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Sakartvelos Samepho

Ultimo Aggiornamento: 25/05/2013 16:35
29/04/2012 02:01
 
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feudal full n/n




Anno 1176, febbraio, palazzo reale di Tbilissi

“Guardate questa carta e ditemi cosa vedete.”

“Vedo il nostro regno, le sue molte città e la sua estensione, mio signore.”

“Io vedo ciò che il vostro governo ci ha portati ad essere, forti come mai lo siamo stati prima d’ora.”

Giorgi Bagration, mepe di Georgia, lasciò scorrere lo sguardo sui due uomini che avevano risposto. Erano personaggi molto potenti, membri di spicco delle due casate più forti del regno, uomini che lo servivano più perché egli era un re dalla grande autorità e dal notevole carisma che per un vero senso di fedeltà. Giorgi era ben conscio che tanto gli Abuletisdze quanto gli Orbeli ambivano ad occupare quel trono su cui lui sedeva da quasi vent’anni.

Ma Giorgi sapeva che nessuno dei due aveva ciò che serviva veramente per diventare un re, quelle risposte appena ricevute ne erano la prova inconfutabile. Quella carta - un prodotto dei monaci del monastero di Gelati e ricca di dettagli saputi da mercanti, emissari e altro genere di viaggiatori – mostrava effettivamente un regno di Georgia mai così potente né espanso. Ma mostrava anche i suoi vicini, i pericolosi nemici e gli infidi alleati. Mostrava la loro forza, la loro grandezza. Forse i due grandi nobili non si rendevano conto, ma Giorgi sì: il regno camminava su una lama, sbagliare una decisione ora poteva significare la distruzione di tutto.

“Guardate meglio”, consigliò loro il re, “e cercate di vedere la realtà, non solo quello che volete vedere.”

“Ma non è forse realtà, mio re, il fatto che siamo ora più forti di vent’anni fa, e di molto anche?”

“Certo che è vero. Ma siamo più forti di prima o siamo forti e basta? Questa è la domanda a cui dover rispondere.”

“I confini sono sicuri, le fortezze presidiate, le casse piene e abbiamo appena soggiogato l’Ossezia; direi che possiamo osare di ritenerci una potenza locale”, rispose Ivane Orbeli.

Giorgi Bagration lo fissò. Ivane Orbeli era il primogenito del principe reggente e occupava il posto di suo padre nel consiglio reale dato che questi era troppo malato per potersi dedicare alla conduzione dello stato. Ivane era un uomo abile e intelligente, piuttosto apprezzato dalle dame di corte per il suo bell’aspetto e i suoi modi garbati; ma era una persona potenzialmente molto pericolosa. In quanto prossimo capo della casata Orbeli era detentore di un potere non indifferente, a cui si andava ad aggiungere il fatto che fosse figlio dell’erede al trono, per quanto questa eredità diventasse giorno dopo giorno una chimera. Era un uomo del cui appoggio Giorgi aveva bisogno, per quanto non sempre il suo giudizio riuscisse a cogliere tutte le sfumature di una questione.

“Il tuo ragionamento, Ivane, è buono ma si perde per via alcune considerazioni piuttosto importanti. Attiro nuovamente la vostra attenzione sulla carta e sulla situazione di questo nostro angolo di mondo. In venti anni abbiamo esteso la nostra influenza diretta all’Armenia e ne abbiamo occupato il centro strategico, la roccaforte di Ani. Abbiamo riportato sotto il nostro controllo la città di Ganja, che da troppo tempo si atteggiava a indipendente. Inoltre abbiamo occupato la città portuale di Tmutarakan e, roba di pochi mesi orsono, sconfitto gli Osseti e il nostro vessillo sventola su Maghas.

Il nostro tesoro, per quanto molto ben fornito – secondo le ultime stime abbiamo oltre 70.000 bisanti – ha subito un brusco calo negli ultimi tempi, la campagna contro l’Ossezia ci è costata ben più di quanto preventivato. E a livello militare disponiamo di una forte guarnigione ad Ani e di un esercito che potremmo definire campale a Kutaisi. Il resto sono mere guarnigioni di non eccelso livello. E i nostri vicini come sono messi?”



Il re non attese una risposta e proseguì: “A settentrione ci sono i nostri alleati Kipchaq. Le nostre spie riferiscono dei dati molto inquietanti su di loro, su come parecchi capiclan ritengano che il khan non avrebbe dovuto stipulare alleanza con gente che può facilmente essere sottomessa. Non penso che troverebbero troppo facile il sottometterci, ma di certo hanno il potere per farlo. Immagino avrete saputo delle folgoranti campagne che stanno conducendo nelle steppe, hanno occupato in pochi anni la roccaforte di Peryaslav e la città di Kiev. E ora pare siano arrivati fino a Ryazan, nel nord delle steppe.

A sud abbiamo altri alleati, quel califfo abbaside che sta puntando a tornare potente come lo erano i suoi padri. Ha iniziato una guerra contro gli Zenghidi di Siria e, per quanto per ora non abbia ottenuto trionfi militari degni di tal nome, il nostro ambasciatore a Baghdad mi riferisce che le armate del Califfato sono numerose come la sabbia del deserto nel quale marciano e che i mamelucchi, spina dorsale dell’esercito, sono guerrieri ben addestrati e temibili.

A occidente ci sono il sultanato selgiuchide di Rum e l’Impero dei Romei, impegnati in una sanguinosa tenzone. Sulla natura subdola e infida dei Romei non mi dilungherò oltre, sappiamo bene in quale modo abbiano fatto fallire la nostra campagna in Bulgaria e come solo un colpo di fortuna e audacia ci abbia permesso di concludere quel trattato che ora ci lega al Califfato. Sono un nemico astuto e temibile, doppiogiochista e pericoloso. Eppure i turchi stanno tenendo loro testa egregiamente, anzi hanno pure occupato Trapezous.

Questa è la verità, miei signori: siamo un regno piccolo e arroccato, uno stato di cui gli altri si curano a malapena e che non reputano pericoloso. Ora come ora c’è chi dice che noi non si sia neppure in grado di riportare sotto il nostro controllo la libera città di Darbend.”

“Possiamo schiacciare Darbend come e quando vogliamo”, intervenne Dzagan Abuletisdze, governatore dell’Armenia e gran maestro dell’Ordine Tadzreuli, in tono irato. “Anzi, sarebbe ora di farlo!”

“Effettivamente, maestà, la nobiltà del regno scalpita affinché voi completiate l’opera e riportiate sotto il nostro giusto controllo questa città commerciale…”, disse in tono quieto il rappresentante della corporazione mercantile.

“Capisco perfettamente che i giovani vogliano una guerra ove trovare gloria e in cui compiere grandi imprese, ma non posso gettare al vento le vite dei nostri soldati per una cosa così insignificante come Darbend”, replicò il sovrano. “Se una guerra deve essere fatta, che sia una guerra che ci porti a nuova forza e ricchezza.”

“E lasciare ai Kipchaq le ricchezze di Darbend? E’ terminale di vie carovaniere di una certa importanza, maestà”, fece notare il mercante.
Giorgi rise. “Avremo ben altro che le ricchezze di Darbend, mio caro!”

“Ho quasi paura a chiederlo, ma non è che….”, incominciò dubbioso Ivane Orbeli

“Cosa?”, gli chiese il re. Ivane fissò la carta.

“…non vorrete per caso colpire al cuore i Romei, mi auguro. Ritengo che vediate il nostro regno meno forte di quel che è realmente, ma so anch’io che non siamo in grado di sfidare i romei né di reggere la collera del loro sovrano.”

“Non sono i romei l’obbiettivo, almeno non il principale né l’immediato”, replicò il re. “No, signori, noi colpiremo i selghiuchidi di Rum!”

Espressioni basite si dipinsero sui volti dei presenti, occhiate stranite vennero scambiate prima che, timidamente, qualcuno provasse a esprimere le proprie perplessità. La discussione non era però che appena incominciata quando le porte della sala si spalancarono e lasciarono entrare il giovane figlio del re. Per essere l’uomo che avrebbe dovuto guidare il regno negli anni futuri, il principe Oshin Bagration aveva tutto fuorché l’aspetto di un guerriero di sangue reale. Dai lineamenti bruttini e grezzi, basso di statura, il principe aveva un’andatura dondolante, più adeguata a un giullare che a un futuro cavaliere. Eppure, nel guardarlo, Giorgi si sentì fiero di suo figlio e dell’intelligenza che Dio gli aveva donato, pur a scapito della bellezza fisica.

“Padre, miei signori”, salutò il giovane. “Vedo che hai già esposto loro il progetto”, commentò notando le espressioni dei presenti.

“Solo in parte. E, anzi, credo che dovresti essere tu a spiegare loro perché e come. Dopotutto hai contribuito.”

Il principe accettò con un sorriso sghembo l’invito paterno e si appropinquò alla carta, sempre distesa sul tavolo del consiglio. “Come ben sapete il sultanato di Rum sta combattendo contro i Romei. Le ultime notizie dicono che le armate imperiali sono entrate a Konya e che per ora i turchi non sembrano in grado di recuperare la propria capitale. Tuttavia reggono egregiamente e diverse voci attribuiscono ciò al chiaro volere di Allah, tant’è vero che ben tre rappresentanti della casata Paleologa sono deceduti improvvisamente.

Ovviamente la mano di Allah non c’entra affatto o, quantomeno, ha guidato splendidamente quella del nostro inviato. Contiamo che questi atti “oscuri” creino un po’ di scompiglio fra le file romee e diano modo ai turchi di attaccare con maggior vigore.”

“Perché abbiamo aiutato chi intendiamo colpire?”, domandò Dzagan Abuletisdze. “Non sarebbe stato meglio colpire i Turchi?”

“Non direi. Così facendo i turchi sposteranno ulteriormente la propria forza e attenzione verso occidente, lasciando solo pochi soldati ai confini orientali. E noi potremo facilmente colpire.” Il principe fece una pausa per assicurarsi che tutti avessero compreso. “Dove dovremmo attaccare, a vostro giudizio?”

“Trabzon”, rispose subito Ivane Orbeli. “Non possiamo permetterci di avere una roccaforte nemica così vicino. Se guerra coi turchi deve essere lì è dove dobbiamo colpire.”

“Eccellente intuizione”, approvò Giorgi. “Penso che ogni georgiano voglia vivere una seconda Didgori, ma questa volta un po’ meno vicino a casa. E poi?”

“Malatya? E’ una vallata piuttosto fertile, con una città che rappresenta un passaggio obbligato per molte carovane.”

“Passabile idea, ma aprirebbe un fronte con la città di Edessa, che le ultime notizie danno occupata dai crociati provenienti dalla lontana Germania. Inoltre la perdita di Malatya non credo rappresenterebbe per i turchi una catastrofe e noi vogliamo colpirli il più duramente e il più profondamente possibile.”

“E dove, allora?”

Il principe puntò il dito sulla carta: “Qui”, disse.

“Kayseri? Ma è una fortezza vasta e molto ben difesa…”

“Kaysareia non è una fortezza vasta e molto ben difesa, Kaysareia è il cuore pulsante della macchina bellica turca ed è il luogo strategicamente più rilevante di tutta l’Anatolia. Con quella rocca in nostro possesso potremmo minacciare ogni landa ancora in mano turca e, cosa non irrilevante, le mura di Kaysareia non temono, se ben difese, nulla e nessuno, nemmeno le armate di Costantinopoli.”

Ivane Orbeli guardò il giovane principe per un lungo istante prima di spostare lo sguardo su Giorgi. “Maestà, ora capisco che mi ero sbagliato. Pensavo voleste fortificare le nostre posizioni, invece avete una visione ben più vasta e illuminata. Quando intendete cominciare le operazioni?”

“Il prima possibile, dobbiamo agire finché nessuno sospetta le nostre intenzioni. Voi, Dzagan, tornate a Ani e assicuratevi che le difese siano al meglio, potreste ricevere visite non gradite. E voi, Ivane, a voi affido il compito di sferrare il primo affondo. Prendete il comando dell’esercito e marciate su Trabzon.”

I due nobili si inchinarono rispettosamente e lasciarono la sala. Giorgi attese che tutti fossero usciti, quindi si volse verso il figlio. “Sei veramente sicuro che tutto andrà come previsto, Oshin? Non stiamo sottovalutando la capacità di reazione dei Selgiuchidi?”

“Ovviamente, padre. I turchi sono guerrieri coraggiosi e difficili da sconfiggere, lotteranno fino all’ultimo e cercheranno in tutti i modi di ricacciarci da dove siamo venuti, se daremo loro il tempo di prepararsi”, rispose il principe. “Ma non lo avranno, il tempo.”

Fuori, un rombo sommesso e distante annunciò l’avvicinarsi di un temporale. I venti della guerra spiravano in Goergia.
29/04/2012 10:47
 
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Primo a leggerla! Molto bella.
29/04/2012 10:57
 
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non vedo l'ora di leggere il rapporto della spedizione
29/04/2012 12:07
 
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Bella cronaca! spero che diventi grandiosacome la renovatio imperi [SM=x1140491]
29/04/2012 12:07
 
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Scusate per il doppio post..
[Modificato da Gaio Mario1 29/04/2012 12:08]
29/04/2012 12:13
 
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Fred è sempre un piacere leggere le tue AAR ;)


29/04/2012 13:26
 
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Molto bello.
Sto facendo anche io una campagna con la Georgia, e ho dovuto compiere lo stesso passo decisivo nell'aggressione ai Turchi, anche se nel mio caso è stato un assalto frontale a Melitene, Amaseia e Cesarea nel giro di tre turni.
Preparatevi perchè i Turchi sanno essere più rognosi dei Romei, ne vedremo delle belle :)

29/04/2012 13:55
 
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mi ricorda la prima campagna che ho fatto con i georgiani, anche se me l'ero presa con moooolta più calma.
ottima aar comunque.
29/04/2012 17:18
 
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Anno 1179, Trabzon

Le mura della roccaforte di Trabzon s’innalzavano poderose verso il cielo. Erano difese capaci di resistere a lunghi assedi, un cerchio di pietra a protezione di un abitato che poteva ospitare una guarnigione forte e capace.

Ma non quel giorno.

Mentre le osservava, Ivane Orbeli ripensò al giovane p’rintsi Oshin e a come aveva spiegato con chiarezza un piano in cui un errore o un ritardo poteva comportare il generarsi di una situazione molto pericolosa. Non poteva negare a sé stesso che per un periodo della sua vita aveva sperato che Giorgi Bagration morisse prematuramente e che la corona passasse alla sua casata, rendendolo non più il figlio primogenito del reggente, ma il p’rintsi di Georgia a tutti gli effetti. Ma le cose erano andate in modo diverso e Ivane ora si trovava lì, davanti alle mura di Trabzon, alla guida di un esercito, per cominciare una guerra dalle cui sorti dipendeva il destino del regno.

Le forze messegli a disposizione erano quanto di meglio potesse offrire il regno in quel momento: battaglioni di kontophoroi, due compagnie di arcieri della guardia, quattro squadroni di egriseli e due di eristavi. Più i suoi oikeioi personali, soldati nei quali riponeva la massima fiducia e coi quali aveva già compiuto campagne militari nella penisola di Taman contro gruppi di banditi e ribelli.



Sulle mura, in lontananza, si intravedevano i vessilli della guarnigione selgiuchide che, secondo le stime, si componeva di un corpo di sharqiyyun, un’accozzaglia di romei venduti al nemico e armati di giavellotti e di un battaglione di ghilman, l’elite militare del sultanato di Rum. Una forza decisamente insufficiente a fermare il suo esercito, esattamente come Oshin Bagration aveva previsto: il sultanato aveva la sua potenza militare dispiegata a ovest, contro i romei, e il fronte orientale era del tutto sguarnito.

Il portastendardo della sua guardia, veterano di molti scontri, attirò la sua attenzione sul corpo di guardia della porta orientale di Trabzon: una luce si muoveva. Ivane Orbeli si lasciò sfuggire un sorriso, consapevole di ciò che quel segnale significava: le spie avevano avuto successo, i cancelli sarebbero stati spalancati non appena egli avesse dato l’ordine di avanzare. Chiamò a sé il comandante degli egriseli.



“Vi ricordate esattamente cosa fare, vero?”

“Avanzare il più rapidamente possibile, prendere il controllo dei cancelli e inondare di frecce eventuali difensori. Se poi non incontro resistenza, proseguire fino al cuore della rocca e impossessarsene.”

“Molto bene. Aspettate ancora alcuni minuti, quindi eseguite.” Ivane fece cenno ai due squadroni di eristavi di seguirlo e quindi condusse i suoi oikeioi verso ovest, verso l’altro ingresso. Era tempo di dare inizio alle danze.

Mentre cavalcava teneva d’occhio i movimenti dei turchi e a un certo punto vide molta agitazione sulle mura, chiaro segno che gli egriseli avevano cominciato l’attacco.



Diede di sprone. Poteva arrivare a tagliare la via ai difensori, attaccandoli nella peggior posizione possibile da difendere.

Poi l’imponente cancello si profilò davanti a loro, già mezzo sollevato. Ivane Orbeli fece suonare il corno e comandò l’avanzata veloce, passando parola agli eristavi di puntare risolutamente il centro di Trabzon appena entrati. Egli, invece, guidò i suoi oikeioi a caccia del nemico.

I Turchi, già in situazione difficile a causa della sproporzione numerica, avevano accolto la notizia che i cancelli erano in possesso di spie georgiane con un’ondata di panico e ora, incerti sul da farsi, stavano ripiegando confusamente verso il maschio della fortezza, cercando rifugio nella sua ombra.

Ma non vi era riparo per loro in Trabzon, ormai. Ivane Orbeli li colse completamente allo scoperto e ordinò immediatamente di caricarli. L’impatto fu violentissimo e infranse ben più che scudi e armature: il morale dei turchi si dissolse e il ripiegamento si trasformò subito in una fuga disperata verso una sicurezza che non c’era più. Unici a provare un’ultima, disperata resistenza furono i ghilman, i cui ranghi erano però ormai spezzati e che furono sterminati fino all’ultimo dagli oikeioi di Ivane.



Quando anche l’ultimo ghilman cadde al suolo Ivane Orbeli passò la propria spada all’attendente affinché la ripulisse e si guardò attorno. Il terreno era costellato da cadaveri turchi e solo pochissimi georgiani spiccavano fra loro. In lontananza, sulla cima della torre più alta, il vessillo selgiuchide non sventolava più, sostituito dalla croce rossa in campo bianco della Georgia.

Il primo colpo era stato sferrato e si era rivelato un successo completo. Ora bisognava continuare e colpire ancora prima che il nemico avesse tempo di riprendersi. Ma questo era un compito che spettava a Oshin Bagration.
29/04/2012 17:29
 
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non vedo l'ora di vedere come farai a prendere Kayseri
29/04/2012 18:18
 
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molto bella! E molto evocativa la prima parte nel consiglio di guerra!!!




30/04/2012 09:02
 
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Frederick the great, non ho parole per descrivere la meraviglia che continui a scrivere; che si tratti di romei o altri non sbagli una virgola nella tua cronaca.
Le mie congratulazioni a un grande del forum.

[SM=x1140430] [SM=x1140441] [SM=x1140522]
[Modificato da Basilio II Komnenos 30/04/2012 09:03]

Nullum magnum ingenium mixtura demientiae - Non c'è mai grande ingegno senza una vena di follia
Trahit sua quemque voluptas - Ognuno è attratto da ciò che gli piace (Virgilio)
Tanti est exercitus, quanti imperator - Di tanto valore è l'esercito, di quanto il suo condottiero


30/04/2012 12:25
 
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Anno 1182, da qualche parte nell’Egeo

L’aria salmastra pizzicava le narici di Erets Orbeli, ma la cosa lo lasciava indifferente. Cresciuto a Sokhumi dove suo nonno era stato governatore, Erets era abituato al mare, era una parte di lui ormai. Attorno l’equipaggio compiva alacremente il proprio lavoro e faceva viaggiare tranquilla la grossa e tozza nave.

Avevano già incontrato un paio di volte galee che battevano bandiera bizantina, ma in entrambi i casi erano stati completamente ignorati. Del resto, perché mai i solerti capitani del basileus avrebbero dovuto interessarsi a loro? Non innalzavano altra bandiera che la croce di San Giorgio delle navi genovesi, come ogni nave mercantile appartenente a quella lontana repubblica; e, in effetti, quella era una nave genovese. Apparteneva a un ricchissimo mercante, che ovviamente viveva nel fasto da qualche parte in Italia; Erets non ne era sicuro, ma gli pareva che fosse un membro del casato d’Oria. Per un istante si chiese cosa avrebbe pensato costui se avesse saputo che il capitano a cui aveva affidato il suo legno lo stava usando per scopi ben diversi da quelli per i quali era stato costruito. Probabilmente non avrebbe apprezzato, pensò.

Una raffica di vento improvvisa mandò un’onda a infrangersi contro la murata e dalla stiva proruppe un nitrito di protesta, subito seguito da un altro. I cavalli da guerra non apprezzavano la lontananza dalla terraferma. Poi tornò la quiete e Erets decise che era tempo di ridiscendere in cabina, dove lo attendeva il rapporto per il suo principe.

Trovò la pergamena dove l’aveva lasciata, sul tavolo di legno grezzo della cabina. Sulle prime il capitano aveva nicchiato all’idea di dover cedere la sua cabina, ma una correzione al rialzo alla somma pattuita per il trasporto lo avevano convinto che poteva essere una buona idea. Non che Erets apprezzasse troppo quel piccolo vano: sentiva acutamente la mancanza di un letto come Dio comandava e di tutte quelle comodità a cui era abituato. Ma si consolava all’idea che, tempo e bizantini permettendo, in un paio di settimane avrebbe raggiunto la Chaldia, terra georgiana. Prese in mano la relazione e iniziò a rileggerla.

Rapporto sull’operazione, all’attenzione del p’rintisi Oshin Bagration

Secondo gli ordini di Vostra Grazia siamo salpati dal porto di Trapezous a bordo di una galea mercantile genovese. Il capitano del vascello ha accettato di condurci a destinazione e poi di riportarci indietro al prezzo di 5000 bisanti aurei. Con me si sono imbarcati i miei oikeioi, una compagnia di arcieri e una di guerrieri khevsur.
Dopo una decina di giorni di navigazione siamo arrivati in vista della capitale romea e abbiamo superato tutti i controlli senza difficoltà. La bandiera di Genova ci ha protetto egregiamente e siamo entrati nell’Egeo. Abbiamo quindi fatto rotta per il sud, verso la ricca isola di Krete, secondo ordini.

A Krete abbiamo trovato una forte agitazione e in breve siamo venuti a sapere che pirati moreschi erano stati avvistati nell’area e che, proprio pochi giorni prima, avevano razziato alcuni villaggi nella parte orientale dell’isola. Questo aveva portato il governatore romeo a intensificare i pattugliamenti e a organizzare una chiamata generale alle armi, in modo da far levitare il numero di uomini da poter opporre ai pirati.

Ovviamente la situazione era ben diversa da quella che mi aspettavo e, in considerazione della forze in mio possesso e dell’importanza della missione affidatami, ho preso la decisione di non fare alcun tentativo. Ho pertanto convinto il capitano genovese a riprendere quanto prima il mare e a dirigersi verso nord-ovest, verso la Grecia. Le informazioni reperite nelle taverne di Chandax davano l’area di Athenai molto sguarnita e si sono rivelate veritiere.

La città era difesa da una forza inferiore, con una compagnia di akritai e le guardie del governatore come unico baluardo. Pertanto ho deciso di colpire e ho fatto sbarcare le truppe e gli equipaggiamenti.
Il governatore bizantino, della famiglia dei Contostefano, si è barricato e ha inviato staffette alla roccaforte di Naupaktos, per ricevere rinforzi. Sono state lasciate andare, preferendo concentrarsi sulle mosse necessarie a un attacco veloce e vittorioso.
Con poche scale come unico strumento d’ingresso, ho ordinato l’attacco in una mattina soleggiata. I toxotai avanzavano verso una parte delle mura, i khevsur verso un’altra sezione. Gli akritai bizantini hanno cercato di bloccare le due avanzate, ma alla fine i khevsur hanno potuto scalare le mura indisturbati. Hanno quindi raggiunto gli akritai e li hanno impegnati in un breve corpo a corpo, chiusosi con la conquista delle mura. Anche i toxotai hanno contribuito, bersagliando gli akritai dal basso.



In tutto questo tempo il Contostefano è rimasto arroccato nel suo palazzo, da codardo quale certamente era. L’ho affrontato in una delle vie laterali, facendolo attaccare alle spalle dai khevsur e esponendolo al tiro dei toxotai. I suoi uomini hanno combattuto con coraggio e onore, ma alla fine hanno dovuto arrendersi e consegnarci la città.

Come da ordini la città è stata sottoposta a saccheggio e è stato ottenuto dai cittadini un giuramento di fedeltà al khan dei Kipchaq. Quanto questo verrà mantenuto non saprei dirlo, abbiamo lasciato l’insediamento nelle mani di pochi mercenari di basso livello reclutati come da istruzioni.

Tutto quanto poteva essere caricato sulla nave è stato stivato nella sua capiente pancia e, dopo aver pagato il capitano con parte del bottino, abbiamo ripreso il mare diretti verso casa.

In fede

Erets Orbeli


Soddisfatto, arrotolò la pergamena e la sigillò con della cera calda, apponendovi poi il simbolo degli Orbeli. Quel documento era la testimonianza che i romei avevano compiuto un errore a sfidare il mepe e la Georgia. Avevano subdolamente colpito le forze georgiane anni prima in Bulgaria, costringendole a sloggiare e mettendo il mepe in una situazione molto complicata. Ora avevano avuto quanto si erano meritati. O almeno l’antipasto.
30/04/2012 12:47
 
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Bella cronaca Frederick, ma sembra che hai omesso dei particolari, per esempio abbiamo solo un accenno sulla cacciata dei Georgiani dalla Bulgaria e cosa significa che i cittadini hanno prestato fedeltà al Khan dei Kipchaq?
30/04/2012 17:26
 
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Re:
LordFerro, 30/04/2012 12.47:

Bella cronaca Frederick, ma sembra che hai omesso dei particolari, per esempio abbiamo solo un accenno sulla cacciata dei Georgiani dalla Bulgaria e cosa significa che i cittadini hanno prestato fedeltà al Khan dei Kipchaq?




In effetti sono cose un po' oscure...però non sono omissioni casuali, volontariamente sto narrando la campagna a punti di vista, ci sono cose che non verranno dette se non di sfuggita. le due questioni che mi chiedi significano quanto segue:

- attorno al turno 26 ho assediato Constanta per prenderla e girarla poi agli abbasidi in cambio dell'alleanza; esattamente nel turno in cui l'avrei conquistata per fame i bizantini (che agiscono poco prima dei ribelli), mi hanno attaccato con una doppia full e io, avendo solamente un generale e un'unità di alani mercenari, son stato costretto a lasciar perdere [SM=g27979]

- il prestare fedeltà ai Kipchaq è un modo forbito per dire che, dopo averla rasa al suolo, ho regalato Athenai ai Kipchaq - le relazioni erano calate a 6/10 e non avevo soldi da spendere in tributi. Inoltre Bisanzio era mia nemica, per cui... [SM=g27980]
30/04/2012 19:37
 
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grazie di questo fuoriprogramma, chiaramente sapevo che non erano omissioni casuali, ma senza quelle informazioni non riuscivo a capire bene la situazione.
Comunque non vedo l'ora di capire come farai dai tuoi territori a spostare l'armata nel cuore del regno turco senza avere nessuno che ti intracci.
01/05/2012 18:06
 
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Anno 1182, palazzo del governatore di Amasya

Amasya era una città commercialmente abbastanza rilevante all’interno del sultanato selgiuchide di Rum, ma non ne era certo il cuore. Era piccola e distante dai veri centri del potere, tanto che i nobili turchi consideravano di poco valore esserne nominati governatori. Il malcapitato poi faceva di tutto per occuparsene il meno possibile, passando le sue giornate nelle tenute circostanti o in battute di caccia. Timutburgha Kutalmish aveva semplicemente fatto ciò che i suoi predecessori avevano compiuto prima di lui. Solo che la fortuna decisamente non lo aveva appoggiato.

Le stanze riservate al governatore in quello che veniva pomposamente chiamato palazzo erano rischiarate da pochi lumi, piccole fonti di luce in una città addormentata e ancora scossa dagli avvenimenti della giornata. Non che Oshin Bagration, intento a scrivere un rapporto per suo padre il mepe, potesse dar torto ai cittadini di Amasya.

Le sue truppe erano comparse davanti alle mura troppo repentinamente per dar tempo e modo di lanciare l’allarme e far convergere truppe.
Quel poco che c’era in città, principalmente artukogullari, avevano dovuto tentare una difesa disperata fin da subito, contro forze che erano dieci volte superiori tanto in numero quanto in qualità.



Oshin aveva attaccato da tre lati diversi in contemporanea, con arieti e scale, certo che il nemico non sarebbe riuscito a presidiare tutti punti semplicemente perché non aveva abbastanza uomini.



E infatti i kontophoroi avevano spinto i pesanti arieti fino alle porte del tutto indisturbati, aprendo poi un varco per il fiume inarrestabile di commilitoni.





Oshin in persona aveva guidato i suoi oikeioi a compiere l’ultima parte del lavoro, chiudendo la questione con pochi e ben assestati colpi di spada. Amasya era caduta in meno di un’ora, un tempo talmente breve che molti cittadini non avevano ancora compreso bene cosa stava accadendo quando il tutto era finito.



Le truppe georgiane forse si erano aspettate libertà di saccheggio, ma Oshin Bagration aveva dato espliciti ordini ai suoi sottoposti: nessuna violenza sugli inermi, nessun esproprio, nessun saccheggio. Chi fosse stato colto a compiere ruberie era punibile di morte immediata tramite decapitazione.

E così ad Amaseia era stato risparmiato il saccheggio. I vari battaglioni erano stati acquartierati e il p’rintsi aveva guidato personalmente la propria cavalleria – oikeioi, due squadroni di eristavi e quattro di egriseli – a intercettare Timutburgha Kutalmish, che stava rientrando dalla sua battuta di caccia ignaro di quanto accaduto. E che, una volta intercettato, aveva avuto la poco brillante idea di rifiutare la resa e di lanciarsi all’attacco. Il suo cadavere testimoniava quanto avesse errato nel suo giudizio.





Un movimento alle sue spalle indusse Oshin ad accantonare rapporti e lettere e a concentrare l’attenzione sulla persona con lui nella stanza. Quando aveva proposto a suo padre quel passo, Giorgi Bagration si era mostrato quanto mai dubbioso, quasi contrario, e aveva cercato in tutti i modi di fargli cambiare parere, di farlo riflettere sulle possibili conseguenze che questo avrebbe potuto avere sulla sua ascesa al trono, un giorno. Ma Oshin aveva ribattuto argomento su argomento e alla fine Giorgi aveva ceduto. Un ambasciatore era stato inviato a Baghdad, alla corte del Califfo, affinché presentasse la proposta.

Il risultato era lì, a pochi passi da lui.



Khatun Abbasiyyun, figlia del Califfo, avvolta nelle sue vesti nere. Oshin aveva la netta impressione che il Califfo avesse accettato non tanto per vero beneficio quanto perché la cosa l’aveva divertito. E il fatto che Khatun avesse venticinque anni, ben sette anni più di Oshin, era un evidente segno che il sovrano abbaside non aveva dato il meglio al suo alleato georgiano.

Ma la cosa non lo preoccupava più di tanto, così come non lo interessavano i pensieri di suo padre riguardo all’essere l’erede al trono con una moglie islamica; i nobili di Georgia avrebbero giurato fedeltà al distruttore dei Turchi, qualunque fosse la fede della moglie.

Si alzò e raggiunse la moglie, circondandole con un braccio la vita e attirandola a sé. Erano praticamente alti uguali, notò ancora una volta. Sentì Khatun irrigidirsi, aveva una natura molto schiva e le riusciva innaturale ancora adesso, a quasi un anno dal matrimonio, mostrare il proprio viso di sua iniziativa. O forse il tutto derivava dal fatto che Oshin era brutto e che ella avrebbe desiderato un marito più aitante e bello.

“Ho come l’impressione di spaventarti, Khatun”, mormorò Oshin.

“Non avete motivo di avere questa impressione, mio signore”, replicò lei in un flebile sussurro.

“Ma sono certo che sognavi qualcuno di ben diverso da me. O sbaglio?”. Oshin la fece ruotare fra le sue braccia in modo da poterla guardare negli occhi.

“Ho smesso di sognare molto tempo fa, mio signore”, replicò Khatun distogliendo immediatamente lo sguardo. Per un lungo istante il silenzio calò nella stanza, rotto solamente dal crepitare della fiamma. Oshin non disse nulla, si era ormai abituato al fatto che sua moglie ogni tanto dicesse cose che rispecchiavano brandelli di un passato che non pareva pronta a condividere. “Sapete chi è Nur ad-Din, mio signore?”, domandò infine Khatun.

“E’ difficile vivere in questi tempi e ignorare l’atabeg zenghide”, rispose Oshin fissandola. Che stesse per arrivare una rivelazione?

“Io dovevo sposarne il figlio, mio padre me lo annunciò anni fa. Dovevo essere lo strumento di un’alleanza che avrebbe scacciato qualunque infedele da queste lande. Invece, quando ormai tutto era pronto, Nur ad-Din cambiò idea e fece sbrigativamente sapere che la cosa finiva lì. A me i motivi non sono mai stati spiegati, ricordo solo che da quel giorno mio padre non l’ho praticamente mai più visto e che le altre donne dell’harem mi etichettavano come la Rifiutata.” Khatun fece una pausa, quasi a voler attingere al proprio coraggio per andare avanti nella narrazione. “Il tempo è passato e io non sono più stata scelta per nessuno, c’era sempre qualche sorellastra più giovane da offrire per suggellare questa o quell’alleanza. Ormai ero certa che il mio destino fosse quella di finire nella tenda di qualche emiro decrepito. Quindi, sì mio signore, sognavo qualcuno diverso da voi, ma si trattava di incubi.”

“In effetti spero di essere un filo meglio di un vecchio emiro decrepito”, rise Oshin, “e fidati quando ti dico che, per quanto tu abbia dovuto aspettare a lungo, alla fine il destino ti è stato amico. Da quanto so l’atabeg non se la passa benissimo mentre noi siamo in ascesa. Sarai regina di uno stato forte, non di uno moribondo.”

Khatun sorrise e gli si appoggiò contro. Oshin stava pensando che era tempo di mettere in cantiere un erede, quando qualcuno bussò discretamente alla porta. “Torno subito” sussurrò alla moglie.

Alla porta, in attesa, c’era un ufficiale. “Vostra Altezza”, lo salutò, “vi informo che il nobile Erets Orbeli è appena arrivato in città.”

Oshin annuì e diede ordine che fosse acquartierato assieme ai suoi uomini. Gli affari di stato bussavano incessanti, pensò. Ma avrebbero atteso il giorno dopo, per quella notte voleva solamente stare con sua moglie.
01/05/2012 19:59
 
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Frederick datti alla scrittura, se pubblichi un libro vendi più di fabio volo LOL. [SM=x1140522]
[Modificato da Xephos 01/05/2012 19:59]
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01/05/2012 21:57
 
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Oshin stava pensando che era tempo di mettere in cantiere un erede, quando qualcuno bussò discretamente alla porta. “Torno subito” sussurrò alla moglie.



NOOOO!!! Proprio sul più bello

[SM=x1140476]
01/05/2012 23:06
 
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