Sakartvelos Samepho

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frederick the great
00domenica 29 aprile 2012 02:01
feudal full n/n




Anno 1176, febbraio, palazzo reale di Tbilissi

“Guardate questa carta e ditemi cosa vedete.”

“Vedo il nostro regno, le sue molte città e la sua estensione, mio signore.”

“Io vedo ciò che il vostro governo ci ha portati ad essere, forti come mai lo siamo stati prima d’ora.”

Giorgi Bagration, mepe di Georgia, lasciò scorrere lo sguardo sui due uomini che avevano risposto. Erano personaggi molto potenti, membri di spicco delle due casate più forti del regno, uomini che lo servivano più perché egli era un re dalla grande autorità e dal notevole carisma che per un vero senso di fedeltà. Giorgi era ben conscio che tanto gli Abuletisdze quanto gli Orbeli ambivano ad occupare quel trono su cui lui sedeva da quasi vent’anni.

Ma Giorgi sapeva che nessuno dei due aveva ciò che serviva veramente per diventare un re, quelle risposte appena ricevute ne erano la prova inconfutabile. Quella carta - un prodotto dei monaci del monastero di Gelati e ricca di dettagli saputi da mercanti, emissari e altro genere di viaggiatori – mostrava effettivamente un regno di Georgia mai così potente né espanso. Ma mostrava anche i suoi vicini, i pericolosi nemici e gli infidi alleati. Mostrava la loro forza, la loro grandezza. Forse i due grandi nobili non si rendevano conto, ma Giorgi sì: il regno camminava su una lama, sbagliare una decisione ora poteva significare la distruzione di tutto.

“Guardate meglio”, consigliò loro il re, “e cercate di vedere la realtà, non solo quello che volete vedere.”

“Ma non è forse realtà, mio re, il fatto che siamo ora più forti di vent’anni fa, e di molto anche?”

“Certo che è vero. Ma siamo più forti di prima o siamo forti e basta? Questa è la domanda a cui dover rispondere.”

“I confini sono sicuri, le fortezze presidiate, le casse piene e abbiamo appena soggiogato l’Ossezia; direi che possiamo osare di ritenerci una potenza locale”, rispose Ivane Orbeli.

Giorgi Bagration lo fissò. Ivane Orbeli era il primogenito del principe reggente e occupava il posto di suo padre nel consiglio reale dato che questi era troppo malato per potersi dedicare alla conduzione dello stato. Ivane era un uomo abile e intelligente, piuttosto apprezzato dalle dame di corte per il suo bell’aspetto e i suoi modi garbati; ma era una persona potenzialmente molto pericolosa. In quanto prossimo capo della casata Orbeli era detentore di un potere non indifferente, a cui si andava ad aggiungere il fatto che fosse figlio dell’erede al trono, per quanto questa eredità diventasse giorno dopo giorno una chimera. Era un uomo del cui appoggio Giorgi aveva bisogno, per quanto non sempre il suo giudizio riuscisse a cogliere tutte le sfumature di una questione.

“Il tuo ragionamento, Ivane, è buono ma si perde per via alcune considerazioni piuttosto importanti. Attiro nuovamente la vostra attenzione sulla carta e sulla situazione di questo nostro angolo di mondo. In venti anni abbiamo esteso la nostra influenza diretta all’Armenia e ne abbiamo occupato il centro strategico, la roccaforte di Ani. Abbiamo riportato sotto il nostro controllo la città di Ganja, che da troppo tempo si atteggiava a indipendente. Inoltre abbiamo occupato la città portuale di Tmutarakan e, roba di pochi mesi orsono, sconfitto gli Osseti e il nostro vessillo sventola su Maghas.

Il nostro tesoro, per quanto molto ben fornito – secondo le ultime stime abbiamo oltre 70.000 bisanti – ha subito un brusco calo negli ultimi tempi, la campagna contro l’Ossezia ci è costata ben più di quanto preventivato. E a livello militare disponiamo di una forte guarnigione ad Ani e di un esercito che potremmo definire campale a Kutaisi. Il resto sono mere guarnigioni di non eccelso livello. E i nostri vicini come sono messi?”



Il re non attese una risposta e proseguì: “A settentrione ci sono i nostri alleati Kipchaq. Le nostre spie riferiscono dei dati molto inquietanti su di loro, su come parecchi capiclan ritengano che il khan non avrebbe dovuto stipulare alleanza con gente che può facilmente essere sottomessa. Non penso che troverebbero troppo facile il sottometterci, ma di certo hanno il potere per farlo. Immagino avrete saputo delle folgoranti campagne che stanno conducendo nelle steppe, hanno occupato in pochi anni la roccaforte di Peryaslav e la città di Kiev. E ora pare siano arrivati fino a Ryazan, nel nord delle steppe.

A sud abbiamo altri alleati, quel califfo abbaside che sta puntando a tornare potente come lo erano i suoi padri. Ha iniziato una guerra contro gli Zenghidi di Siria e, per quanto per ora non abbia ottenuto trionfi militari degni di tal nome, il nostro ambasciatore a Baghdad mi riferisce che le armate del Califfato sono numerose come la sabbia del deserto nel quale marciano e che i mamelucchi, spina dorsale dell’esercito, sono guerrieri ben addestrati e temibili.

A occidente ci sono il sultanato selgiuchide di Rum e l’Impero dei Romei, impegnati in una sanguinosa tenzone. Sulla natura subdola e infida dei Romei non mi dilungherò oltre, sappiamo bene in quale modo abbiano fatto fallire la nostra campagna in Bulgaria e come solo un colpo di fortuna e audacia ci abbia permesso di concludere quel trattato che ora ci lega al Califfato. Sono un nemico astuto e temibile, doppiogiochista e pericoloso. Eppure i turchi stanno tenendo loro testa egregiamente, anzi hanno pure occupato Trapezous.

Questa è la verità, miei signori: siamo un regno piccolo e arroccato, uno stato di cui gli altri si curano a malapena e che non reputano pericoloso. Ora come ora c’è chi dice che noi non si sia neppure in grado di riportare sotto il nostro controllo la libera città di Darbend.”

“Possiamo schiacciare Darbend come e quando vogliamo”, intervenne Dzagan Abuletisdze, governatore dell’Armenia e gran maestro dell’Ordine Tadzreuli, in tono irato. “Anzi, sarebbe ora di farlo!”

“Effettivamente, maestà, la nobiltà del regno scalpita affinché voi completiate l’opera e riportiate sotto il nostro giusto controllo questa città commerciale…”, disse in tono quieto il rappresentante della corporazione mercantile.

“Capisco perfettamente che i giovani vogliano una guerra ove trovare gloria e in cui compiere grandi imprese, ma non posso gettare al vento le vite dei nostri soldati per una cosa così insignificante come Darbend”, replicò il sovrano. “Se una guerra deve essere fatta, che sia una guerra che ci porti a nuova forza e ricchezza.”

“E lasciare ai Kipchaq le ricchezze di Darbend? E’ terminale di vie carovaniere di una certa importanza, maestà”, fece notare il mercante.
Giorgi rise. “Avremo ben altro che le ricchezze di Darbend, mio caro!”

“Ho quasi paura a chiederlo, ma non è che….”, incominciò dubbioso Ivane Orbeli

“Cosa?”, gli chiese il re. Ivane fissò la carta.

“…non vorrete per caso colpire al cuore i Romei, mi auguro. Ritengo che vediate il nostro regno meno forte di quel che è realmente, ma so anch’io che non siamo in grado di sfidare i romei né di reggere la collera del loro sovrano.”

“Non sono i romei l’obbiettivo, almeno non il principale né l’immediato”, replicò il re. “No, signori, noi colpiremo i selghiuchidi di Rum!”

Espressioni basite si dipinsero sui volti dei presenti, occhiate stranite vennero scambiate prima che, timidamente, qualcuno provasse a esprimere le proprie perplessità. La discussione non era però che appena incominciata quando le porte della sala si spalancarono e lasciarono entrare il giovane figlio del re. Per essere l’uomo che avrebbe dovuto guidare il regno negli anni futuri, il principe Oshin Bagration aveva tutto fuorché l’aspetto di un guerriero di sangue reale. Dai lineamenti bruttini e grezzi, basso di statura, il principe aveva un’andatura dondolante, più adeguata a un giullare che a un futuro cavaliere. Eppure, nel guardarlo, Giorgi si sentì fiero di suo figlio e dell’intelligenza che Dio gli aveva donato, pur a scapito della bellezza fisica.

“Padre, miei signori”, salutò il giovane. “Vedo che hai già esposto loro il progetto”, commentò notando le espressioni dei presenti.

“Solo in parte. E, anzi, credo che dovresti essere tu a spiegare loro perché e come. Dopotutto hai contribuito.”

Il principe accettò con un sorriso sghembo l’invito paterno e si appropinquò alla carta, sempre distesa sul tavolo del consiglio. “Come ben sapete il sultanato di Rum sta combattendo contro i Romei. Le ultime notizie dicono che le armate imperiali sono entrate a Konya e che per ora i turchi non sembrano in grado di recuperare la propria capitale. Tuttavia reggono egregiamente e diverse voci attribuiscono ciò al chiaro volere di Allah, tant’è vero che ben tre rappresentanti della casata Paleologa sono deceduti improvvisamente.

Ovviamente la mano di Allah non c’entra affatto o, quantomeno, ha guidato splendidamente quella del nostro inviato. Contiamo che questi atti “oscuri” creino un po’ di scompiglio fra le file romee e diano modo ai turchi di attaccare con maggior vigore.”

“Perché abbiamo aiutato chi intendiamo colpire?”, domandò Dzagan Abuletisdze. “Non sarebbe stato meglio colpire i Turchi?”

“Non direi. Così facendo i turchi sposteranno ulteriormente la propria forza e attenzione verso occidente, lasciando solo pochi soldati ai confini orientali. E noi potremo facilmente colpire.” Il principe fece una pausa per assicurarsi che tutti avessero compreso. “Dove dovremmo attaccare, a vostro giudizio?”

“Trabzon”, rispose subito Ivane Orbeli. “Non possiamo permetterci di avere una roccaforte nemica così vicino. Se guerra coi turchi deve essere lì è dove dobbiamo colpire.”

“Eccellente intuizione”, approvò Giorgi. “Penso che ogni georgiano voglia vivere una seconda Didgori, ma questa volta un po’ meno vicino a casa. E poi?”

“Malatya? E’ una vallata piuttosto fertile, con una città che rappresenta un passaggio obbligato per molte carovane.”

“Passabile idea, ma aprirebbe un fronte con la città di Edessa, che le ultime notizie danno occupata dai crociati provenienti dalla lontana Germania. Inoltre la perdita di Malatya non credo rappresenterebbe per i turchi una catastrofe e noi vogliamo colpirli il più duramente e il più profondamente possibile.”

“E dove, allora?”

Il principe puntò il dito sulla carta: “Qui”, disse.

“Kayseri? Ma è una fortezza vasta e molto ben difesa…”

“Kaysareia non è una fortezza vasta e molto ben difesa, Kaysareia è il cuore pulsante della macchina bellica turca ed è il luogo strategicamente più rilevante di tutta l’Anatolia. Con quella rocca in nostro possesso potremmo minacciare ogni landa ancora in mano turca e, cosa non irrilevante, le mura di Kaysareia non temono, se ben difese, nulla e nessuno, nemmeno le armate di Costantinopoli.”

Ivane Orbeli guardò il giovane principe per un lungo istante prima di spostare lo sguardo su Giorgi. “Maestà, ora capisco che mi ero sbagliato. Pensavo voleste fortificare le nostre posizioni, invece avete una visione ben più vasta e illuminata. Quando intendete cominciare le operazioni?”

“Il prima possibile, dobbiamo agire finché nessuno sospetta le nostre intenzioni. Voi, Dzagan, tornate a Ani e assicuratevi che le difese siano al meglio, potreste ricevere visite non gradite. E voi, Ivane, a voi affido il compito di sferrare il primo affondo. Prendete il comando dell’esercito e marciate su Trabzon.”

I due nobili si inchinarono rispettosamente e lasciarono la sala. Giorgi attese che tutti fossero usciti, quindi si volse verso il figlio. “Sei veramente sicuro che tutto andrà come previsto, Oshin? Non stiamo sottovalutando la capacità di reazione dei Selgiuchidi?”

“Ovviamente, padre. I turchi sono guerrieri coraggiosi e difficili da sconfiggere, lotteranno fino all’ultimo e cercheranno in tutti i modi di ricacciarci da dove siamo venuti, se daremo loro il tempo di prepararsi”, rispose il principe. “Ma non lo avranno, il tempo.”

Fuori, un rombo sommesso e distante annunciò l’avvicinarsi di un temporale. I venti della guerra spiravano in Goergia.
Alessio(96)
00domenica 29 aprile 2012 10:47
Primo a leggerla! Molto bella.
LordFerro
00domenica 29 aprile 2012 10:57
non vedo l'ora di leggere il rapporto della spedizione
Gaio Mario1
00domenica 29 aprile 2012 12:07
Bella cronaca! spero che diventi grandiosacome la renovatio imperi [SM=x1140491]
Gaio Mario1
00domenica 29 aprile 2012 12:07
Scusate per il doppio post..
ironman1989.
00domenica 29 aprile 2012 12:13
Fred è sempre un piacere leggere le tue AAR ;)
Gente_Tranquilla
00domenica 29 aprile 2012 13:26
Molto bello.
Sto facendo anche io una campagna con la Georgia, e ho dovuto compiere lo stesso passo decisivo nell'aggressione ai Turchi, anche se nel mio caso è stato un assalto frontale a Melitene, Amaseia e Cesarea nel giro di tre turni.
Preparatevi perchè i Turchi sanno essere più rognosi dei Romei, ne vedremo delle belle :)
pablo de toledo-tristero
00domenica 29 aprile 2012 13:55
mi ricorda la prima campagna che ho fatto con i georgiani, anche se me l'ero presa con moooolta più calma.
ottima aar comunque.
frederick the great
00domenica 29 aprile 2012 17:18


Anno 1179, Trabzon

Le mura della roccaforte di Trabzon s’innalzavano poderose verso il cielo. Erano difese capaci di resistere a lunghi assedi, un cerchio di pietra a protezione di un abitato che poteva ospitare una guarnigione forte e capace.

Ma non quel giorno.

Mentre le osservava, Ivane Orbeli ripensò al giovane p’rintsi Oshin e a come aveva spiegato con chiarezza un piano in cui un errore o un ritardo poteva comportare il generarsi di una situazione molto pericolosa. Non poteva negare a sé stesso che per un periodo della sua vita aveva sperato che Giorgi Bagration morisse prematuramente e che la corona passasse alla sua casata, rendendolo non più il figlio primogenito del reggente, ma il p’rintsi di Georgia a tutti gli effetti. Ma le cose erano andate in modo diverso e Ivane ora si trovava lì, davanti alle mura di Trabzon, alla guida di un esercito, per cominciare una guerra dalle cui sorti dipendeva il destino del regno.

Le forze messegli a disposizione erano quanto di meglio potesse offrire il regno in quel momento: battaglioni di kontophoroi, due compagnie di arcieri della guardia, quattro squadroni di egriseli e due di eristavi. Più i suoi oikeioi personali, soldati nei quali riponeva la massima fiducia e coi quali aveva già compiuto campagne militari nella penisola di Taman contro gruppi di banditi e ribelli.



Sulle mura, in lontananza, si intravedevano i vessilli della guarnigione selgiuchide che, secondo le stime, si componeva di un corpo di sharqiyyun, un’accozzaglia di romei venduti al nemico e armati di giavellotti e di un battaglione di ghilman, l’elite militare del sultanato di Rum. Una forza decisamente insufficiente a fermare il suo esercito, esattamente come Oshin Bagration aveva previsto: il sultanato aveva la sua potenza militare dispiegata a ovest, contro i romei, e il fronte orientale era del tutto sguarnito.

Il portastendardo della sua guardia, veterano di molti scontri, attirò la sua attenzione sul corpo di guardia della porta orientale di Trabzon: una luce si muoveva. Ivane Orbeli si lasciò sfuggire un sorriso, consapevole di ciò che quel segnale significava: le spie avevano avuto successo, i cancelli sarebbero stati spalancati non appena egli avesse dato l’ordine di avanzare. Chiamò a sé il comandante degli egriseli.



“Vi ricordate esattamente cosa fare, vero?”

“Avanzare il più rapidamente possibile, prendere il controllo dei cancelli e inondare di frecce eventuali difensori. Se poi non incontro resistenza, proseguire fino al cuore della rocca e impossessarsene.”

“Molto bene. Aspettate ancora alcuni minuti, quindi eseguite.” Ivane fece cenno ai due squadroni di eristavi di seguirlo e quindi condusse i suoi oikeioi verso ovest, verso l’altro ingresso. Era tempo di dare inizio alle danze.

Mentre cavalcava teneva d’occhio i movimenti dei turchi e a un certo punto vide molta agitazione sulle mura, chiaro segno che gli egriseli avevano cominciato l’attacco.



Diede di sprone. Poteva arrivare a tagliare la via ai difensori, attaccandoli nella peggior posizione possibile da difendere.

Poi l’imponente cancello si profilò davanti a loro, già mezzo sollevato. Ivane Orbeli fece suonare il corno e comandò l’avanzata veloce, passando parola agli eristavi di puntare risolutamente il centro di Trabzon appena entrati. Egli, invece, guidò i suoi oikeioi a caccia del nemico.

I Turchi, già in situazione difficile a causa della sproporzione numerica, avevano accolto la notizia che i cancelli erano in possesso di spie georgiane con un’ondata di panico e ora, incerti sul da farsi, stavano ripiegando confusamente verso il maschio della fortezza, cercando rifugio nella sua ombra.

Ma non vi era riparo per loro in Trabzon, ormai. Ivane Orbeli li colse completamente allo scoperto e ordinò immediatamente di caricarli. L’impatto fu violentissimo e infranse ben più che scudi e armature: il morale dei turchi si dissolse e il ripiegamento si trasformò subito in una fuga disperata verso una sicurezza che non c’era più. Unici a provare un’ultima, disperata resistenza furono i ghilman, i cui ranghi erano però ormai spezzati e che furono sterminati fino all’ultimo dagli oikeioi di Ivane.



Quando anche l’ultimo ghilman cadde al suolo Ivane Orbeli passò la propria spada all’attendente affinché la ripulisse e si guardò attorno. Il terreno era costellato da cadaveri turchi e solo pochissimi georgiani spiccavano fra loro. In lontananza, sulla cima della torre più alta, il vessillo selgiuchide non sventolava più, sostituito dalla croce rossa in campo bianco della Georgia.

Il primo colpo era stato sferrato e si era rivelato un successo completo. Ora bisognava continuare e colpire ancora prima che il nemico avesse tempo di riprendersi. Ma questo era un compito che spettava a Oshin Bagration.
LordFerro
00domenica 29 aprile 2012 17:29
non vedo l'ora di vedere come farai a prendere Kayseri
-witchking-
00domenica 29 aprile 2012 18:18
molto bella! E molto evocativa la prima parte nel consiglio di guerra!!!
Basilio II Komnenos
00lunedì 30 aprile 2012 09:02
Frederick the great, non ho parole per descrivere la meraviglia che continui a scrivere; che si tratti di romei o altri non sbagli una virgola nella tua cronaca.
Le mie congratulazioni a un grande del forum.

[SM=x1140430] [SM=x1140441] [SM=x1140522]
frederick the great
00lunedì 30 aprile 2012 12:25


Anno 1182, da qualche parte nell’Egeo

L’aria salmastra pizzicava le narici di Erets Orbeli, ma la cosa lo lasciava indifferente. Cresciuto a Sokhumi dove suo nonno era stato governatore, Erets era abituato al mare, era una parte di lui ormai. Attorno l’equipaggio compiva alacremente il proprio lavoro e faceva viaggiare tranquilla la grossa e tozza nave.

Avevano già incontrato un paio di volte galee che battevano bandiera bizantina, ma in entrambi i casi erano stati completamente ignorati. Del resto, perché mai i solerti capitani del basileus avrebbero dovuto interessarsi a loro? Non innalzavano altra bandiera che la croce di San Giorgio delle navi genovesi, come ogni nave mercantile appartenente a quella lontana repubblica; e, in effetti, quella era una nave genovese. Apparteneva a un ricchissimo mercante, che ovviamente viveva nel fasto da qualche parte in Italia; Erets non ne era sicuro, ma gli pareva che fosse un membro del casato d’Oria. Per un istante si chiese cosa avrebbe pensato costui se avesse saputo che il capitano a cui aveva affidato il suo legno lo stava usando per scopi ben diversi da quelli per i quali era stato costruito. Probabilmente non avrebbe apprezzato, pensò.

Una raffica di vento improvvisa mandò un’onda a infrangersi contro la murata e dalla stiva proruppe un nitrito di protesta, subito seguito da un altro. I cavalli da guerra non apprezzavano la lontananza dalla terraferma. Poi tornò la quiete e Erets decise che era tempo di ridiscendere in cabina, dove lo attendeva il rapporto per il suo principe.

Trovò la pergamena dove l’aveva lasciata, sul tavolo di legno grezzo della cabina. Sulle prime il capitano aveva nicchiato all’idea di dover cedere la sua cabina, ma una correzione al rialzo alla somma pattuita per il trasporto lo avevano convinto che poteva essere una buona idea. Non che Erets apprezzasse troppo quel piccolo vano: sentiva acutamente la mancanza di un letto come Dio comandava e di tutte quelle comodità a cui era abituato. Ma si consolava all’idea che, tempo e bizantini permettendo, in un paio di settimane avrebbe raggiunto la Chaldia, terra georgiana. Prese in mano la relazione e iniziò a rileggerla.

Rapporto sull’operazione, all’attenzione del p’rintisi Oshin Bagration

Secondo gli ordini di Vostra Grazia siamo salpati dal porto di Trapezous a bordo di una galea mercantile genovese. Il capitano del vascello ha accettato di condurci a destinazione e poi di riportarci indietro al prezzo di 5000 bisanti aurei. Con me si sono imbarcati i miei oikeioi, una compagnia di arcieri e una di guerrieri khevsur.
Dopo una decina di giorni di navigazione siamo arrivati in vista della capitale romea e abbiamo superato tutti i controlli senza difficoltà. La bandiera di Genova ci ha protetto egregiamente e siamo entrati nell’Egeo. Abbiamo quindi fatto rotta per il sud, verso la ricca isola di Krete, secondo ordini.

A Krete abbiamo trovato una forte agitazione e in breve siamo venuti a sapere che pirati moreschi erano stati avvistati nell’area e che, proprio pochi giorni prima, avevano razziato alcuni villaggi nella parte orientale dell’isola. Questo aveva portato il governatore romeo a intensificare i pattugliamenti e a organizzare una chiamata generale alle armi, in modo da far levitare il numero di uomini da poter opporre ai pirati.

Ovviamente la situazione era ben diversa da quella che mi aspettavo e, in considerazione della forze in mio possesso e dell’importanza della missione affidatami, ho preso la decisione di non fare alcun tentativo. Ho pertanto convinto il capitano genovese a riprendere quanto prima il mare e a dirigersi verso nord-ovest, verso la Grecia. Le informazioni reperite nelle taverne di Chandax davano l’area di Athenai molto sguarnita e si sono rivelate veritiere.

La città era difesa da una forza inferiore, con una compagnia di akritai e le guardie del governatore come unico baluardo. Pertanto ho deciso di colpire e ho fatto sbarcare le truppe e gli equipaggiamenti.
Il governatore bizantino, della famiglia dei Contostefano, si è barricato e ha inviato staffette alla roccaforte di Naupaktos, per ricevere rinforzi. Sono state lasciate andare, preferendo concentrarsi sulle mosse necessarie a un attacco veloce e vittorioso.
Con poche scale come unico strumento d’ingresso, ho ordinato l’attacco in una mattina soleggiata. I toxotai avanzavano verso una parte delle mura, i khevsur verso un’altra sezione. Gli akritai bizantini hanno cercato di bloccare le due avanzate, ma alla fine i khevsur hanno potuto scalare le mura indisturbati. Hanno quindi raggiunto gli akritai e li hanno impegnati in un breve corpo a corpo, chiusosi con la conquista delle mura. Anche i toxotai hanno contribuito, bersagliando gli akritai dal basso.



In tutto questo tempo il Contostefano è rimasto arroccato nel suo palazzo, da codardo quale certamente era. L’ho affrontato in una delle vie laterali, facendolo attaccare alle spalle dai khevsur e esponendolo al tiro dei toxotai. I suoi uomini hanno combattuto con coraggio e onore, ma alla fine hanno dovuto arrendersi e consegnarci la città.

Come da ordini la città è stata sottoposta a saccheggio e è stato ottenuto dai cittadini un giuramento di fedeltà al khan dei Kipchaq. Quanto questo verrà mantenuto non saprei dirlo, abbiamo lasciato l’insediamento nelle mani di pochi mercenari di basso livello reclutati come da istruzioni.

Tutto quanto poteva essere caricato sulla nave è stato stivato nella sua capiente pancia e, dopo aver pagato il capitano con parte del bottino, abbiamo ripreso il mare diretti verso casa.

In fede

Erets Orbeli


Soddisfatto, arrotolò la pergamena e la sigillò con della cera calda, apponendovi poi il simbolo degli Orbeli. Quel documento era la testimonianza che i romei avevano compiuto un errore a sfidare il mepe e la Georgia. Avevano subdolamente colpito le forze georgiane anni prima in Bulgaria, costringendole a sloggiare e mettendo il mepe in una situazione molto complicata. Ora avevano avuto quanto si erano meritati. O almeno l’antipasto.
LordFerro
00lunedì 30 aprile 2012 12:47
Bella cronaca Frederick, ma sembra che hai omesso dei particolari, per esempio abbiamo solo un accenno sulla cacciata dei Georgiani dalla Bulgaria e cosa significa che i cittadini hanno prestato fedeltà al Khan dei Kipchaq?
frederick the great
00lunedì 30 aprile 2012 17:26
Re:
LordFerro, 30/04/2012 12.47:

Bella cronaca Frederick, ma sembra che hai omesso dei particolari, per esempio abbiamo solo un accenno sulla cacciata dei Georgiani dalla Bulgaria e cosa significa che i cittadini hanno prestato fedeltà al Khan dei Kipchaq?




In effetti sono cose un po' oscure...però non sono omissioni casuali, volontariamente sto narrando la campagna a punti di vista, ci sono cose che non verranno dette se non di sfuggita. le due questioni che mi chiedi significano quanto segue:

- attorno al turno 26 ho assediato Constanta per prenderla e girarla poi agli abbasidi in cambio dell'alleanza; esattamente nel turno in cui l'avrei conquistata per fame i bizantini (che agiscono poco prima dei ribelli), mi hanno attaccato con una doppia full e io, avendo solamente un generale e un'unità di alani mercenari, son stato costretto a lasciar perdere [SM=g27979]

- il prestare fedeltà ai Kipchaq è un modo forbito per dire che, dopo averla rasa al suolo, ho regalato Athenai ai Kipchaq - le relazioni erano calate a 6/10 e non avevo soldi da spendere in tributi. Inoltre Bisanzio era mia nemica, per cui... [SM=g27980]
LordFerro
00lunedì 30 aprile 2012 19:37
grazie di questo fuoriprogramma, chiaramente sapevo che non erano omissioni casuali, ma senza quelle informazioni non riuscivo a capire bene la situazione.
Comunque non vedo l'ora di capire come farai dai tuoi territori a spostare l'armata nel cuore del regno turco senza avere nessuno che ti intracci.
frederick the great
00martedì 1 maggio 2012 18:06


Anno 1182, palazzo del governatore di Amasya

Amasya era una città commercialmente abbastanza rilevante all’interno del sultanato selgiuchide di Rum, ma non ne era certo il cuore. Era piccola e distante dai veri centri del potere, tanto che i nobili turchi consideravano di poco valore esserne nominati governatori. Il malcapitato poi faceva di tutto per occuparsene il meno possibile, passando le sue giornate nelle tenute circostanti o in battute di caccia. Timutburgha Kutalmish aveva semplicemente fatto ciò che i suoi predecessori avevano compiuto prima di lui. Solo che la fortuna decisamente non lo aveva appoggiato.

Le stanze riservate al governatore in quello che veniva pomposamente chiamato palazzo erano rischiarate da pochi lumi, piccole fonti di luce in una città addormentata e ancora scossa dagli avvenimenti della giornata. Non che Oshin Bagration, intento a scrivere un rapporto per suo padre il mepe, potesse dar torto ai cittadini di Amasya.

Le sue truppe erano comparse davanti alle mura troppo repentinamente per dar tempo e modo di lanciare l’allarme e far convergere truppe.
Quel poco che c’era in città, principalmente artukogullari, avevano dovuto tentare una difesa disperata fin da subito, contro forze che erano dieci volte superiori tanto in numero quanto in qualità.



Oshin aveva attaccato da tre lati diversi in contemporanea, con arieti e scale, certo che il nemico non sarebbe riuscito a presidiare tutti punti semplicemente perché non aveva abbastanza uomini.



E infatti i kontophoroi avevano spinto i pesanti arieti fino alle porte del tutto indisturbati, aprendo poi un varco per il fiume inarrestabile di commilitoni.





Oshin in persona aveva guidato i suoi oikeioi a compiere l’ultima parte del lavoro, chiudendo la questione con pochi e ben assestati colpi di spada. Amasya era caduta in meno di un’ora, un tempo talmente breve che molti cittadini non avevano ancora compreso bene cosa stava accadendo quando il tutto era finito.



Le truppe georgiane forse si erano aspettate libertà di saccheggio, ma Oshin Bagration aveva dato espliciti ordini ai suoi sottoposti: nessuna violenza sugli inermi, nessun esproprio, nessun saccheggio. Chi fosse stato colto a compiere ruberie era punibile di morte immediata tramite decapitazione.

E così ad Amaseia era stato risparmiato il saccheggio. I vari battaglioni erano stati acquartierati e il p’rintsi aveva guidato personalmente la propria cavalleria – oikeioi, due squadroni di eristavi e quattro di egriseli – a intercettare Timutburgha Kutalmish, che stava rientrando dalla sua battuta di caccia ignaro di quanto accaduto. E che, una volta intercettato, aveva avuto la poco brillante idea di rifiutare la resa e di lanciarsi all’attacco. Il suo cadavere testimoniava quanto avesse errato nel suo giudizio.





Un movimento alle sue spalle indusse Oshin ad accantonare rapporti e lettere e a concentrare l’attenzione sulla persona con lui nella stanza. Quando aveva proposto a suo padre quel passo, Giorgi Bagration si era mostrato quanto mai dubbioso, quasi contrario, e aveva cercato in tutti i modi di fargli cambiare parere, di farlo riflettere sulle possibili conseguenze che questo avrebbe potuto avere sulla sua ascesa al trono, un giorno. Ma Oshin aveva ribattuto argomento su argomento e alla fine Giorgi aveva ceduto. Un ambasciatore era stato inviato a Baghdad, alla corte del Califfo, affinché presentasse la proposta.

Il risultato era lì, a pochi passi da lui.



Khatun Abbasiyyun, figlia del Califfo, avvolta nelle sue vesti nere. Oshin aveva la netta impressione che il Califfo avesse accettato non tanto per vero beneficio quanto perché la cosa l’aveva divertito. E il fatto che Khatun avesse venticinque anni, ben sette anni più di Oshin, era un evidente segno che il sovrano abbaside non aveva dato il meglio al suo alleato georgiano.

Ma la cosa non lo preoccupava più di tanto, così come non lo interessavano i pensieri di suo padre riguardo all’essere l’erede al trono con una moglie islamica; i nobili di Georgia avrebbero giurato fedeltà al distruttore dei Turchi, qualunque fosse la fede della moglie.

Si alzò e raggiunse la moglie, circondandole con un braccio la vita e attirandola a sé. Erano praticamente alti uguali, notò ancora una volta. Sentì Khatun irrigidirsi, aveva una natura molto schiva e le riusciva innaturale ancora adesso, a quasi un anno dal matrimonio, mostrare il proprio viso di sua iniziativa. O forse il tutto derivava dal fatto che Oshin era brutto e che ella avrebbe desiderato un marito più aitante e bello.

“Ho come l’impressione di spaventarti, Khatun”, mormorò Oshin.

“Non avete motivo di avere questa impressione, mio signore”, replicò lei in un flebile sussurro.

“Ma sono certo che sognavi qualcuno di ben diverso da me. O sbaglio?”. Oshin la fece ruotare fra le sue braccia in modo da poterla guardare negli occhi.

“Ho smesso di sognare molto tempo fa, mio signore”, replicò Khatun distogliendo immediatamente lo sguardo. Per un lungo istante il silenzio calò nella stanza, rotto solamente dal crepitare della fiamma. Oshin non disse nulla, si era ormai abituato al fatto che sua moglie ogni tanto dicesse cose che rispecchiavano brandelli di un passato che non pareva pronta a condividere. “Sapete chi è Nur ad-Din, mio signore?”, domandò infine Khatun.

“E’ difficile vivere in questi tempi e ignorare l’atabeg zenghide”, rispose Oshin fissandola. Che stesse per arrivare una rivelazione?

“Io dovevo sposarne il figlio, mio padre me lo annunciò anni fa. Dovevo essere lo strumento di un’alleanza che avrebbe scacciato qualunque infedele da queste lande. Invece, quando ormai tutto era pronto, Nur ad-Din cambiò idea e fece sbrigativamente sapere che la cosa finiva lì. A me i motivi non sono mai stati spiegati, ricordo solo che da quel giorno mio padre non l’ho praticamente mai più visto e che le altre donne dell’harem mi etichettavano come la Rifiutata.” Khatun fece una pausa, quasi a voler attingere al proprio coraggio per andare avanti nella narrazione. “Il tempo è passato e io non sono più stata scelta per nessuno, c’era sempre qualche sorellastra più giovane da offrire per suggellare questa o quell’alleanza. Ormai ero certa che il mio destino fosse quella di finire nella tenda di qualche emiro decrepito. Quindi, sì mio signore, sognavo qualcuno diverso da voi, ma si trattava di incubi.”

“In effetti spero di essere un filo meglio di un vecchio emiro decrepito”, rise Oshin, “e fidati quando ti dico che, per quanto tu abbia dovuto aspettare a lungo, alla fine il destino ti è stato amico. Da quanto so l’atabeg non se la passa benissimo mentre noi siamo in ascesa. Sarai regina di uno stato forte, non di uno moribondo.”

Khatun sorrise e gli si appoggiò contro. Oshin stava pensando che era tempo di mettere in cantiere un erede, quando qualcuno bussò discretamente alla porta. “Torno subito” sussurrò alla moglie.

Alla porta, in attesa, c’era un ufficiale. “Vostra Altezza”, lo salutò, “vi informo che il nobile Erets Orbeli è appena arrivato in città.”

Oshin annuì e diede ordine che fosse acquartierato assieme ai suoi uomini. Gli affari di stato bussavano incessanti, pensò. Ma avrebbero atteso il giorno dopo, per quella notte voleva solamente stare con sua moglie.
Xephos
00martedì 1 maggio 2012 19:59
Frederick datti alla scrittura, se pubblichi un libro vendi più di fabio volo LOL. [SM=x1140522]
LordFerro
00martedì 1 maggio 2012 21:57

Oshin stava pensando che era tempo di mettere in cantiere un erede, quando qualcuno bussò discretamente alla porta. “Torno subito” sussurrò alla moglie.



NOOOO!!! Proprio sul più bello

[SM=x1140476]
frederick the great
00martedì 1 maggio 2012 23:06
[SM=x1140520]
Basilio II Komnenos
00martedì 1 maggio 2012 23:58
Ho come il sospetto che Frederick SIA uno scrittore: narrazione troppo bella e perfetta per una persona normale.
Continua così, ormai hai attirato la nostra curiosità in maniera eccezionale.
frederick the great
00mercoledì 2 maggio 2012 12:48
In realtà no, non sono uno scrittore [SM=g27969] Sono la classica persona che ha il libro nel cassetto. Diciamo che mi piace scrivere e che sto cercando di fare una AAR un po' diversa - soprattutto diversa da Renovatio Imperii!

frederick the great
00mercoledì 2 maggio 2012 12:55


Anno 1183, valle di Malatya

Un sorriso da lupo increspò le labbra di Ivane Orbeli. Accucciato nell’erba alta, osservava discreto quanto stava accadendo e la sua mente vedeva già cosa sarebbe successo dopo. A quanto pareva la caduta di Amaseia non aveva scosso troppo il sultanato di Rum, visto le mosse che aveva compiuto: al comando di un giovane amir della casata Danishmend una spedizione era partita per conquistare la roccaforte di Mardin e un numero crescente di truppe venivano convogliate a Malatya.

Le notizie erano state portate meno di un mese prima da alcuni mercanti di passaggio a Tbilissi e non erano state ben accolte. Quasi nessuno aveva creduto che tutte quelle operazioni e quella concentrazione di truppe fossero dovute al solo desiderio di prendere Mardin, non era nemmeno lontanamente pensabile. Pertanto il mepe aveva deciso che, per quanto la fortezza di Ani fosse stata recentemente dotata di una seconda cerchia di mura e fosse equipaggiata per resistere a un lungo assedio, era di gran lunga preferibile andare all’offensiva.

E così tre settimane prima Ivane Orbeli era stato inviato a Ani, per assumere il comando dell’esercito e invadere la valle di Malatya. Il mepe, nell’affidargli l’importante missione, gli aveva dato il comando di due squadroni di monaspa, l’elite guerriera del regno, cavalieri pesanti e temerari la cui carica poteva sfondare ogni difesa.

Ma probabilmente erano superflui, se lo sguardo non l’ingannava e la qualità delle forze turche era veramente quella che stava ammirando.

In basso, in marcia, c’era un’accozzaglia di uomini equipaggiati alla bell’e meglio, quasi certamente contadini e piccoli artigiani arruolati a forza e dotati di una lancia e di uno scudo. Qua e là lungo la colonna si intravvedevano unità di arcieri e, a giudicare da come avanzavano, dovevano essere soldati di professione, probabilmente arcieri armeni. Dopotutto l’area era rinomata proprio per questo e anche Ivane ne aveva.



Più avanti, in attesa del grosso delle forze turche, c’era una colonna più piccola. Erano i mezzi d’assedio che dovevano accodarsi all’esercito ed erano accompagnati da un’unità di arcieri armeni che fungeva da scorta.



“Massimo mezz’ora e saranno a tiro”, constatò con un grugnito il comandante degli arcieri, un corpulento armeno dal naso rincagnato. Sputò per terra con disgusto. “Non avranno alcuna possibilità, li massacreremo.”

Ivane rise fra sé. Non trovava particolarmente simpatici i musulmani, il regno combatteva gente di quella fede da troppo tempo. Ma trovava divertente il modo in cui gli armeni reagivano alla presenza dei seguaci di Allah. C’era chi aveva trovato un modo di coesistere – e gli arcieri nell’esercito turco ne erano la prova – e altri che, invece, ritenevano i figli del Profeta un cancro da estirpare quanto prima e, possibilmente, nel sangue.

Strisciò indietro e raggiunse il proprio esercito, accucciato in attesa al riparo di alcune piccole colline. Con un breve cenno convocò i comandanti delle varie unità.

“Signori, il nemico è ormai quasi arrivato a tiro e, da quanto ho potuto vedere, non sospetta minimamente della nostra presenza. Pertanto facciamo in modo che non sappia se non quando sarà troppo tardi. Agiremo nel modo che vi sto per esporre e se ciascuno rispetterà il piano otterremo una vittoria liscia e indolore. Per noi almeno”, aggiunse strappando una risata.
“I kontophoroi si disporranno in una linea compatta là avanti, mentre gli skoutatoi occuperanno la posizione all’ala destra. Gli arcieri, sia armeni che georgiani, prenderanno posizione davanti. Io sarò largo a destra coi miei oikeioi e con uno squadrone di monsapa, l’altro occuperà l’ala sinistra.



Il primo colpo lo sferreremo contro il treno d’assedio e lo porterò io personalmente. Vedendo i loro compagni sotto attacco di una piccola forza di cavalleria i comandanti turchi decideranno di accelerare il passo e di accorrere. Questo li porterà nell’area di tiro degli arcieri. Attendete prima di scoccare le prime raffiche, perché avvisarli troppo presto della nostra presenza potrebbe complicarci il lavoro.

Una volta che i turchi si saranno accorti degli arcieri, invece di ritirarsi andranno all’attacco. E visto che vogliono frecce voi dategli frecce in quantità. Sono truppe di milizia, non soldati professionisti: un tiro costante e letale dovrebbe minarne il morale rapidamente; in caso contrario fate ritirare gli arcieri alle spalle dei kontophoroi e mandate all’attacco gli skoutatoi.



Intanto la cavalleria avrà libertà di movimento e d’attacco sull’intero fronte, andando costantemente a colpire unità isolate e a indebolire i fianchi. In particolare bisogna disperdere quanto prima gli arcieri armeni, la cui abilità conosciamo bene."



"Ci sono domande?”

Nessuno parlò. Ivane con un altro cenno chiuse il breve consiglio di guerra e raggiunse il suo destriero. Vi montò con un movimento fluido e impugnò la spada. Alle sue spalle il portastendardo lasciò che il vento ghermisse lo stendardo e lo facesse sventolare. Subito gli altri portastendardi lo imitarono. Qua è là il leone d’Armenia mostrava gli artigli, ma l’esercito era un tripudio di croci rosse in campo bianco. Ivane diede di sprone, lanciandosi verso il nemico e la vittoria.
imbera
00mercoledì 2 maggio 2012 13:12
grandissimo!!!
Il Tristo Mietitore
00mercoledì 2 maggio 2012 14:50
veramente appassionante. Mi hai fatto venir voglia di iniziare una campagna coi georgiani, che finora avevo solo visto come una rogna giocando coi turchi! [SM=g27963]
pablo de toledo-tristero
00giovedì 3 maggio 2012 14:32
[SM=g2584622]
frederick the great
00sabato 5 maggio 2012 12:20


Anno 1186, piana di Amaseia

Il sole era sorto da diverse ore e la polvere, da impercettibile disturbo all’orizzonte era diventata una nuvola che costantemente andava ingrandendosi. I soldati georgiani se ne stavano ai loro posti, i fanti accucciati a terra accanto alle armi a discorrere di donne e di casa, i cavalieri intenti a curare i loro destrieri, gli arcieri ad assicurarsi che le corde fossero tese e le faretre piene. Gli stendardi delle varie unità garrivano mosci al flebile vento che soffiava da occidente, con le croci rosse che parevano chinare il capo pur sotto quella debole carezza.

Eppure a Oshin Bagration, p’rintsi di Georgia, non sfuggiva il nervosismo che imperava ovunque. Lo avvertiva negli sguardi inquieti dei soldati, nelle risate stentate, nei nitriti dei cavalli. E lo vedeva, riflesso ovunque, sul suo stesso volto. Quando aveva progettato quella guerra se ne stava beato nel palazzo di Tbilissi, a centinaia di leghe da lì, nel pieno fulgore dei suoi sogni da adolescente.

Ora, nove anni più tardi, era sull’orlo della sua prima vera battaglia. Era perfettamente conscio che la conquista di Amaseia e l’uccisione del suo poco accorto governatore difficilmente potevano essere esibite come glorie militari, erano vittorie ottenute contro forze deboli e per nulla preparate. Ma questa volta la questione era tremendamente seria, questa volta i Turchi erano venuti per riprendersi ciò che era stato loro tolto.

E lo avevano fatto in grande stile. Un misto di fanteria sharqiyyun e artukogullara, fiancheggiata da unità di milizia, con bande di arcieri tanto appiedati quanto a cavallo. E battaglioni di ghilman, l’elite dell’esercito turco, soldati che difficilmente si spaventavano e che erano abituati ad avere ragione di ogni nemico. Oltre, ovviamente, alla guardia del comandante, un amir di nome Mehmed di Ray. Un uomo del popolo e per tanto ferocemente determinato a scalare posizioni agli occhi del sultano col sangue e la vittoria.





Sarebbe stato in grado di affrontarlo e sconfiggerlo?, si chiese Oshin con un brivido. Non voleva pensare a cosa sarebbe successo se avesse perso, sapeva fin troppo bene che il Regno non aveva un seconda armata alle sue spalle, quanto restava delle forze georgiane era a Melitene con Ivane Orbeli.

Sentì una pressenza al suo fianco e non ebbe bisogno di voltarsi per capire che si trattava di Erets Orbeli. Solo un nobile di grande casata come lui si sarebbe mosso con quella sicumera al cospetto del suo principe. Anche se doveva ammettere che Erets si era comportato bene con la missione nell’Egeo, era tutto fuorché un compito facile quello che gli era stato affidato. E l’aver riportato indietro il grosso degli uomini era stato un piccolo grande trionfo, l’ennesimo per la casata Orbeli. Perché c’era poco da nascondere, la guerra ai Turchi era un progetto della famiglia Bagration, ma erano gli Orbeli che ne stavano traendo gloria e prestigio.

“Avanzano per davvero”, constatò Erets Orbeli con una smorfia divertita. “Poveri idioti, non sanno cosa li attende!”

“Solo uno stolto sottovaluta il proprio nemico”, gli rispose il p’rintsi con una certa acidità. “Quelli non sono i contadini che difendevano Amaseia, sono professionisti. E sono qui per vincere esattamente come noi.”

“Se non vi conoscessi mi verrebbe da supporre che abbiate timore di loro, Vostra Altezza.” C’era ironia decisamente non velata nelle parole di Erets, ma Oshin preferì lasciar correre. In effetti non mi conosci, pensò fra sé, altrimenti sapresti che non è di loro che ho timore, ma delle mie capacità.

“Prendi il comando dei musellem e tienti all’ala. Hai un solo compito, levare di mezzo l’amir nemico: morto lui la sua armata potrebbe sfaldarsi.”

Erets sogghignò come un lupo. “Sarà fatto, Vostra Altezza”, rispose prima di allontanarsi per raggiungere i suoi uomini. Oshin rimase nuovamente solo coi suoi pensieri, almeno finché il comandante dei suoi oikeioi non gli si avvicinò e con garbo portò alla sua attenzione che ormai i turchi erano pienamente schierati e avanzavano per dar battaglia.



“Che gli egriseli avanzino a sinistra e impegnino gli arcieri a cavallo nemici. Si tengano il più possibile lontano dalle mischie, ma siano pronti a intervenire alle spalle del nemico al mio ordine. La fanteria è al suo posto?”

“Ogni uomo è nei ranghi, mio principe: i kontophoroi davanti, gli arcieri dietro”, gli risposero.

“Ottimo.” Oshin chiamò un attendente. “Va’ dal comandante degli eristavi e digli che si tenga pronto a intervenire a sostegno degli egriseli nel caso che la cavalleria pesante turca li scelga come bersaglio. In caso contrario resti dov’è e attenda istruzioni.”

L’attendente corse via. Poi un urlo di guerra si levò nell’aria, subito imitato da un secondo, da un terzo e poi da tutti. Oltre diecimila gole turche proruppero in un grido d’odio contro i georgiani, quindi si scagliarono all’attacco, decisi a spazzare via l’armata di Oshin. La battaglia di Amaseia era cominciata.



Mehmed di Ray doveva essere un buon comandante, bastarono pochi minuti perché Oshin se ne rendesse conto. Manteneva una posizione neutra alle spalle della sua linea, avendo il doppio vantaggio di poter avere sotto controllo la situazione generale e contemporaneamente di rappresentare un deterrente a eventuali tentativi di aggiramento. Aveva scelto di far compiere alla fanteria un attacco di massa, di trasformarla in una sorta di pugno di gigante che frantumasse con la violenzza dell’assalto le difese georgiane.



Sulle prime questo era parso un azzardo, in quando aveva concesso bersagli molto comodi agli arcieri georgiani; ma ben presto i kontophoroi si erano trovati sottoposti a una pressione elevata, con i ghilman a formare il cuore dell’attacco turco e miliziani e sharqiyyun a colpire ai lati, minacciando di aggirare la linea georgiana. La situazione richiedeva intervento rapido, Oshin lo comprendeva; ma farlo voleva dire esporsi alla letale controcarica del generale turco e il p’rintsi non voleva mandare alla morte né gli eristavi né tantomeno i propri oikeioi.

Peraltro era evidente che Mehmet di Ray stava aspettando solamente quello, l’occasione per incrociare le lame col conquistatore di Amaseia per punirlo personalmente. Un brivido attraversò la schiena di Oshin, per quanto fosse una giornata calda: paura, ecco cos’era, maledetta paura. Era forse un codardo?, si domandò con rabbia. Muoviti!, provò a spronarsi, ma le sue mani rimasero inerti attorno alle briglia, lo sguardo perso in lontananza.

Orizzonte dove gli egriseli erano alle prese con bande di guerrieri artukogullari che, per quanto non riuscissero a impegnarli nel corpo a corpo, avevano fatto sì che l’ordinata linea di battaglia degli egriseli si fosse sfaldata e ora ogni cavaliere tirava per proprio conto, con esiti decisamente meno letali di prima. Oshin pensò di inviare gli eristavi a togliere di mezzo quei noiosi fanti, ma gli bastò uno sguardo al generale turco per cambiare idea. Ma dove diavolo era Erets Orbeli?

Polvere varia indicava che il nobile si trovava verso occidente, assieme presumibilmente ai musellem. A confrontarsi con degli arcieri a cavallo che, chiaramente, stavano vendendo carissima la pelle. Avrebbe dovuto aspettarselo, li aveva contrapposti a dei turchi che aveva prontamente accettato il dominio georgiano, generando il classico “il musellem buono è il musellem morto”. E pareva che neanche la presenza degli oikeioi di Erets cambiasse la situazione in tempi brevi.

In sostanza l’esito della battaglia dipendeva interamente da lui, dalla mossa che avrebbe fatto. E capì che doveva farne una, aspettare non serviva a niente. Poteva diventare finalmente un generale degno di tal nome o essere ricordato o come colui la cui bambinesca paura aveva rappresentato la miglior arma turca; o in alternativa come colui che era stato salvato da un Orbeli, se Erets si fosse liberato per tempo. Strinse nervosamente la spada. Al diavolo!, si urlò mentalmente, Smettila di fare il poppante e diventa un uomo!

“Che gli eristavi vadano a sterminare quei fastidiosi insetti che ronzano attorno agli egriseli”, ordinò bruscamente a un attendente. “Una volta finito non stiano a gloriarsi, ma si diano una mossa e tornino indietro, una sana carica nella schiena dovrebbe indurre i turchi a più miti consigli.”

“In quanto a noi, miei fidi compagni, noi andiamo a fare la festa al gran capo!” Un ruggito d’approvazione si levò dai suoi uomini, subito seguito da un gridò d’avvertimento: “Sharquiyyun!”

“Carica!”, tuonò in risposta Oshin, dando di sprone. Immediatamente gli oikeioi lo seguirono e precipitarono come una muraglia contro la fanteria turca, maciullandola all’impatto.



E subito il corno annunciò che Mehmed di Ray scendeva anch’egli in campo. Oshin ordinò di riformare i ranghi in movimento e di caricare nuovamente. L’impatto fu violentissimo e ben presto ogni cosa divenne un turbine di cavalli e spade. Oshin abbatté un cavaliere turco e mandò fuori tempo il fendente di un altro. Poi una lama si aprì la strada nella sua difesa e morse ferocemente acciaio e carne. Fu assalito da un’ondata soverchiante di dolore, ma sapeva di non poter cadere, l’effetto che ciò avrebbe avuto sarebbe stato devastante per il morale degli uomini. Ma l’avversario non gli diede tregua e lo attaccò nuovamente. Oshin deviò i primi due fendenti, ma col terzo fu troppo lento: la lama nemica morse ancora la sua carne e questa volta capì che non sarebbe riuscito a reggersi in sella. Però quel bastardo l’avrebbe trascinato a terra con sé, si disse. E colpì dal sotto in su, evitando lo scudo nemico e andando a colpirlo direttamente in pieno petto. Il turco cacciò un grido e crollò al suolo. Oshin sentì una sensazione di euforia afferrarlo, anche se non abbastanza forte per scacciare l’oscurità che avanzava. Captò debolmente il suono di un corno, quindi tutto divenne buio.



Si svegliò in preda a atroci dolori. Poche occhiate e capì di essere nella sua tenda. Appena provò a muoversi il suo scudiero gli fu subito accanto.

“Com’è andata?”, biascicò Oshin. Ma il giovane era già corso via, quasi sicuramente a chiamare uno degli apotecari al seguito dell’armata. Infatti tornò poco dopo accompagnato da un uomo sulla quarantina che sfoggiava una gran barba scura e ispida. Questi squadrò con occhio esperto le ferite.

“Siete fortunato, mio principe, a quanto pare Dio ancora non vi vuole e nemmeno il diavolo.”

“Com’è andata la battaglia?”, domandò di nuovo Oshin. L’apotecario grugnì.

“Un macello, come sempre. Però avete vinto, se è ciò che vi interessa sapere.”

“Certo che abbiamo vinto!” Erets Orbeli irruppe nella tenda. “P’rintsi”, si inchinò con deferenza. Autentica, notò con un filo di sorpresa Oshin.

“E i turchi?”

“Il grosso uccisi, parecchi prigionieri, pochi scappati sui monti. E il comandante nemico è caduto sul campo. Praticamente è un trionfo assoluto.”

“Che è successo dopo che sono caduto? Raccontatemi.”

“Quei dannati arcieri a cavallo si sono battuti come leoni, abbiamo dovuto ucciderli quasi tutti prima che la capissero e scegliessero di ritirarsi”, disse Erets con riluttante ammirazione. “A quel punto ho lasciato i musellem e mi sono precipitato a vedere come procedevano le cose dalle altre parti. Dopotutto il mio compito era eliminare Mehmed di Ray e il verme turco era ancora vivo e vegeto. Impegnato contro di voi, mio p’rintsi. Ho dato immediato ordine di caricarlo alle spalle e la cosa è riuscita completamente: stretto completamente in una morsa georgiana, il turco ha lottato ma non poteva che soccombere. Morto lui, morti tutti: l’armata nemica si è sfaldata, a partire dai miliziani. Gli eristavi sono arrivati per operare una carica decisiva, ma non hanno fatto altro che inseguire contingenti già in fuga.”



Oshin chiuse gli occhi e sorrise: aveva vinto. E ora la via per Kayseri era decisamente più sgombera. Il tempo di riprendersi dalle ferite ricevute e poi avrebbe lanciato l’attacco decisivo. Con la consapevolezza che non sarebbe stato più un imberbe pivello a guidare l’esercito, ma un uomo che portava addosso i segni tangibili del suo apprendistato.
LordFerro
00sabato 5 maggio 2012 12:58
bella battaglia, per caso hai il resoconto di fine battaglia?
frederick the great
00sabato 5 maggio 2012 13:15
Re:
LordFerro, 05/05/2012 12.58:

bella battaglia, per caso hai il resoconto di fine battaglia?



No, purtroppo non ho preso l'immagine [SM=g27969]

Zames
00sabato 5 maggio 2012 13:34
Bravo fred, le tue cronache mi piacciono molto, ho seguito appassionatamente la tua cronaca sulla Renovatio Imperii e adesso mi gustando questa tua nuova con i Georgiani.
La scelta di uno stile di narrazione romanzato è davvero bella, una scelta alla quale ho rinunciato all'ultimo momento per la mia AAR. Continua così, non vedo l'ora di leggere il seguito
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