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La campagna d'Italia


Avvertenza: la lettura di questa cronaca è sconsigliata agli elettori leghisti con problemi di cuore. [SM=g27965]


La lega dei comuni lombardi, guidata, o per essere più precisi, tiranneggiata da Milano, le cui ricche famiglie che comandavano la città ormai accarezzavano il sogno di diventare una novella Repubblica Romana, poteva vantare su un esercito numerose a discapito della piccola estensione.
Le forze che il Barbarossa avrebbe impiegato sarebbero state decisamente meno nutrite, ma meglio addestrate e comandate. Inoltre poteva fare affidamento su un ottima rete di spie allenata nel corso dei quindici anni di pace. La dottrina della guerra lampo era la sola per soggiogare un nemico potente che avrebbe per di più giocato in casa propria.
L'esercito imperiale venne diviso in tre armate: una, guidata dal principe Corrado, era di stanza a Grenoble, ai confini col Piemonte, uno di stanza a Thun in Svizzera, guidato dal giovane quanto promettente generale Federico di Lorena, e il terzo guidato dall'Imperatore in persona, di stanza a Parma.

Quando, nella primavera del 1170, venne ordinato l'attacco, l'armata del principe Corrado scese in Piemonte mettendo sotto assedio la città di Asti, mentre le forze del lorenese raggiunsero la porta della Lombardia, Lugano, dove risiedeva il signore di Milano, pronto a vendere cara la pelle. L'Imperatore coi suoi marciava nel frattempo trionfale a Lodi, città da sempre fedele all'Impero che da anni ormai chiedeva giustizia contro la tirannia della vicina Milano.








Le forze lombarde erano interamente ammassate a Milano. La speranza del Barbarossa era che parte delle armate nemiche venissero dirottate in Piemonte, in Liguria o a Lugano, così da facilitare la sua avanzata verso la città ambrosiana.
Come previsto, i lombardi si spostarono verso il Piemonte, e verso la rocca di Lugano, per dare manforte al proprio signore assediato.
Purtroppo, i lombardi scoprirono di poter fare affidamento sull'entrata in scena di un alleato molto potente. Papa Adriano IV infatti colse l'occasione per colpire il suo acerrimo rivale, l'imperatore, minacciandolo di scomunica al minimo attacco contro i lombardi.
Ad Asti, l'erede al trono, Corrado, con i rinforzi nemici che incalzavano, attendeva con ansia l'arrivo degli ordini imperiali: la città andava presa oppure no?
Quando arrivò il messaggero, tutto fu alla fine chiaro. L'Imperatore non avrebbe mai accettato di prendere ordini da sovrano o porporato, o entrambe le cose, da Roma, Costantinopoli o qualsiasi altro posto nel mondo. L'interferenza del Papa in faccende non inerenti il suo ministero era inaccettabile, e se avesse usato uno strumento tanto grave quale la scomunica per la sua cupidigia, alla morte ne avrebbe risposto a Dio, non certo un sovrano che stava riconquistando terre sue di diritto.
Corrado ordinò quindi l'assalto e la minuscola guarnigione astigiana venne spazzata via prima che i rinforzi potessero oltrepassare il Po e raggiungere la città. Le conseguenze di tale atto non tardarono purtroppo ad arrivare.




Non si poteva più tornare indietro. Il Barbarossa correva un grosso rischio. Se la campagna si fosse rilevata un fallimento, i suoi numerosi nemici in Germania, apparentemente silenti dopo la morte per vecchiaia di Enrico il Leone, avrebbero potuto alzare la voce ed ogni sforzo per rendere l'Impero una nazione potente e finalmente coesa, sarebbe stato vano, ed il ritorno dei tempi oscuri dell'anarchia e delle lotte tra feudi inevitabile.
Il giovane Federico di Lorena avvertiva queste gravi responsabilità quando ordinò l'assalto alla fortezza di Lugano. Era una scelta obbligata, dei rinforzi dalla Lombardia stavano raggiungendo la rocca, protetta dal Signore di Milano Jacopo della Torre e da un contingente di balestrieri.
Mentre uno squadrone di lotaringi e di armirgeri dava l'assalto alle mura.



Il lorenese col resto dei suoi si preparò a dare l'appropriata accoglienza ai nuovi arrivati dalle valli.



Superiori in numero e addestramento, gli imperiali ebbero ragione con facilità dei linforzi lombardi, bloccandoli con la fanteria e falciandoli con devastanti cariche di cavalleria.




Alcuni reparti di fanti tentarono di sfruttare la confusione della battaglia per svignarsela e raggiungere le porte della rocca. Ma vennero facilmente recuperati e macellati dai prodi cavalieri imperiali.



Nel frattempo, sulle mura del castello, i lotaringi e gli armigeri iniziarono una feroce e sanguinosa. battaglia all'ultimo uomo contro la guarnigione di balestrieri lombardi.





Notare il vessillo imperiale che pare essersi preso la varicella [nda]. [SM=g27965]


I coraggiosi soldati tuttavia riuscirono a scacciare i pochi soldati nemici rimasti in vita e quando Federico raggiunse le porte della rocca, vide con soddisfazione i suoi sventolare la bandiera imperiale sopra le porte.



Restava un ultimo nemico tra l'esercito imperiale e la vittoria, il più ostico, il più pericoloso. Jacopo della Torre e la sua guardia di 600 cavalieri, la crema delle forze lombarde, ciò che di meglio quei traditori potessero schierare in campo. Federico sapeva bene che sarebbe stato un assalto molto sanguinoso. Per contenere i danni dispose i suoi lancieri in modo che riempissero completamente una via della rocca, nella speranza che la compattezza della fanteria potesse bilanciare l'immane forza d'urto che avrebbero scatenato i cavalieri lombardi.



La lotta che seguì fu terribile, e Federico coi suoi cavalieri dovette a un certo punto intervenire di persona per fermare l'inarrestabile penetrazione tra le schiere di lancieri da parte dei cavalieri di Jacopo.



Tuttavia, per quanto grande fosse grande la ferocia dei cavalieri di Jacopo, il divario numerico era troppo grande e tutti quanti, inesorabilmente, trovarono la morte. Lugarno era imperiale, ma quanti valorosi uomini persero la vita per mano del malvagio Signore di Milano e dei suoi cavalieri indemoniati.



Le mosse dell'Impero non erano certo concluse lì. Il Barbarossa con la sua armata uscì da Lodi e raggiunse le campagne intorno la città di Milano, obiettivo principale della guerra. A difendere la città c'erano tre numerose ed agguerrite armate: una dentro le mura della città, una di stanza nella vicina Monza e un'altra accampata nei dintorni di Melegnano, più una piccola forza di briganti che bazzicava per le campagne milanesi.



Sfruttando la propria rete spionistica, le forze del Barbarossa raggiunsero l'accampamento di Melegnano senza che il nemico se ne accorgesse, così che le forze locali furono costrette a difendersi da sole.



In un vero e proprio suicidio tattico, il capitano nemico diede ordine ai propri tiratori di colpire la fanteria imperiale il prima possibile, lasciando dietro di sé lo schieramento di fanteria alleato. Esposti e isolati dal resto dell'esercito, l'avanguardia lombarda venne travolta e massacrata dalla cavalleria imperiale, guidata dall'Imperatore in persona.



I cavalieri si ritirarono prima che i lancieri lombardi potessero raggiungerli. Il capitano lombardo, senza più tiratori che potessero disturbare le forze nemiche, non poté far altro che ordinare una disperata carica frontale contro la linea imperiale.
Bloccati dalla fanteria, i cavalieri, guidati dal Barbarossa, aggirarono lo schieramento colpendo l'esercito nemico con una devastante carica sul retro in entrambi i lati.



Completamente circondati, i lombardi si difesero fino all'ultimo uomo per impedire che il carroccio cadesse in mani nemiche.



Azione ammirevole quanto miitarmente inutile. La vittoria imperiale fu schiacciante e con perdite minime. 24.000 lombardi caddero sul campo, una vera e propria ecatombe per le milizie della Lega.



Il carroccio della Lega Lombarda venne inviato a Lodi, la cui cittadinanza sapeva bene che farne di quello che ai loro occhi era stato per anni il simbolo dell'oppressione milanese.

Le truppe del Barbarossa misero quindi sotto assedio Milano, isolando la guarnigione ambrosiana dalle forze lombarde ammassate a Monza. Per evitare che, durante i preparativi per l'assalto finale, le forze lombarde in Piemonte potessero tornare a dare battaglia al Barbarossa, Federico di Lorena e i suoi uomini scesero dalle valli alpine e diedero il loro contributo alle forze assedianti.
Ciò che però accadde nei mesi di preparazione all'assalto fu tanto inatteso, quanto propizio.



Il capitano di Milano, un certo Anselmo, decide, sorprendendo sia i suoi, sia i nemici, di tentare la sortita.
Forse, isolato tra le mura della città e impaurito dalle rapide e sconvolgenti vittorie imperiali, schiacciato dal peso delle responsabilità che tutto ad un tratto pendevano su di lui, si convinse che ormai oltre le mura ambrosiane non c'erano più eserciti della Lega pronti a soccorrerlo e che non restava altro da salvare se non l'onore.
In realtà, nonostante le grosse perdite a Melegnano, gran parte dell'esercito lombardo era ancora in piene forze e stava marciando in tutta fretta verso Milano. Il Barbarossa, che si aspettava una dura e sanguinosa battaglia nei pressi della città per respingere i contro assedianti, alla notizia che Anselmo stava facendo uscire la guarnigione dalle mura reagì così.



Non contento di voler dare battaglia alle soverchianti forze imperiali, Anselmo divise le sue scarne forze per combattere al tempo stesso sia gli uomini del Barbarossa nei pressi di Porta Romana, sia quelli di Federico di Lorena stanziati vicino Porta Comasina.



La battaglia tra le truppe del Barbarossa e quelle milanesi fu rapida e quasi indolore. Circondati e caricati sul retro dalla cavalleria, vennero distrutti in poco tempo. Anselmo pagò in prima persona il prezzo delle sue folle decisioni, trovando la morte vicino Porta Romana.

Non appena si diffuse la notizia della morte di Anselmo, le forze milanesi che stavano marciando contro Federico di Lorena, libere ormai dalla pazzia del proprio capitano, tornarono in tutta fretta dentro le mura della città, pronti a difenderne il centro fino all'ultimo uomo.
L'Imperatore dispose con calma i suoi tra le vie di Milano, aspettando l'arrivo dell'esercito del lorenese e orchestrò un attacco congiunto su tre lati contro il residuo della guarnigione milanese.



La vittoria era ormai prossima e l'Imperatore, che come sempre aveva guidato la carica dei suoi in prima persona, era sul punto di ritirarsi per evitare inutili rischi in quella che era ormai un azione di logoramento. Quando accadde l'impensabile: colpito da un lanciere, venne disarcionato da cavallo, cadendo rovinosamente. L'impatto a terra gli fu fatale e il grande sovrano, trovò la morte, non potendo vedere per un soffio il realizzarsi del proprio obiettivo.



La guardia imperiale, composta dai più valenti cavalieri di Germania, tornò subito sul campo di battaglia, macellando gli infidi milanesi con ferocia inaudita, vedendo in ogni soldato nemico l'assassino del proprio amato signore.



A Milano finalmente sventolava di nuovo l'aquila imperiale, ma a quale tragico prezzo! Solo la ragione politica e il carisma del secondo del defunto Imperatore, Jens di Boemia, impedì ai soldati tedeschi e a gruppi di facinorosi provenienti da Lodi e altre città minori lombarde di cercare giustizia col sangue della popolazione milanese. Era una guerra di riconquista e liberazione, non di oppressione e vendetta.

L'anno successivo, con un fulmineo blitz. Il nuovo sovrano, Corrado, fratello di Federico il Barbarossa, prese Genova senza doverla cingere d'assedio




Ciò fu possibile grazie all'azione di una talentuosa e giovane spia imperiale che riuscì a corrompere le guardie delle porte, aprendole alle milizie imperiali.



L'intera Alta Italia era di nuovo possesso imperiale nel giro di un solo anno. Ma le armate lombarde erano ancora numerose e marciavano minacciose verso Milano.



Ma era ormai troppo tardi, e lo sapevano. L'Impero aveva subito pochissime perdite, e la situazione era ormai rovesciata: erano loro ad avere il possesso delle terre e della città, non più le forze della Lega, ad essere ospiti in quella che era fino ad un anno prima la loro terra.
I milanesi, per aver salva la propria vita e la propria città, implorarono il perdono al nuovo Imperatore per il loro tradimento e per l'uccisione del Barbarossa.



Il nuovo comandante dell'esercito della Lega, tal Raimondo della Torre, fu infine costretto ad accettare la pace e a cominciare una lunga marcia verso Cordoba, accontentandosi di essere solo Signore
dell'Andalusia.



Nonostante l'estremo sacrificio da parte di Federico I di Hohenstaufen, detto il Barbarossa, la vittoria era completa. Adriano IV non poteva certo rinnovare la scomunica al suo fratello che, teoricamente, non poteva essere responsabile delle decisioni di Federico, e dovette accettare il fatto compiuto. Le varie città lombarde capirono infine come la loro prosperità e sicurezza potesse continuare solo sotto l'ala dell'aquila imperiale. La conquista dell'antico Regno d'Italia era, salvo i territori meridionali di confine, compiuta, e a Monza la corona ferrea tornò in mano ai legittimi proprietari. Corrado tuttavia non la cinse al capo, in quanto si stava già preparando ad accogliere una corona ben più importante: quella di nuovo Imperatore dei Romani.
[Modificato da Lan. 19/01/2011 23:15]