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La vittoria di Adrianoupolis esaltò l’intero khanato: i romei mordevano la polvere ed era un trionfo kipchaq. Nuove truppe vennero ammassate a Constanta e poi inviate a sud, a rinforzare l’armata vittoriosa. Anche le guarnigioni di Arges e Tirnovgrad ricevettero rinforzi.
Deciso ad approfittare il più possibile della vittoria, Konchak Osen organizzò una serie di veloci raid, per mostrare alla popolazione che ormai il basileus non era più in grado di difenderli. Queste azioni portarono a diversi scontri minori con truppe romee, piccole battaglie che vennero sistematicamente vinte dal khanzada e dai suoi temutissimi cavalieri peceneghi.
Nel corso di uno di questi raid venne catturato un messaggero diretto alla capitale, che recava importanti dispacci di ordine militar-strategico. Da essi Konchak Osen apprese che le armate bizantine a nord erano impegnate a sedare una pericolosa ribellione di serbi e che, quindi, la grande rocca di Sardike era sguarnita: non a caso si richiedevano rinforzi alla capitale. Così, dopo aver affidato il comando e la difesa di Adrianoupolis al fido Kotian Terter-Oba, Konchak Osen mosse alla testa dei suoi cavalieri verso Sardike. La sua del tutto inattesa apparizione sotto le mura della rocca colse i difensori impreparati e Sofya, come oggi è nota, cadde praticamente senza colpo ferire.
Si trattò di una vittoria di grande importanza, che mostrava come il precedente scontro di Adrianoupolis non fosse stato deciso dalla fortuna, come l’impero dei romei fosse debole e claudicante. Una sensazione acuita dalla splendida operazione anfibia condotta dall’armata del capitano Toksobich – che già aveva conquistato Trapezous – che condusse le truppe kipchaq nel cuore della Paphlagonia e all’occupazione della città di Amastris.
A questo punto Sharukan decise che molto era stato ottenuto e che questo andava consolidato nel migliore dei modi, per prepararsi con calma a ricevere degnamente la reazione di una Bisanzio ferita nell’orgoglio. Un’ambasceria venne inviata a Konstantinoupolis per proporre un onorevole trattato ai Romei: i kipchaq avrebbero restituito la Paphlagonia e Amastris e pagato un tributo di 2.500 bisanti per l’anno successivo (in cinque spezzoni da 500 l’uno) e in cambio i romei avrebbero riaperto ogni canale commerciale e si sarebbero impegnati a non intraprendere altre azioni militari contro il khanato per i successivi cinque anni, pena un attacco congiunto. A Sharukan sembrava un buon accordo e, anzi, dopo che l’ambasceria era ormai partita confidò al fratello Ituk che forse era stato troppo buono, che avrebbe dovuto essere più duro e imporre la propria volontà; ma Manuele Comneno lo ritenne più che altro un vero e proprio insulto, giacché rifiutò sdegnosamente ogni accordo e rispedì al khan dei kipchaq la testa dell’ambasciatore come monito a non sfidare oltre la sua ira.
A quella risposta Sharukan fu sentito giurare su Tengri che avrebbe consegnato al dio della morte l’anima nera del romeo arrogante. Ma quest’ultimo sapeva bene cosa fare: inviò rapidamente un’armata contro Adrianoupolis con il compito non tanto di catturare la città, quanto di impedire a Kotian Terter-Oba di muoversi dalla stessa; un contingente marciò su Amastris, difesa da poche milizie e praticamente condannata; soprattutto le due armate del settentrione confluirono verso Sofya, per riprendere il controllo di una posizione così strategicamente importante. Era nuovamente tempo di combattere.



Le operazioni bizantine furono così veloci che Konchak Osen ne venne informato solamente quando le prime avvisaglie delle armate romee furono visibili dall’alto delle torri di Sofya. Per un autentico caso una colonna di cavalleria era arrivata la settimana precedente da Tirnovgrad e quindi il khnazada poteva contare su una forza numericamente consistente e ben equipaggiata, quasi 6.000 cavalli in tutto.



La principale armata bizantina, però, era grande quasi il doppio (9.750 uomini), e per quanto non tutti i suoi effettivi fossero soldati di provata esperienza, poteva rivelarsi un affare complesso da risolvere.
Tuttavia in un primo momento Konchak ritenne più prudente non sfidare esageratamente la sorte e lasciò che Giovanni Angelo-Ducas si accampasse a un miglio circa dalle mura. Inviò un messo verso Adrianoupolis con un dispaccio per Kotian Terter-Oba, chiedendogli di inviare con una certa celerità rinforzi per chiudere in una mortale tenaglia i romei. Il messo arrivò all’indomani di uno scontro in forze che aveva visto i kipchaq prevalere su un’armata bizantina, e si sentì rispondere che purtroppo non un solo uomo poteva essere mandato a nord, giacché i bizantini stavano ammassando pericolosamente truppe ai confini e, pareva, con il basileus in persona al comando.
La notizia non piacque affatto al khanzada, ma passò rapidamente in secondo piano quando un informatore riuscì a raggiungere la rocca e informò che un’armata di 5..000 bizantini stava marciando da Ras per rinforzare Giovanni Angelo-Ducas. Era evidente che la rivolta serba era stata schiacciata e che ora l’Impero stava spostando la sua forza contro l’altro nemico. A questo punto Konchak non poteva più attendere e rischiare di essere stretto nella morsa di 15.000 bizantini, così optò per una sortita.
Ai dreg venne ordinato di creare una testa di ponte appena fuori le mura, tenendo gli avversari a distanza a suon di frecce, dando tempo al resto dell’esercito di assumere la posizione indicata.



Ma Giovanni Angelo-Ducas, non appena comprese cosa stava per fare il suo avversario, ordinò al grosso del proprio esercito di caricare le posizioni nemiche, mentre mandava la propria cavalleria leggera, formata interamente da hippotoxotai, a vessare le ali.



Konchak si ritrovò costretto a ordinare a propria volta ai dreg di impegnare in mischia il nemico, generando un selvaggio corpo a corpo;



con l’arrivo sulla scena degli skoutatoi anche calarisi e peceneghi dovettero lasciar da parte archi e giavellotti e impugnare le spade per dar manforte ai dreg, ormai alle strette. E tuttavia fu necessario l’intervento del khanzada stesso per alleggerire ancora la pressione, che si stava facendo sempre più pesante: i bizantini erano riusciti, pur a prezzo di alte perdite, a togliere ai kipchaq quella mobilità che ne era l’arma principale, bloccandoli in un scontro poco congeniale e con la sicurezza che i rinforzi stavano arrivando; già si vedevano garrire in lontananza gli stendardi, infatti.
Ma Konchak Osen aveva un asso nella manica, una mossa che si era tenuta non per preveggenza – mai avrebbe pensato che gli arcieri della milizia bizantina avrebbero avuto tanto ardore da caricare spada alla mano i suoi dreg! – ma per impostazione tattica della battaglia: mentre lo scontro infuriava, la cavalleria pesante kipchaq era uscita da Sofya dall’altra porta e, avendo fatto finalmente il giro delle mura, si trovava in una perfetta posizione per lanciare una carica devastante. Giovanni Angelo-Ducas si accorse del pericolo e cercò di arginarlo, mettendosi in gioco egli stesso con la propria guardia; ma aveva semplicemente troppo pochi uomini in riserva per poterci riuscire. I cavalieri kipchaq irruppero nelle linee bizantine come la fiamma nei campi, portando la distruzione al loro passaggio;





e il nemico cedette in più punti di schianto, generando un effetto domino che fu solamente ingigantito dalla morte in mischia di Giovanni Angelo-Ducas, raggiunto alla gola da un colpo di spada.





Così, invece di trovare alleati, l’armata bizantina di rinforzo trovò ad attenderla la cavalleria kipchaq e, dopo essere stata presa di mira da dreg e peceneghi, venne travolta anch’essa dalla furia kipchaq e si volatilizzò in breve tempo.



A metà pomeriggio anche l’ultimo bizantino era sparito dalla vista, i fieri destrieri kipchaq erano spossati, le braccia dei soldati ormai pendevano inerti per la fatica. Era una vittoria grande quella che era stata ottenuta, ma il prezzo pagato non era di poco conto: più di 2.000 valenti soldati kipchaq giacevano sul campo, oltre il 40% della forza totale a disposizione del khanzada.