feudal full n/n
Anno 1176, febbraio, palazzo reale di Tbilissi
“Guardate questa carta e ditemi cosa vedete.”
“Vedo il nostro regno, le sue molte città e la sua estensione, mio signore.”
“Io vedo ciò che il vostro governo ci ha portati ad essere, forti come mai lo siamo stati prima d’ora.”
Giorgi Bagration, mepe di Georgia, lasciò scorrere lo sguardo sui due uomini che avevano risposto. Erano personaggi molto potenti, membri di spicco delle due casate più forti del regno, uomini che lo servivano più perché egli era un re dalla grande autorità e dal notevole carisma che per un vero senso di fedeltà. Giorgi era ben conscio che tanto gli Abuletisdze quanto gli Orbeli ambivano ad occupare quel trono su cui lui sedeva da quasi vent’anni.
Ma Giorgi sapeva che nessuno dei due aveva ciò che serviva veramente per diventare un re, quelle risposte appena ricevute ne erano la prova inconfutabile. Quella carta - un prodotto dei monaci del monastero di Gelati e ricca di dettagli saputi da mercanti, emissari e altro genere di viaggiatori – mostrava effettivamente un regno di Georgia mai così potente né espanso. Ma mostrava anche i suoi vicini, i pericolosi nemici e gli infidi alleati. Mostrava la loro forza, la loro grandezza. Forse i due grandi nobili non si rendevano conto, ma Giorgi sì: il regno camminava su una lama, sbagliare una decisione ora poteva significare la distruzione di tutto.
“Guardate meglio”, consigliò loro il re, “e cercate di vedere la realtà, non solo quello che volete vedere.”
“Ma non è forse realtà, mio re, il fatto che siamo ora più forti di vent’anni fa, e di molto anche?”
“Certo che è vero. Ma siamo più forti di prima o siamo forti e basta? Questa è la domanda a cui dover rispondere.”
“I confini sono sicuri, le fortezze presidiate, le casse piene e abbiamo appena soggiogato l’Ossezia; direi che possiamo osare di ritenerci una potenza locale”, rispose Ivane Orbeli.
Giorgi Bagration lo fissò. Ivane Orbeli era il primogenito del principe reggente e occupava il posto di suo padre nel consiglio reale dato che questi era troppo malato per potersi dedicare alla conduzione dello stato. Ivane era un uomo abile e intelligente, piuttosto apprezzato dalle dame di corte per il suo bell’aspetto e i suoi modi garbati; ma era una persona potenzialmente molto pericolosa. In quanto prossimo capo della casata Orbeli era detentore di un potere non indifferente, a cui si andava ad aggiungere il fatto che fosse figlio dell’erede al trono, per quanto questa eredità diventasse giorno dopo giorno una chimera. Era un uomo del cui appoggio Giorgi aveva bisogno, per quanto non sempre il suo giudizio riuscisse a cogliere tutte le sfumature di una questione.
“Il tuo ragionamento, Ivane, è buono ma si perde per via alcune considerazioni piuttosto importanti. Attiro nuovamente la vostra attenzione sulla carta e sulla situazione di questo nostro angolo di mondo. In venti anni abbiamo esteso la nostra influenza diretta all’Armenia e ne abbiamo occupato il centro strategico, la roccaforte di Ani. Abbiamo riportato sotto il nostro controllo la città di Ganja, che da troppo tempo si atteggiava a indipendente. Inoltre abbiamo occupato la città portuale di Tmutarakan e, roba di pochi mesi orsono, sconfitto gli Osseti e il nostro vessillo sventola su Maghas.
Il nostro tesoro, per quanto molto ben fornito – secondo le ultime stime abbiamo oltre 70.000 bisanti – ha subito un brusco calo negli ultimi tempi, la campagna contro l’Ossezia ci è costata ben più di quanto preventivato. E a livello militare disponiamo di una forte guarnigione ad Ani e di un esercito che potremmo definire campale a Kutaisi. Il resto sono mere guarnigioni di non eccelso livello. E i nostri vicini come sono messi?”
Il re non attese una risposta e proseguì: “A settentrione ci sono i nostri alleati Kipchaq. Le nostre spie riferiscono dei dati molto inquietanti su di loro, su come parecchi capiclan ritengano che il khan non avrebbe dovuto stipulare alleanza con gente che può facilmente essere sottomessa. Non penso che troverebbero troppo facile il sottometterci, ma di certo hanno il potere per farlo. Immagino avrete saputo delle folgoranti campagne che stanno conducendo nelle steppe, hanno occupato in pochi anni la roccaforte di Peryaslav e la città di Kiev. E ora pare siano arrivati fino a Ryazan, nel nord delle steppe.
A sud abbiamo altri alleati, quel califfo abbaside che sta puntando a tornare potente come lo erano i suoi padri. Ha iniziato una guerra contro gli Zenghidi di Siria e, per quanto per ora non abbia ottenuto trionfi militari degni di tal nome, il nostro ambasciatore a Baghdad mi riferisce che le armate del Califfato sono numerose come la sabbia del deserto nel quale marciano e che i mamelucchi, spina dorsale dell’esercito, sono guerrieri ben addestrati e temibili.
A occidente ci sono il sultanato selgiuchide di Rum e l’Impero dei Romei, impegnati in una sanguinosa tenzone. Sulla natura subdola e infida dei Romei non mi dilungherò oltre, sappiamo bene in quale modo abbiano fatto fallire la nostra campagna in Bulgaria e come solo un colpo di fortuna e audacia ci abbia permesso di concludere quel trattato che ora ci lega al Califfato. Sono un nemico astuto e temibile, doppiogiochista e pericoloso. Eppure i turchi stanno tenendo loro testa egregiamente, anzi hanno pure occupato Trapezous.
Questa è la verità, miei signori: siamo un regno piccolo e arroccato, uno stato di cui gli altri si curano a malapena e che non reputano pericoloso. Ora come ora c’è chi dice che noi non si sia neppure in grado di riportare sotto il nostro controllo la libera città di Darbend.”
“Possiamo schiacciare Darbend come e quando vogliamo”, intervenne Dzagan Abuletisdze, governatore dell’Armenia e gran maestro dell’Ordine Tadzreuli, in tono irato. “Anzi, sarebbe ora di farlo!”
“Effettivamente, maestà, la nobiltà del regno scalpita affinché voi completiate l’opera e riportiate sotto il nostro giusto controllo questa città commerciale…”, disse in tono quieto il rappresentante della corporazione mercantile.
“Capisco perfettamente che i giovani vogliano una guerra ove trovare gloria e in cui compiere grandi imprese, ma non posso gettare al vento le vite dei nostri soldati per una cosa così insignificante come Darbend”, replicò il sovrano. “Se una guerra deve essere fatta, che sia una guerra che ci porti a nuova forza e ricchezza.”
“E lasciare ai Kipchaq le ricchezze di Darbend? E’ terminale di vie carovaniere di una certa importanza, maestà”, fece notare il mercante.
Giorgi rise. “Avremo ben altro che le ricchezze di Darbend, mio caro!”
“Ho quasi paura a chiederlo, ma non è che….”, incominciò dubbioso Ivane Orbeli
“Cosa?”, gli chiese il re. Ivane fissò la carta.
“…non vorrete per caso colpire al cuore i Romei, mi auguro. Ritengo che vediate il nostro regno meno forte di quel che è realmente, ma so anch’io che non siamo in grado di sfidare i romei né di reggere la collera del loro sovrano.”
“Non sono i romei l’obbiettivo, almeno non il principale né l’immediato”, replicò il re. “No, signori, noi colpiremo i selghiuchidi di Rum!”
Espressioni basite si dipinsero sui volti dei presenti, occhiate stranite vennero scambiate prima che, timidamente, qualcuno provasse a esprimere le proprie perplessità. La discussione non era però che appena incominciata quando le porte della sala si spalancarono e lasciarono entrare il giovane figlio del re. Per essere l’uomo che avrebbe dovuto guidare il regno negli anni futuri, il principe Oshin Bagration aveva tutto fuorché l’aspetto di un guerriero di sangue reale. Dai lineamenti bruttini e grezzi, basso di statura, il principe aveva un’andatura dondolante, più adeguata a un giullare che a un futuro cavaliere. Eppure, nel guardarlo, Giorgi si sentì fiero di suo figlio e dell’intelligenza che Dio gli aveva donato, pur a scapito della bellezza fisica.
“Padre, miei signori”, salutò il giovane. “Vedo che hai già esposto loro il progetto”, commentò notando le espressioni dei presenti.
“Solo in parte. E, anzi, credo che dovresti essere tu a spiegare loro perché e come. Dopotutto hai contribuito.”
Il principe accettò con un sorriso sghembo l’invito paterno e si appropinquò alla carta, sempre distesa sul tavolo del consiglio. “Come ben sapete il sultanato di Rum sta combattendo contro i Romei. Le ultime notizie dicono che le armate imperiali sono entrate a Konya e che per ora i turchi non sembrano in grado di recuperare la propria capitale. Tuttavia reggono egregiamente e diverse voci attribuiscono ciò al chiaro volere di Allah, tant’è vero che ben tre rappresentanti della casata Paleologa sono deceduti improvvisamente.
Ovviamente la mano di Allah non c’entra affatto o, quantomeno, ha guidato splendidamente quella del nostro inviato. Contiamo che questi atti “oscuri” creino un po’ di scompiglio fra le file romee e diano modo ai turchi di attaccare con maggior vigore.”
“Perché abbiamo aiutato chi intendiamo colpire?”, domandò Dzagan Abuletisdze. “Non sarebbe stato meglio colpire i Turchi?”
“Non direi. Così facendo i turchi sposteranno ulteriormente la propria forza e attenzione verso occidente, lasciando solo pochi soldati ai confini orientali. E noi potremo facilmente colpire.” Il principe fece una pausa per assicurarsi che tutti avessero compreso. “Dove dovremmo attaccare, a vostro giudizio?”
“Trabzon”, rispose subito Ivane Orbeli. “Non possiamo permetterci di avere una roccaforte nemica così vicino. Se guerra coi turchi deve essere lì è dove dobbiamo colpire.”
“Eccellente intuizione”, approvò Giorgi. “Penso che ogni georgiano voglia vivere una seconda Didgori, ma questa volta un po’ meno vicino a casa. E poi?”
“Malatya? E’ una vallata piuttosto fertile, con una città che rappresenta un passaggio obbligato per molte carovane.”
“Passabile idea, ma aprirebbe un fronte con la città di Edessa, che le ultime notizie danno occupata dai crociati provenienti dalla lontana Germania. Inoltre la perdita di Malatya non credo rappresenterebbe per i turchi una catastrofe e noi vogliamo colpirli il più duramente e il più profondamente possibile.”
“E dove, allora?”
Il principe puntò il dito sulla carta: “Qui”, disse.
“Kayseri? Ma è una fortezza vasta e molto ben difesa…”
“Kaysareia non è una fortezza vasta e molto ben difesa, Kaysareia è il cuore pulsante della macchina bellica turca ed è il luogo strategicamente più rilevante di tutta l’Anatolia. Con quella rocca in nostro possesso potremmo minacciare ogni landa ancora in mano turca e, cosa non irrilevante, le mura di Kaysareia non temono, se ben difese, nulla e nessuno, nemmeno le armate di Costantinopoli.”
Ivane Orbeli guardò il giovane principe per un lungo istante prima di spostare lo sguardo su Giorgi. “Maestà, ora capisco che mi ero sbagliato. Pensavo voleste fortificare le nostre posizioni, invece avete una visione ben più vasta e illuminata. Quando intendete cominciare le operazioni?”
“Il prima possibile, dobbiamo agire finché nessuno sospetta le nostre intenzioni. Voi, Dzagan, tornate a Ani e assicuratevi che le difese siano al meglio, potreste ricevere visite non gradite. E voi, Ivane, a voi affido il compito di sferrare il primo affondo. Prendete il comando dell’esercito e marciate su Trabzon.”
I due nobili si inchinarono rispettosamente e lasciarono la sala. Giorgi attese che tutti fossero usciti, quindi si volse verso il figlio. “Sei veramente sicuro che tutto andrà come previsto, Oshin? Non stiamo sottovalutando la capacità di reazione dei Selgiuchidi?”
“Ovviamente, padre. I turchi sono guerrieri coraggiosi e difficili da sconfiggere, lotteranno fino all’ultimo e cercheranno in tutti i modi di ricacciarci da dove siamo venuti, se daremo loro il tempo di prepararsi”, rispose il principe. “Ma non lo avranno, il tempo.”
Fuori, un rombo sommesso e distante annunciò l’avvicinarsi di un temporale. I venti della guerra spiravano in Goergia.