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La potente città di Halych era il cuore di un principato ambito dai Rus, dai Magiari, dai Polacchi. E dal clan dei Kunbek, fino a quel momento completamente tagliati fuori dall’espansione del khanato. Ormai padrone della Bulgaria e sempre più vicino a completare l’armata per invadere l’Ossezia, Sharukan fu ben lieto di poter sfruttare il desiderio di gloria dei suoi infedeli vassalli, soprattutto perché aveva già in mente un piano per usufruire al meglio di un’eventuale vittoria.
Il compito di guidare un’armata verso nord alla conquista di Halych sarebbe in teoria toccato a Sirchan Kunbek, khan di Moldavia; ma questi, da sempre molto sospettoso nei confronti degli altri clan, e di quello degli Osen in particolare, decise che era meglio non lasciare la propria dimora a Iaski Torg, e affidò il comando delle truppe a un suo cliente, un certo Ambuz Bonyak, recentemente elevato al rango di nobile e insignito alla dignità di Boiardo di Bulgaria. Non che avesse particolari doti per governare le recenti conquiste, ma era il prezzo che Konchak Osen aveva scelto di pagare per mantenere tranquilli i Kunbek.



La spedizione militare avanzò nel principato di Halych senza incontrare particolare resistenza, una circostanza che venne progressivamente svelata dalle continue notizie di attacchi rus e magiari. Inoltre gli esploratori informarono Ambuz che anche una spedizione polacca era stata vista a occidente della capitale del principato. La maggior velocità della cavalleria kipchaq, unita all’evidente indecisione del comandante polacco, permisero però a Ambuz di arrivare per primo a destinazione e di porre la città sotto un assedio che il principe di Halych, David Rostislavich, cercò di rompere senza successo nei primi mesi del 1163. La sconfitta non fece che accelerare la caduta della città, che si arrese all’inizio dell’estate.
Frattanto, molto più a oriente, il gran principe di Vladimir si era incontrato con Sharukan per trattare di una questione molto delicata per ambo le parti: nel 1161 le armate rus erano riuscite a ottenere un trionfo dalla vasta eco conquistando nientemeno che Bolgar, la capitale dei Bulgari del Volga, una delle città più ricche dell’intera area. La popolazione, tuttavia, aveva gradito assai poco il cambio di governo e così nell’autunno 1162 aveva dato vita a una rivolta conclusasi con la cacciata del governatore inviato da Vladimir. Subito dopo la città si era volontariamente sottomessa al potere di Sharukan, che per motivi misteriosi era stato visto come il governatore ideale, il sovrano perfetto. La situazione aveva fatto ovviamente deteriorare i rapporti fra Rus e Kipchaq, rischiando di far sfociare la situazione in una guerra aperta che avrebbe insanguinato le steppe per anni e anni.
Tuttavia né i Rus, intenzionati a volgere la propria forza a occidente contro i Polacchi, né i Kipchaq volevano che la cosa degenerasse fino a questo punto. Così Sharukan propose al gran principe di Vladimir un incontro per discutere personalmente la cosa, assicurando fin da subito che la situazione creatasi a Bolgar era del tutto estranea alla sua volontà.
E dai negoziati emerse esattamente quello che Sharukan voleva: la sicurezza ai confini settentrionali per potersi dedicare con tranquillità ad altri obbiettivi. Bolgar venne immediatamente restituita ai legittimi proprietari e i suoi fedifraghi abitanti abbandonati al loro destino; i canali commerciali vennero prontamente riaperti, assicurandosi che il monopolio del commercio dei tessuti dalla città incriminata continuasse a essere in mano dei mercanti kipchaq; una forte alleanza di mutuo sostegno e supporto venne stipulata, rendendo sostanzialmente le steppe un unico corpo, metà del quale volgeva la propria attenzione verso nord-ovest, l’altra metà guardava invece a sud.
Questo importante trattato arrivò nel pieno di un rinnovamento economico e commerciale che l’abile mano di Konchak aveva promosso un po’ ovunque. Mercanti furono inviati a stabilire proficue rotte commerciali coi territori bizantini – navi, lana, vetro, armi – e con le lande magiare – soprattutto con le miniere d’argento dei Carpazi. In varie località commercialmente rilevanti, fra cui la capitale Azaq e la roccaforte di Asperon, vennero ospitate colonie di mercanti veneziani, che portavano ricchezze e spirito imprenditoriale. Nelle lande orientali inoltre i khazari, che già servivano come soldati nelle armate del khanato, vennero spinti a intraprendere anche la carriera di mercanti, sfruttando quell’abilità che derivava loro dall’essere di religione ebraica.
Nuovi trattati commerciali vennero stipulati con regno lontani, perfino con l’Inghilterra dei Plantageneti. Il khanato prosperava.



L’alleanza coi Rus era appena stata stipulata quando un messaggero trafelato si presentò al palazzo del governatore di Olese, con un plico da consegnare direttamente al khanzada Konchak Osen. Il breve messaggio, scritto in fretta e furia, informava che un’armata bizantina aveva attraversato i confini e stava marciando verso Tirnovgrad, saccheggiando i villaggi e seminando il terrore. Era un fulmine a ciel sereno, una lotta di cui i Kipchaq non avevano timore ma per cui non erano pronti. Buona parte delle risorse militari erano state indirizzate alla costruzione di quell’armata con cui Sharukan intendeva finalmente invadere l’Ossezia; e il grosso dello truppe occidentali del khanato stavano ad Halych, a settentrione.
La situazione era molto grave e Konchak Osen dovette far ricorso a tutta la sua autorità per evitare che si scatenasse il panico. Immediatamente spedì un messaggero al fratello, informandolo di quanto accadeva e chiedendogli urgentemente risorse e truppe per far fronte a un attacco che rischiava di rivelarsi letale. Un secondo messaggero venne sguinzagliato verso Halych, per far rientrare quanto prima le truppe di Ambuz; e un terzo volò verso Arges, per allertare Sevench Terter-Oba.
La risposta di Sharukan non si fece attendere molto e, sostanzialmente, diede carta bianca a Konchak per gestire la situazione. Soprattutto ordinava che la città di Halych venisse offerta come dono propiziatorio di un’alleanza col potente regno magiaro, giacché la sicurezza delle frontiere settentrionali era ritenuta strettamente collegata con la possibilità di fermare i Romei.
Romei che, nel frattempo, avevano proseguito l’avanzata e avevano raggiunto Tirnovgrad, stringendola rapidamente d’assedio. Il comandante della guarnigione cittadina si accorse subito che non aveva a che fare con una forza smisurata – non erano che poco più di 2.000 uomini. Ma si avvide altresì che erano truppe professioniste, fra cui spiccava nientemeno che una compagnia delle temutissime guardie imperiali, soldati pesantemente corazzati e superbamente addestrati. Erano truppe che i miliziani – qualche lancieri, arcieri e contadini delle valli transilvane – difficilmente avrebbero potuto anche solo impegnare. Urgevano soccorsi, e anche molto in fretta.
Ma l’unico soccorso che giunse fu Sevench Terter-Oba con la propria guardia personale, appena 200 uomini. Il nobile si fece a sua volta un’idea della situazione e, nonostante ciò, inviò un proprio uomo in città per coordinare un attacco. Il comandante di Tirnovgrad ritenne l’idea una pazzia, ma non aveva né l’autorità né la voglia di opporsi ai comandi di un nobile come Sevench: così acconsentì.
L’attacco venne scatenato poco prima dell’alba e la fanteria kipchaq avanzò fino ad occupare un lieve rialzo: lancieri al centro, arcieri alle spalle e transilvani alle due ali. Le forze bizantine – composte da un battaglione di skoutatoi, una compagnia di varangoi, una compagnia di guardie imperiali e un contingente di arcieri – avanzarono veloci verso il proprio obbiettivo, certe che avrebbero pranzato in Tirnovgrad. Gli arcieri cominciarono a scambiarsi raffiche di frecce e i primi morti andarono a insanguinare la terra. I lancieri miliziani si posero sulla difensiva, guardando con crescente paura i soldati nemici che avanzavano, i loro sguardi fieri e determinati, la sicurezza che emanavano.




Fu a questo punto che, con una carica tanto improvvisa quanto micidiale, Sevench Terter-Oba irruppe nei ranghi degli skoutatoi portandovi la distruzione.



Rimasto celato in una piccola macchia boschiva, il nobile kipchaq aveva atteso il momento propizio per colpire, soprattutto per far sì che la sua apparizione infondesse coraggio nel cuore dei suoi sottoposti. E la sua tattica funzionò egregiamente: non solo i miliziani non indietreggiarono e aspettarono a piè fermo l’attacco della guardia imperiale romea, ma addirittura i transilvani dell’ala destra si scagliarono in una violenta carica contro i varangoi.



Un gesto avventato che venne pagato a carissimo prezzo, giacché i più esperti e temprati soldati bizantini presero rapidamente il controllo dello scontro e solo l’intervento di Sevench impedì che i transilvani andassero in rotta immediata.
Tamponato il problema, per quanto momentaneamente – i varangoi erano stati sì colpiti, ma restavano comunque nettamente avvantaggiati – Sevench decise che era tempo di togliere di mezzo gli arcieri romei e li caricò. Trovò però pane per i propri denti, tanto che fu costretto a ritirarsi per non rimanere invischiato in un pericoloso corpo a corpo. Tuttavia il suo attacco aveva dato modo all’altro gruppo di transilvani di portarsi indisturbati sul fianco della guardia imperiale e di caricarla, generando uno scontro sanguinoso ma che pendeva, seppur a fatica, dalla parte dei kipchaq.
Il comandante di Tirnovgrad, rimasto fino ad allora con gli arcieri, decise che era tempo di spostarsi dove poteva essere più utile; così fece compiere un largo giro ai propri uomini, portandoli infine alle spalle dello schieramento bizantino ed eliminando lungo il percorso quanto restava degli arcieri romei. Sevench, la cui guardia era stata pesantemente decimata, apprezzò lo spirito d’iniziativa del capitano e gli ordinò di investire con una selva di frecce le spalle scoperte dei varangoi, ormai a un passo dal liberarsi definitivamente dei transilvani. A così breve distanza nemmeno una freccia andò sprecata: i bizantini caddero come spighe e con loro cadde anche il sogno di conquistare Tirnovgrad.



Incredibilmente vittoriosi, i kipchaq rientrarono in città fra due ali di folla festante e Sevench si premurò di inviare quanto prima notizie della vittoria a Olese e Sarkel.



La notizia della vittoria di Tirnovgrad, maturata in condizioni così complesse, si sparse come un incendio nelle steppe e infiammò il cuore di ogni kipchaq con un desiderio di rivalsa che poteva essere placato unicamente con il sangue dei romei. Che il loro basileus pagasse per aver osato sfidare la potenza del khanato!



Al di là dei proclami, però, c’era una situazione molto complicata: le spie informavano costantemente di movimenti bizantini ai confini meridionali, con la fortezza di Sardike che veniva potenziata e la città di Adrianoupolis divenuta centro di raccolta di nuove truppe. Le milizie che presidiavano Bulgaria e Dubrodza erano troppo poche, mal addestrate e spaventate dalle voci che continuamente giungevano; peggio ancora, il sistema militare kipchaq era molto diverso nella parte orientale – dove era molto avanzato e imperniato sulla potente rocca di Sarkel – e la parte occidentale, dotata di strutture inadeguate e con la sola rocca di Asperon a fare da centro, pure questa obsoleto e necessitante di ammodernamenti.
Ma il khanzada Konchak Osen non intendeva darsi per vinto a priori: dopo tutto il vantaggio in quel momento era dalla parte dei kipchaq, erano loro che avevano vinto a Tirnovgrad. Così si accordò col fratello per un audace piano, un attacco a tenaglia che mostrasse ai romei come avessero fatto male i propri calcoli e quanto avessero fatto male a svegliare un leone fino a quel momento dormiente. A Tmutarakan un giovane cliente degli Osen, Toksobich, venne incaricato di radunare quante più truppe possibili e di mettere insieme una flotta adeguata al loro trasporto: miliziani e professionisti, kipchaq e appartenenti a etnie sottomesse come khazari e alani vennero uniti in un’unica armata, che nella primavera del 1164 salpò dalla penisola di Taman e fece vela per il sud.
Contemporaneamente la capitale venne spostata a Olese, per far sì che il centro del khanato fosse più vicino al fronte e ordini e decisioni raggiungessero più facilmente i generali impegnati.
Poi nella tarda estate Konchak Osen lasciò Olese alla testa di 4.000 cavalieri, metà dei quali appartenenti al popolo pecenego, che da molto tempo attendeva di poter restituire ai bizantini quanto subito a Beroia. L’avanzata delle truppe kipchaq colse di sorpresa i romei, che non si aspettavano una reazione così rapida: il risultato fu che la città di Adrianoupolis era pericolosamente sguarnita, un fatto di cui Konchak era a conoscenza grazie alle proprie efficienti spie.
Deciso ad approfittare di quell’inaspettato regalo bizantino, Konchak puntò risolutamente sulla città; ma si trovava ancora a una trentina di chilometro quando gli esploratori lo informarono della presenza di una colonna bizantina, quasi certamente fanti inviati a rinforzare la guarnigione della città: 2000-2500 uomini, secondo le stime. E apparentemente ignari della presenza così vicina di un’armata kipchaq.
Era un’occasione irripetibile e Konchak non era uomo da lasciarsela sfuggire: subito ordinò ai peceneghi di dividersi in due grossi contingenti e di aggirare, uno a destra e l’altro a sinistra, la colonna romea; quindi prese il comando di tutta la cavalleria rimasta e si slanciò al galoppo per precedere i bizantini sulla via di Adrianoupolis.
Quello che seguì è ricordato nelle cronache romee come “il massacro di Adrianoupolis” o “il corridoio della morte”, un nome quest’ultimo che i bizantini diedero alla tattica usata per la prima volta in questa occasione da Konchak: due ali di arcieri a cavallo che, tenendosi a distanza e bersagliando con continuità il nemico, lo inducono a proseguire un’avanzata destinata a finire con la tonante carica della cavalleria kipchaq.



La vittoria totale ottenuta dal khanzada aprì definitivamente la via per l’assedio e la conquista della città, operazione apparentemente molto semplice – le truppe di Konchak, rinforzate dai contingenti di Kotian Terter-Oba fino al numero di 9.000 uomini contro i 1.400 difensori, guidati dal synbasileus Andronico Comneno – che venne però complicata dalla strenua resistenza bizantina, in particolare dai corpi di arcieri che provocarono molti lutti nelle file kipchaq.



Tuttavia alla fine dell’autunno Adrianoupolis venne occupata e il vessillo romeo sostituito da quello del khanato.
Khanato che, nel frattempo, aveva colto una brillante vittoria in una zona molto più distante, ai margini orientali del mar Nero. Qua sorgeva la roccaforte di Trapezous, in mano a Bisanzio da secoli e punto nevralgico per il controllo della costa e la salvaguardia dei confini imperiali con il vicino regno di Georgia. Il governatore della piazza, Giovanni Comneno, aveva ricevuto ordine di reclutare soldati e inviarli come rinforzi alla capitale, perché venissero impiegati contro i kipchaq. Tuttavia egli si vide costretto a richiamarli quanto prima quando venne informato che una vasta armata kipchaq era sbarcata a est della rocca e marciava alla sua volta.
Nello scontro che seguì Toksobich si dimostrò cattivo comandante di fanteria, mandando inutilmente parte delle sue truppe a morire sui bastioni difesi dagli esperti e letali arcieri di Morea;



ma mise in luce altresì delle doti come comandante di cavalleria, giostrando le proprie forze con abilità e distruggendo pezzo per pezzo la colonna bizantina dei rinforzi.



Questo permise poi di poter portare un secondo e più convinto assalto alle mura della rocca, un attacco che i difensori non riuscirono a respingere semplicemente perché erano troppo pochi per farlo. Giovanni Comneno morì eroicamente difendendo fino all’ultimo il maschio, ma anche questo sacrificio non poté evitare la caduta di Trapezous.
La perdita della rocca rappresentò un duro colpo per Bisanzio, ma molto peggiore fu l’uso che ne venne fatto dai conquistatori: dopo averla sistematicamente spogliata di ogni cosa utile e di valore, la rocca e il suo territorio venne donato al regno di Georgia per assicurarsene l’alleanza e, in definitiva, lasciare un unico fronte di guerra in cui concentrare tutte le proprie energie.



La perdita di una città come Adrianoupolis era una cosa del tutto inammissibile, tanto più che la sua posizione era troppo vicina alla capitale per non rappresentare una pericolosissima spina nel fianco. Il problema andava risolto subito e a Konstantinoupolis Manuele I Comneno, il grande basileus, convocò uno dei suoi migliori generali, Niceforo Paleologo. Questi apparteneva a una nobilissima famiglia bizantina dalla fedeltà subordinata ai vantaggi che poteva ottenere, ma era un uomo leale e capace, e di lui Manuele si fidava. Per questo gli affidò il comando di un vasto esercito e il compito di riprendere la città perduta e di ricacciare a calci nelle steppe quegli straccioni che avevano avuto l’ardire di sfidare la sua ira.
Quegli “straccioni” nel frattempo non dormivano sugli allori, anzi; Konchak era ben conscio che aveva compiuto un’azione che non poteva che generare una reazione forte da parte di Bisanzio e sapeva bene che uno scontro di vaste proporzioni era molto probabile. Così come era conscio che una sua sconfitta avrebbe generato un tremendo vuoto militare nel khanato, lasciando praticamente sguarnito ogni villaggio, castello e insediamento da Adrianoupolis fino a Olese. Sguinzagliò spie un po’ ovunque e si confrontò diverse volte con Kotian Terter-Oba.



Questi era il figlio primogenito di Sevench, cresciuto e educato ad Azaq quando era la capitale, poi nominato knjaz di Tmutarakan e in questa veste responsabile della crescita demografica ed economica della città dominante la penisola di Taman. Fino a quel momento non aveva messo in luce alcun genere di abilità militare, per quanto di lui si dicesse che fosse un guerriero pronto tanto di mente quanto di braccio: tuttavia Konchak ne aveva fatto il proprio braccio destro, confidando che quel ragazzo di appena 21 anni avrebbe imparato presto e bene.
Le prime avvisaglie delle armate bizantine vennero avvistate sul finire dell’aprile 1165, ma si trovavano ancora a svariati giorni di distanza dalla città e, sulle prime, vennero addirittura scambiate per piccole pattuglie esplorative. Fu solo a maggio che le spie kipchaq riferirono che i Romei marciavano in gran forze e stimavano l’esercito superiore alle 10.000 unità. Konchak Osen aveva all’incirca 8.900 uomini, metà dei quali cavalieri: questo certamente gli dava maggior mobilità, ma rendeva l’esito del probabile scontro molto soggetto alle condizioni in cui questo si sarebbe combattuto. Tuttavia non poteva certo restare rintanato in Adrianoupolis e così il 10 maggio 1165 l’armata kipchaq lasciò la città per andare incontro al proprio destino, vittorioso o meno che fosse.
Avendo imparato dalla campagna dell’anno precedente e dagli errori in essa compiuti, Niceforo Paleologo faceva largo uso di informatori e pattuglie esplorative, cosa che gli permise di essere avvisato per tempo delle mosse del suo avversario. Così decise di costringere il principe kipchaq ad attaccarlo dove voleva lui, lasciandogli pure la mobilità, ma mettendolo costantemente di fronte a una difesa pungente e foriera di disfatta. Si attestò su una piccola collina, protetto parzialmente all’ala sinistra da un mulino diroccato, e schierò le proprie truppe su tre linee: davanti i contingenti di arcieri, fra cui spiccavano quelli di Morea; dietro una lunga linea di lance, il grosso della quali appartenenti alla milizia; e dietro ancora la fanteria d’assalto e la poca cavalleria a sua disposizione.
Due giorni dopo Konchak arrivò dove i romei lo attendevano e si rese conto che la posizione scelta dal suo avversario era complicata da attaccare: un assalto frontale infatti avrebbe esposto le truppe kipchaq a un salasso troppo oneroso, facendole arrivare a contatto in condizioni tali che sarebbero andate in rotta dopo pochi minuti. Una carica di cavalleria, che avrebbe ridotto notevolmente i tempi di esposizione al tiro degli arcieri nemici, era però altrettanto sconsigliabile, in quanto alle spalle degli arcieri dardeggiava un muro di lance che non prometteva certo vittoria e gloria. Bisognava perciò indurre il nemico ad abbandonare la posizione che si era scelto, facendogli commettere un errore che lo mettesse nelle condizioni di essere massacrato dalla cavalleria kipchaq.
Questo difficile compito cadde sulle spalle dei peceneghi che, divisi in due squadroni e sostenuti da un’unità di giavellottisti romei (o traditori, a seconda di come la si vede), vennero inviati a tartassare i fianchi dello schieramento bizantino.



Era però una mossa a cui Niceforo Paleologo era ben pronto a rispondere: ben presto i peceneghi si ritrovarono impegnati in un mortale duello con gli arcieri di Morea ed essendo bersagli più grossi le loro possibilità scemavano rapidamente coll’aumentare delle perdite. Così furono costretti a ritirarsi fuori dalla gittata nemica, rendendosi però a propria volta inutili. Questa ritirata li condusse sostanzialmente alle spalle dello schieramento romeo: potenzialmente una situazione complicata, per Niceforo era un buon compromesso, in quanto gli bastò spostare gli arcieri in terza linea per costringere i peceneghi a stare a distanza. E frontalmente aveva ancora le lance a fare muro.



La situazione era in fase di stallo e fu a questo punto che il comandante del contingente di giavellottisti romei decise di lanciarsi in un attacco personale: scatenò i propri uomini contro un contingente di arcieri, portandosi a distanza ravvicinata e bersagliando con giavellotti il retro bizantino. Se è vero che questo costò ai romei qualche perdita – soprattutto fra le guardie di Niceforo – è altresì vero che tutti i giavellottisti vennero massacrati e l’attacco respinto con facilità. Ancora in fase di stallo, dunque.
Ma quell’azione, tanto temeraria quanto stolta, diede a Konchak un’idea per provare a smuovere la battaglia: inviò un’unità di cavalleria con il compito di caricare alle spalle i romei e seminare un po’ di panico nelle loro fila; quindi convocò Kotian Terter-Oba e gli affidò il comando della fanteria, ordinando gli di avanzare risolutamente verso il nemico e di attaccarlo appena possibile. Egli, dal canto suo, si pose alla testa della cavalleria pesante e si mosse a propria volta verso le truppe di Niceforo Paleologo.
La carica solitaria dei kipchaq venne accolta con raffiche di frecce e dal contrattacco di una compagnia della guardia imperiale;



ma fece guadagnare quel tempo tanto necessario perché il grosso dell’armata si avvicinasse senza subire decimazioni.



Mentre di ritirava il comandante dei cavalieri ordinò al proprio portastendardo di fare il segnale prestabilito ai peceneghi, che attendevano fuori dal tiro degli arcieri romei.
Non appena il segnale venne dato i cavalieri peceneghi appesero gli archi alle selle, impugnarono le sciabole dalla lama ricurva e diedero di sprone, lanciandosi alla carica verso gli odiati nemici, con in testa le storie del vile tradimento e del massacro di Beroia.



Infiammati d’odio, irruppero a valanga sulle spalle dei bizantini poco prima che la cavalleria di Konchak arrivasse all’impatto; e là dove questi ultimi dovevano trovare un muro di lance, i peceneghi portarono la morte e la distruzione.



Ormai attaccati da ogni parte, i bizantini si difesero con coraggio, ma senza speranze: non uno riuscì a fuggire da quella morsa micidiale e non ricevette quartiere. Niceforo Paleologo venne massacrato con tutta la sua guardia e fu Kotian Terter-Oba a abbatterne il vessillifero, evidenziando al mondo che quel giorno era dei Kipchaq.



1.300 uomini caddero in quel giorno di gloria, ma l’intera armata nemica venne distrutta e un segnale tuonante venne inviato fino al palazzo imperiale di Konstantinoupolis.

(di seguito il resoconto tattico per fasi della battaglia. L'area in rosso attorno all'armata bizantina è l'area di tiro degli arcieri romei.