La riottosa popolazione locale venne drogata con corse ippiche quotidiane, mentre si avviava la fabbrica degli edifici religiosi ed amministrativi con cui controllarla in futuro. Una spia, un assassino ed un cardinale giunsero da Antiochia, per contribuire alla sicurtà dei luoghi con le arti loro. La protezione militare era assicurata, almeno per il momento, dal vecchio esercito crociato che, come le baliste delle torri, era rimasto sostanzialmente integro. Occorreva, però, porre anche rimedio alla crisi di comando derivante alla prematura scomparsa dei condottieri che avevano fatto l’impresa, e per questo si programmò il viaggio di tre valenti nobiluomini educati a corte.
Un paio di holk armati andarono a prelevarli sui lidi di Romagna, che costoro raggiunsero scendendo dal Brennero, provocando qualche malumore fra gli italici. Tutto sembrava procedere per il meglio, quando il piccolo convoglio venne intercettato dalla marina turca a sud di Durazzo. I passeggeri riuscirono a sbarcare sulla costa greca appena prima del disastro, ma in seguito non ebbero troppo a rallegrarsi per lo scampato pericolo: affrontarono una anabasi che sarebbe durata un lustro.
E’ possibile che le loro peripezie abbiano ispirato ad un poeta normanno di Firenze i versi in cui canta di una selva oscura ove la diritta via era smarrita. Il cammino attraverso i boschi ellenici non sarebbe stato di per sé lunghissimo, ma qualsiasi strada o sentiero provassero a percorrere risultava sbarrato da truppe in marcia o fortini presidiati. Vennero infine a capo del labirinto sbucandone fuori a nordovest di Tessalonica, e da lì si diressero al galoppo verso la meta. Appena varcato il confine, un consistente esercito dei turchi di Adrianopoli fu su di loro. Accettarono battaglia sapendo che una sessantina di uomini a cavallo può vincere, o almeno non perdere, contro un assalitore che schieri in prevalenza uomini appiedati. Purtroppo ebbero a che fare anche con varie compagnie di arcieri montati; Bjorn Thorrodson, il capo della spedizione, fece subito suonare il segnale della ritirata, ma le frecce lo abbatterono prima che potesse lasciare il campo. Sturdi Fenrison e Rangnar di Hadsund raggiunsero Costantinopoli nell’autunno del 1348, su cavalli schiumanti per la fuga a perdifiato.
All’insano sogno bizantino vennero sacrificate risorse che sarebbero state preziose altrove.
Damasco non ne risentì, riuscendo a respingere tutti gli assalti della seconda Jihad con i suoi consueti attacchi di torre. In uno di questi episodi perse la vita il giovane Re Jesper, non facendo mistero di preferire una gloriosa morte in battaglia al funerale vichingo che già troppi gli auspicavano.
L’anno del Signore 1341 vide due accadimenti di segno opposto; il fallimento definitivo della maledetta crociata islamica, e la cattura di Gerusalemme da parte di un esercito egiziano.
La Città Santa non aveva cannoni, la sua guarnigione era modesta, le baliste non davano affidamento per tattiche di difesa aggressiva; non servirono a nulla neanche come armi meramente difensive, ed il nemico sciamò all’interno grazie ad una torre mobile ed un ariete rimasti praticamente intatti.
Gli uomini delle guarnigioni circostanti disponevano di una bombarda, vestirono panni crociati sotto la guida del Conte di Tripoli, e ripresero possesso dei luoghi entro pochi mesi.
Ma se una umiliazione era stata subito riscattata, un’altra era in arrivo: i Portoghesi si avventarono su Bordeau che, nonostante l’eroismo di Canuto il Degno, dovette soccombere più o meno per le stesse ragioni che avevano determinato la caduta di Gerusalemme. Fu giocoforza rassegnarsi, perché il tesoro era esausto e non si poteva organizzare una spedizione vendicatrice; del resto, pareva improbabile che il nuovo nemico osasse sfidare le possenti difese di Letmoges o Angers.
A sedare le velleità belliche, almeno in Europa, giunse pure il flagello della peste che, a tacer degli altri infiniti lutti, inviò sotto terra anche le già precarie finanze del regno.
In Terrasanta si continuava a combattere sporadicamente, per lo più intorno a Damasco e Kerak; qui le ampie riserve di polvere nera consentivano sempre di tenere la situazione sotto controllo.
Gli eventi presero una piega davvero preoccupante solo a partire dal 1350, quando due armate fatimidi iniziarono a manovrare fra Gerusalemme e Kerak. Quella che minacciava più da vicino la città disponeva di un organico degno di qualsiasi manuale militare, supportato da alcuni cannoni a lunga gittata; l’altra poteva definirsi un mostruoso parco di artiglieria, in grado di spianare ogni ostacolo con una sola salva, affiancato da una scorta non adeguata. Non si poteva lasciar loro l’iniziativa, la cittadella aveva qualche vaga speranza di sopravvivenza, la città santa nessuna.
Cogliendo un momento in cui quelle schiere risultarono distanziate si decise di aggredire la seconda, con forze limitate e separate. Tre compagnie di tlaqah e due di balestrieri ingaggiarono frontalmente il nemico, attirando verso di sé l‘intero schieramento; due di cavalleggeri e due di turcomanni aggredirono da tergo gli artiglieri rimasti senza protezione. Fu lotta durissima per tutti, ma soprattutto per gli uomini a piedi, su cui prima si abbatté un uragano di proiettili e poi la forza d’urto dell’avversario, non soverchiante ma sufficiente a sopraffarli. Ad un certo punto anche i turcomanni dovettero mettere mano alle spade, e l’esito delle cariche fu messo in forse dai lancieri che tornavano in soccorso delle artiglierie più avanzate. A decidere l’esito della giornata fu la morte del capitano nemico che, cosa non strana per quella formazione, aveva anche il comando di una gran bombarda; i suoi iniziarono ad esitare, e finirono come pecore fra i lupi.
Il completo successo di questa azione ne incoraggiò una seconda, che ebbe luogo l‘anno seguente..
Una malconcia nave lunga che aveva bloccato i traffici marittimi di Damietta tornò a Gerusalemme per riferire che la fortezza appariva difesa solo da una compagnia di lancieri e dal seguito del Sultano. Ignorando volutamente la persistente minaccia dell’altro esercito fatimide, si imbarcò in tutta fretta un contingente atto a rinverdire una antica tradizione vichinga: uccidere, far razzia, lasciare un cumulo di macerie e svignarsela al più presto. Si scoprì che, cessato il blocco, il nemico aveva varato alcune navi: ciò avrebbe reso suicida il reimbarco delle truppe, ma non pregiudicava la finalità principale del raid. I colpi di bombarda schiantarono due cancelli e le difese del secondo posto di guardia, mentre i tiratori già decimavano i fanti egizi; visto che non li si poteva riportare in Palestina, i pezzi vennero addirittura impiegati nella piazza d’arme, ove spararono un paio di colpi incendiari contro la guardia del Sultano prima di subirne la carica. I sergenti lancieri ed i tlaqah erano pochi passi più indietro, sicché i protagonisti di quella breve galoppata ebbero vita ancor più breve.
Il destino degli uomini rimasti bloccati a Damietta era probabilmente segnato, ma il bottino fu grande e da lì non sarebbero più usciti né guerrieri né armi.