00 21/06/2011 16:06
Come aveva detto tanto tempo orsono (così tanto che a momenti mi dimenticavo pure io) comincio a narrare le gesta dei miei Cumani. Sarà una campagna che non so ancora dove mi porterà - niente super-obbiettivi di renovatio o simili stavolta - ma che quantomeno voglio portare avanti fino allo scontro coi Mongoli; tenendo conto che gioco con l'iron's mod questo vuol dire che sarà bella lunghetta. Enjoy!



Questa storia ha inizio molti anni prima che io nascessi, quando Manuele Comneno era basileus di Bisanzio e Geza II Arpad sovrano d’Ungheria. Allora come oggi gli stati nascevano e cadevano, gli uomini lottavano strenuamente per il potere e la sopravvivenza, per la gloria e la ricchezza, per essere ricordati o semplicemente per mettere qualcosa sotto i denti. Era un mondo difficile e duro, spietato e complesso, dove dovevi guardarti tanto dai nemici quanto – e forse soprattutto – dagli amici. Non erano passati poi molti anni da quando gli infidi Romei avevano attirato, presso la città di Beroia, in una trappola mortale i Peceneghi, fieri e abili guerrieri. Agli occhi dei vincitori c’era poca differenza fra quegli uomini e noi. Come se fossimo la stessa cosa ci guardavano e ci trattavano, da quelli che chiamano barbari, che etichettano come esseri inferiori e incivili, stupidi e rozzi. Ma noi siamo ben altro. Noi siamo i Kipchaq, i Signori della Steppa.
Siamo un popolo grande, abituato ad affrontare le avversità della vita e a superarle. Nasciamo in sella e moriamo in sella. Dovunque i nostri cavalli possano portarci, lì siamo temuti e rispettati, probabilmente anche odiati. Siamo stati anche derisi a volte, ma è un peccato che nessuno possa più testimoniarlo: sappiamo infatti essere giusti verso che merita il nostro rispetto e terribili nella vendetta contro chi non ottiene altro che il nostro odio. Perché noi siamo i Kipchaq, i Signori della Steppa.
A volte mi chiedo perché così tanti potenti si ostinino a ritenersi perennemente superiori ai loro vicini, salvo poi ricadere nei medesimi errori. Perché non si impara mai da quanto accade? Quanti sovrani hanno cercato di intralciare il nostro cammino, convinti che il loro potere fosse sufficiente a fermare noi Kipchaq? Solo Tengri lo sa e a lui solo lascerò questa conoscenza. Ma forse sto correndo troppo, forse è bene che cominci la mia narrazione dal momento in cui tutto mutò.



Correva l’anno 1155 – per comodità e maggior comprensione tua, o lettore, mi baserò sul calendario in voga nelle terre magiare – e il khanato dei Kipchaq stava attraversando un momento molto complicato. Bonyak, del clan degli Osen, era khan da anni, ma ormai i suoi giorni volgevano rapidamente al termine: ultrasessantenne e malato al punto che non riusciva più a salire a cavallo, egli dimorava nella città di Saqsin, sul Caspio. Era una città modesta, non particolarmente importante e molto decentrata, un luogo in cui mai un sovrano dovrebbe soggiornare troppo a lungo. In effetti da anni il potere lo aveva nelle proprie mani il primogenito di Bonyak, Sharukan, un prode guerriero che aveva fatto della rocca di Sarkel la sua fortezza. In quanto futuro khan, Sharukan stava già lavorando attivamente per risolvere diverse situazioni complicate che il padre nella sua vecchiaia lasciava troppo andare.

Qualche anno prima il khanato era stato scosso da una forte serie di rivolte e spaccature nei territori orientali, secondo alcuni sobillate addirittura dal sovrano di Georgia. Quello che era certo era che questi accadimenti avevano provocato ampio scontento un po’ ovunque, minando la fedeltà di molti al clan Osen e facendo emergere nuove figure nella vita politica del khanato. Questo aveva portato Sharukan a doversi appoggiare sempre più ai due fratelli minori, Ituk e Konchak.
Ituk era stato nominato governatore della capitale del khanato, la ricca città di Azaq, primario accesso al mar Nero e ai suoi ricchi commerci, non ultime le rotte commerciali con i mercati romei. Nonostante si fosse messo in luce come un notevole amministratore e un governatore benvoluto, Ituk aveva però dimostrato delle capacità limitate sotto l’aspetto militare, non riuscendo a sedare la sua parte di rivolta e permettendo, in ultima analisi, la nascita del principato di Taman, uno staterello tutto imperniato sulla città di Tmutarakan, e governato da Igor Sviatoslavich, un russo fuggito da Kiev e riciclatosi durante la rivolta. La forza militare del neoprincipato era trascurabile, ma la sua posizione strategica no, e il fallimento di Ituk aveva lasciato uno spinoso problema in sospeso che Sharukan, impegnato a reprimere altrove la rivolta, non aveva ancora avuto tempo di affrontare.
L’altro fratello, Konchak, per certi versi aveva avuto un compito ancor più complicato. Nominato signore di Olese, una piccola cittadina lungo le coste nord-occidentali del mar Nero, egli non aveva ancora dovuto provare sul campo quanto valeva a livello militare; in compenso aveva dovuto trattare quotidianamente con i clan dei Kunbek e dei Terter-Oba, due famiglie recentemente assurte a ruoli di potere e decise a ottenere quanto più possibile. Una situazione molto complessa, tanto più che la sete di potere dei Kunbek aveva portato a una rapida ma incontrollata espansione verso Occidente, inglobando la Moldava e la parte meridionale dei Carpazi. In particolare quest’ultima zona, il cui centro principale era la città di Arges, si trovava molto distante dal cuore dei domini dei Kipchaq, circondata da terre magiare e romee.



Un quadro generale a cui bisognava aggiungere il principato di Crimea – indipendente, ma molto legato a Bisanzio e governato da Isacco Botoniate; delle regioni non del tutto indipendenti – ancora una volta la longa manus romea si faceva sentire – come quelle bulgare, i cui governatori erano Romano Diogene a Constanta e Demetrio Monoftalmo a Tirnovgrad; il principato di Halych a settentrione della Moldavia, uno stato ricco e bramato da molti potenti dell’area; il khanato della Volga Bulgaria, la cui capitale Bolgar era vista come una città immensa e ricchissima; il gran principato di Vladimir-Suzdal, un gigante ancora addormentato ma che era meglio lasciar dormire finché si poteva; i magiari ai confini occidentali, un popolo che aveva perso molto della grandezza di un tempo – quando erano fieri del proprio potere e della propria fede e si facevano chiamare Ungari – ma che non per questo andava sottovalutato; e ovviamente l’Impero dei Romei, avidi e infidi, suadenti come bellissime donne e pericolosi come serpenti velenosi.



Attorno al marzo 1155 Bonyak Osen, khan dei Kipchaq, si spense dopo lunga malattia nella sua dimora di Saqsin, sul mar Caspio. Con lui moriva un uomo che non era riuscito a far fronte a una crisi interna di notevole portata, che aveva infiacchito notevolmente il khanato a ogni livello. Toccava a suo figlio Sharukan assumersi l’onere di trovare una via d’uscita. Il primo pensiero del nuovo khan era quello di chiudere una volta per tutte i conti con quelle ribellioni che ancora insanguinavano la parte orientale dei domini dei Kipchaq: bisognava rapidamente chiudere il conto con il principato di Taman per poi potersi concentrare al meglio sull’attacco al ben più forte e protetto stato dell’Ossetia, la cui capitale Maghas era reputata una fortezza in grado di sfidare i più insigni generali.



Con questo progetto grandioso in mente, Sharukan emanò immediatamente una serie di ordini affinché ogni cosa si mettesse in moto e intraprendesse la strada che egli voleva. Suo fratello Ituk venne insignito dell’alto onore di regolare i conti con Taman – un compito che era più che altro un oneroso castigo, visto che già una volta egli aveva fallito – e truppe vennero drenate da Saqsin e da Sarkel e fatte confluire ad Azaq: in particolare Ituk si ritrovò omaggiato di squadroni di dreg e calarisi, i primi fior fiore delle armate kipchaq, i secondi ausiliari dallo stile di combattimento ibrido.





Konchak – nominato nel frattempo erede al trono - ricevette invece il compito di lanciare un piano di riavvio economico, che portasse rapidamente nelle casse del khanato quei fondi necessari all’arruolamento, addestramento ed equipaggiamento di un grande esercito per conquistare Maghas. Questo comportò subito la partenza di una lunga missione diplomatica, condotta dall’esperto notabile Vlur, per stabilire rapporti economici con varie realtà politiche: in successione vennero toccati Georgiani, Turchi Selgiuchidi, Zenghidi di Siria, Crociati di Gerusalemme e infine Fatimidi d’Egitto. Contemporaneamente una seconda missione diplomatica compiva altrettanti passi nei confronti di Rus, Magiari e Polacchi. Oltre, ovviamente, ai Romei. Da ultimo diversi mercanti furono inviati a trattare per ottenere i diritti di sfruttamento e commercio di varie risorse, principalmente argento bizantino (dalla Chaldia) e tessuti pregiati da Bolgar.
Il gran movimento e i tanti onori ottenuti dai rappresentanti del clan Osen, detentore del potere supremo, uniti ai vasti territori conquistati dai Kunbek negli anni precedenti, spinsero però un giovane capoclan, Sevanch Terter-Oba, a cercare a propria volta fortuna e gloria. Dalla sua base di Asperon – che i Romei chiamano Castrum Album – egli scrutava la vicina regione della Dubrodza, governata dal filo bizantino Romano Diogene. Era consapevole che anche solo una razzia in quell’area avrebbe irritato colui che da Konstantinoupolis tutto vedeva e controllava, ma non aveva intenzione di restare nell’ombra: era un kipchaq, un guerriero.



Così radunò un’armata – invero abbastanza indegna delle tradizioni guerriere del nostro popolo – e si lanciò in una campagna di razzia e saccheggio in Dubrodza. Contro ogni aspettativa, i Romei non accorsero come api sul miele per aiutare l’alleato e questo spinse Sevanch a maggior audacia: nel cuore dell’estate 1155 iniziò una sistematica conquista di villaggi e castelletti, puntando a chiudere vieppiù il cerchio attorno a Constanta e al suo governatore. Che, dal canto suo, pur avendo un’armata numericamente di egual forza, preferì chiudersi dietro le mura e attendere che la tempesta fosse passata.
Ma la tempesta non passò affatto. Al di là della ricerca della gloria per sé e per il proprio clan, Sevanch ora stava combattendo per salvare la propria vita. Infatti Sharukan, alla notizia di questo raid, aveva dato istruzioni severissime al fratello Konchak perché il reo fosse immediatamente imprigionato al suo rientro e sottoposto al giudizio del khan. Sevanch sapeva che tornare con del bottino non sarebbe stato sufficiente per convincere il khan a risparmiarlo, tanto più che erano di due clan diversi e non particolarmente amici. Inoltre suo figlio Kotian, appena sedicenne, era presso la capitale come paggio di corte e rappresentava una pedina che egli, Sevanch, non poteva lasciar muovere a nessuno. Così prese la decisione di conquistare l’intera regione e la sua capitale e di offrirla al khan quale segno che il suo operato era per la maggior gloria dei Kipchaq e non del clan Terter-Oba.
Solamente all’inizio del 1157 Romano Diogene, ormai completamente bloccato da diversi mesi in Constanta e senza alcun aiuto visibile all’orizzonte da Bisanzio, decise di tentare il tutto per tutto in uno scontro campale: meglio la morte di spada che quella d’inedia.
Avvertito che i nemici si muovevano con il chiaro intento di effettuare una sortita, Sevanch ordinò alle proprie truppe di schierarsi a battaglia. Dispose i lancieri in una grossa linea, alle cui spalle posizionò i vasti gruppi di arcieri, ordinando loro di traforare qualunque nemico arrivasse a tiro. Quindi montò sul proprio destriero, controllò un’ultima volta il filo della lama e attese.
Non dovette attendere molto, dato che Romano Diogene scatenò tutte le sue forze in un unico, massiccio attacco frontale: i soldati caricarono urlando e vennero accolti da una pioggia di letali frecce, che aprirono larghi buchi nei loro ranghi.



Tuttavia non bastò per bloccarne l’impeto e i due schieramenti vennero rapidamente a contatto, in un turbinare di lance, spade e sangue.



Romano Diogene attese che la mischia si fosse ben sviluppata, quindi si slanciò contro l’ala destra dello schieramento kipchaq e si aprì un varco a furia di fendenti. Sevanch vide la propria ala incurvarsi pericolosamente e ordinò di caricare per tappare la falla. Si accese una breve mischia fra i due avversari, ma presto Romano Diogene preferì disimpegnarsi. Sevanch dovette far violenza al suo sangue guerriero per non inseguirlo; ma sarebbe stato un errore potenzialmente mortale. Così tornò in posizione, conscio che avrebbe avuto un’altra occasione.
Intanto i lancieri kipchaq resistevano egregiamente, pur se la linea cominciava qua e là a mostrare qualche segno di stanchezza. Alle loro spalle gli arcieri continuavano a investire di frecce la controparte nemica, ormai ridotta a poche unità. La battaglia volgeva a favore dei kipchaq e Romano Diogene fu costretto a intervenire nuovamente con la propria guardia. Esattamente il momento che Sevanch stava aspettando: con un urlo tonante ordinò la carica e i suoi cavalieri irruppero nei ranghi nemici non protetti, seminandovi il panico e inducendo molti a cercare salvezza oltre le mura della città.



Romano Diogene cercò di arginare la paura dilagante nelle sue truppe, ma venne colpito mortalmente e stramazzò al suolo. Con la sua morte ogni resistenza venne meno e Sevench Terter-Oba poté entrare da trionfatore a Constanta. Aveva perso quasi un terzo delle proprie truppe, ma aveva ottenuto ciò che voleva: ora poteva presentarsi al suo khan con qualcosa di concreto da offrire come dono pacificatorio.



Ma l’attenzione del khan era in quel momento tutta rivolta da un’altra parte: nella primavera del 1157 Ituk Osen aveva lasciato Azaq alla testa di un vasto esercito – circa 10.000 uomini, di cui quasi 2.000 cavalieri – e aveva invaso il principato di Taman. Era un compito che non gli aggradava, ma si rendeva conto che essere un kipchaq voleva dire dover essere anche un guerriero e che quella era un’occasione che non poteva farsi sfuggire: doveva vincere o l’intero khanato l’avrebbe etichettato come una femminuccia, un essere indegno di essere un kipchaq, per di più nobile e con delle responsabilità di governo.
Igor Sviatoslavich era ben conscio che era quasi utopico pensare di restare indipendente a lungo, data la potenza delle nazioni vicine – kipchaq e georgiani – ma non per questo intendeva arrendersi senza combattere: se si voleva la sua pelle e la sua città, che si sputasse sangue. Aveva a disposizione un esercito composto in prevalenza da milizie cittadine, armate ora di lancia ora di arco, a cui affiancava la sua guardia personale e i corpi di kazaki che lo avevano fedelmente seguito nell’esilio da Kiev.
Ituk, desideroso quanto mai di chiudere alla svelta la faccenda e di tornarsene ad Azaq a occuparsi di problemi economici e di piani di sviluppo cittadino, optò per un attacco il più rapido possibile. Costruito un ariete e una buona quantità di scale ordinò l’assalto da due direttrici diverse, in modo da suddividere la resistenza avversaria. Questa tuttavia si rivelò assai più coriacea del previsto e tutti gli assalti con le scale vennero respinti nel sangue. Per fortuna, e seppur a prezzo di perdite elevatissime, gli uomini addetti all’ariete riuscirono a portarlo fin sotto le mura, in una zona parzialmente riparata dal letale e insistente tiro degli arcieri avversari. L’arretratezza delle difese di Tmutarakan impedì ai difensori di reagire efficacemente e una via d’accesso venne aperta.



Nel frattempo, l’altra direttrice d’attacco non aveva trovato miglior fortuna: anche qui gli attacchi con le scale erano riusciti a creare delle fragilissime teste di ponte immediatamente spazzate via al primo contrattacco, facilitato dall’arrivo in zona dei cavalleggeri kazaki. Che però, presi dall’entusiasmo, inseguirono i fanti in fuga, finendo nelle grinfie dei calarisi che, meglio equipaggiati per uno scontro corpo a corpo, ebbero rapidamente la meglio e ricacciarono in città i kazaki con ampie perdite.



Questi rientrarono giusto in tempo per vedere i dreg irrompere dalla porta ormai abbattuta. Tutti i difensori collassarono velocemente verso la ridotta difensiva, fatta innalzare nel cuore dell’insediamento. Questo li portò però ad ammassarsi in uno spazio stretto e a essere vittime delle frecce che i dreg scagliavano con generosità contro di loro. La mischia nel centro cittadino procedette per almeno un paio d’ore, ispirata dalla presenza carismatica di Igor Sviatoslavich; ma ormai la situazione del principato di Taman era irrimediabilmente compromessa.



E infine Ituk Osen poté festeggiare coi suoi uomini una vittoria pagata a caro prezzo: per sconfiggere i 5.000 difensori erano dovuti cadere altrettanti kipchaq.



La vittoria di Tmutarakan e la conseguente annessione dell’intero principato di Taman rappresentarono un trionfo importante per Shurakan, che pote guardare ai propri progetti con più calma. Come prima cosa egli decise magnanimamente di accettare le profferte di pace di Sevanch Terter-Oba , consigliato in tal senso dal fratello Konchak che, come diretto responsabile di tutti i territori occidentali del khanato, si rendeva conto dell’importanza economica e strategica del possesso della Dubrodza.
Poi il khan volse gli occhi sulla Crimea. L’assenza di una reazione romea all’occupazione della Dubrodza era una spinta forte ad allungare le mani su una regione teoricamente molto legata a Konstantinoupolis, ma che poteva non venire da questi adeguatamente sostenuta: dopotutto l’invio di una spedizione non avrebbe avuto altro esito che quello di deteriorare i rapporti fra Bisanzio e i Kipchaq, un’eventualità che per ora nessuno sembrava realmente voler contemplare. Così venne organizzata una spedizione veloce, un gruppo di razzia che inducesse il governatore di Cherson, Isacco Botoniate, a commettere l’errore di lasciare la sicurezza delle mura per cercare uno scontro campale. Il capitano Sharohan venne posto alla testa di 820 dreg, 840 cavalieri peceneghi e 840 calarisi, che invasero la Crimea da oriente, usando come base d’avvio la neo conquistata Tmutarakan e come base d’appoggio interno il castello fortificato di Sudak, prima conquista della spedizione.
Denotando una mente tutt’altro che acuta, Isacco Botoniate abboccò clamorosamente all’esca tesagli dai kipchaq e, nel corso di una battaglia senza storia e tutta basata sulla mobilità, venne pesantemente sconfitto. Cherson restò senza alcun genere di difesa e venne occupata dai kipchaq sul finire del 1158.




Frattanto da più parti si premeva affinché, dato che ormai si era padroni della Dubrodza, si consolidassero le posizioni raggiunte con l’occupazione di quanto restava delle lande bulgare, in particolare di quella città fortificata di Tirnovgrad che era la capitale e il rifugio del governatore filo bizantino dell’area, Demetrio Monoftalmo.
Sharukan, che a Sarkel continuava a selezionare truppe e equipaggiamenti per l’armata da scatenare contro l’Ossetia, chiese a riguardo consiglio al fratello Konchak, che nella duplice veste di erede e governatore delle lande occidentali era molto più addentro alla questione di lui. Konchak si pronunciò a favore di una spedizione contro Tirnovgrad, tanto più che le truppe del capitano Sharohan erano da poco arrivate a Constanta dopo la vittoriosa spedizione in Crimea.
Così nel 1159 questa piccola ma coriacea armata venne affidata a Sevanch Terter-Oba e scatenata contro i bulgari. Usando la stessa tattica che gli aveva permesso, tre anni prima, di sconfiggere il governatore di Constanta – ma con il vantaggio notevole di una maggior mobilità – Sevench Terter-Oba costrinse Demetrio Monoftalmo a compiere una pericolosa scelta: rinchiudersi in Tirnovgrad e sperare in un aiuto dai Romei oppure tentare la sorte del campo. Numero contro mobilità, arcieri bulgari contro cavalieri peceneghi: la scelta del Monoftalmo comportò questo genere di scontro, una battaglia in cui le truppe bulgare lottarono con strenuo coraggio ma in cui toccò ai comandanti far pendere da una parte o dall’altra l’ago della bilancia. Ma Demetrio Monoftalmo si trovò a dover fare i conti con un nemico rapido e sfuggente, mentre Sevench Terter-Oba poté con maggior facilità far valere la forza distruttiva delle cariche della propria guardia.




Il risultato finale fu la sconfitta dei bulgari e la caduta di Tirnovgrad in mano dei kipchaq.
[Modificato da frederick the great 21/06/2011 16:07]