Anno 1199
Oshin Bagration colse l’occasione al volo: affondò la lama in profondità nel petto scoperto del suo avversario e percepì distintamente la vita che se ne andava. Ritirò la spada con un gesto secco e fece scartare il cavallo, evitando che il corpo di Berke, wali dei Selgiuchidi, gli rovinasse addosso.
Non ebbe bisogno di guardarsi attorno per sapere che l’esercito nemico si stava ritirando disordinatamente, tallonato dai suoi soldati. Ma c’era ancora molto da fare, ne era conscio. Aveva schiacciato come un serpente un’armata turca, ma la campagna era solamente all’inizio.
“Poche cariche ben indirizzate e un sapiente uso degli arcieri a cavallo, ecco in sintesi come sono andate le cose”, riferì Ivane Orbeli al consiglio di guerra. Il vecchio guerriero ormai si era completamente incanutito, ma l’età era ben lungi dal prendere il sopravvento; era ancora una mente acuta e un aiuto insostituibile per Oshin.
“Perdite?”
“Molto contenute”, rispose Erets Orbeli con la sua solita aria compiaciuta. Gli anni passavano anche per lui, ma sembrava sempre un ragazzo smanioso di ottenere nuove vittorie e di menare le mani. “Praticamente nessun contingente è sottodimensionato, sono tutti pronti per la seconda fase.”
“Eccellente. Gli esploratori hanno riferito cosa combinano le altre armate nemiche?”
“Sì, mio signore.” A rispondere questa volta era stato Vassak, il più giovane dei figli di Ivane. Alto e biondo, famoso a corte per la sua passione per le belle donne, Vassak rappresentava un po’ la pecora nera della potente casata Orbeli. All’inizio si era cercato di farlo diventare un governatore, ma ben presto ci si era resi conto che sperperava senza troppo pensare e questo le casse del regno non potevano sostenerlo. Contemporaneamente compiti militari rilevanti non ve n’erano, i posti chiave erano in mano a persone ben più qualificate. Perfino la carica di ammiraglio era già occupata, per di più da uno dei suoi fratelli, Hetoum.
Così, dopo anni passati a oziare a Trapezous sul mar Nero, Oshin aveva deciso che era tempo che Vassak facesse qualcosa di utile per il regno e l’aveva precettato per la campagna di quell’anno. E per ora si stava comportando decentemente.
“E?”
“Un’armata è in marcia verso di noi, gli esploratori stimano che non sia a più di 15 leghe. L’altra si trova decisamente più a nord, praticamente ai confini con la regione di Amaseia.”
“Pertanto possiamo per ora lasciarla perdere. Voglio tutti pronti a muovere un’ora dopo l’alba. Ivane, voi assumerete il comando dell’ala sinistra, con musellem e egriseli. Erets, a voi il comando dei monaspa e del centro, abbiatene cura. Vassak, voi invece prenderete il comando degli eristavi e occuperete l’ala destra. Domande? Allora buon riposo e che Dio sia con voi domani.”
Usciti i generali, Oshin comandò che chiamassero il suo attendente. Questi arrivò poco dopo e si fermò praticamente sulla soglia, restando in attesa a capo chino. Oshin rimase a fissarlo a lungo. “Non startene lì impalato, entra”, disse poi.
L’uomo mosse alcuni passi. “Cosa desiderate, mio signore?”
“Parlare. E quale miglior compagno di discorsi di uno che si è destreggiato per anni nell’infida corte romea?”
“Quell’uomo è morto da anni.”
“Mi sembri in salute per essere un cadavere”, rise Oshin. “Quant’è, cinque anni?”
“Cinque anni, tre mesi e sedici giorni. Mio signore.”
“E non hai mai nostalgia, non pensi mai di aver commesso un errore? Oggi sarai anche l’attendente di un re, ma ieri eri un membro della casata dei Paleologhi, eparco della Capitale.” Lo guardò. “Allora?”
“Cinque anni fa avrei condannato alla fustigazione chiunque avesse osato predirmi che un giorno avrei servito come attendente. Ma questo era un tempo, prima che il mio mondo e le mie convinzioni venissero spazzate via dalle vostre azioni.” Romano Paleologo alzò finalmente lo sguardo sul suo signore. “Vi devo due volte la vita e sono pienamente soddisfatto del mio ruolo attuale.”
“Due volte, dici?”
“Dubito che il basileus sarebbe stato tenero nei miei riguardi se mi avesse messo le mani addosso. Ero di una casata rivale e avevo tantissimo potere: sarebbe stata un’occasione irripetibile per levarmi di mezzo senza sporcarsi le mani. Prendendomi al vostro servizio mi avete permesso di aver salva la vita, pertanto ve la devo due volte.”
“In effetti. Ma ora abbiamo problemi più urgenti. Non pensavo che i turchi riuscissero a riprendersi così rapidamente; dieci anni fa erano ridotti a niente, possedevano solamente Ankara con poche uomini e Mardin con un esercito di miliziani. Oggi hanno solo Ankara ma riescono a sostenere le spese per quattro armate complete, impendendomi qualsivoglia spostamento di truppe da Kaysareia.” Oshin batté il dito sulla carta. “Sinceramente era convinto che dopo la conquista abbaside di Mardin sarei riuscito a farli ragionare.”
“Voi vi pieghereste sapendo di essere spalleggiato e continuamente rifornito di danaro?”
“Intendi il tuo antico signore? In effetti non mi stupisce, Sono mesi che le armate di Bisanzio sconfinano in Cappadocia.”
“Certamente il basileus foraggia il turco, ma buona parte delle sue risorse sono dirette contro i Cumani, a settentrione.”
“Kiev, vero?”
“Le ultime informative danno per certa la caduta della città. Le spie pensano che il prossimo passo sarà la roccaforte cumana di Peryaslav.”
“Ho letto i resoconti e non mi piacciono affatto. Il che vuol dire che mi toccherà intervenire per riequilibrare la situazione.” Lo sguardo di Oshin si spostò sulla parte inferiore della carta. “Ma tu non ti riferivi al basileus prima, vero?”
“No, pensavo più che altro al rex latinorum. Dopotutto, sebbene senza attività militari, lo stato di guerra permane e il munifico dono che avete fatto loro non ha bloccato tentativi sotterranei di appoggio ai vostri avversari.”
“Fin troppo munifico concedere loro l’intera Tracia con annessa Konstantinoupolis”, grugnì Oshin. “ma così facendo ho spezzato la continuità territoriale della basileia e costringerò il basileus a una guerra con Gerusalemme se rivuole la sua capitale. Pensi la rivoglia?”
“E chi non la vorrebbe?”
“Io no, l’avevo e l’ho lasciata andare.”
“E perché l’avete fatto?”
“Perché non ero in grado di difenderla. Se qualcuno deve diventare mio suddito è giusto che ottenga in cambio la sicurezza che io possa difenderlo. E lì non potevo. Non coi turchi in pieno riarmamento, i crociati che ammassano truppe ad Adana e i bizantini che sconfinano in Cappadocia.”
“Cosa che dimostra che l’uomo che mi ha stravolto la vita è veramente quella personalità fuor dal comune che ho percepito.”
“Adesso dimmi che questo non lo hai imparato alla corte del basileus!”
Romano Paleologo si concesse una breve risata assieme al suo signore. “Certe abitudini sono dure a morire, mio signore”, si scusò.
“E sai ancora maneggiare la spada? In questi cinque anni hai impugnato solamente la mia e solo per pulirla o rifarle il filo.”
“Non sono mai stato un guerriero provetto, ma credo di essere ancora in grado.”
“Bene. Perché da domani ti voglio al mio fianco. Non vorrai privare i turchi della tua presenza, spero.”
“Non lo farò”, promise Romano.
L’esercito georgiano fu pronto a muoversi secondo i tempi stabiliti e la lunga fila di cavalieri si snodò per le collinose lande dell’Anadolu. In testa a tutti, a fare da esploratori, cavalcavano i musellem, turchi che avevano scelto di mettersi al servizio della Georgia contro i loro precedenti padroni. Erano soldati abili e feroci, consapevoli che per loro esisteva solamente la vittoria o la morte; difficilmente avrebbero ottenuto clemenza dai loro avversari.
Oshin cavalcava al centro della colonna, con accanto il proprio portastendardo e Romano Paleologo. Quest’ultimo sembrava nervoso e Oshin poteva comprenderlo: anni lontano dai campi di battaglia privavano un uomo della necessaria tranquillità. Ma era certo che al momento giusto avrebbe combattuto bene.
Le prime avvisaglie dell’armata turca non tardarono a manifestarsi: agitazione nell’avanguardia suggerì a Oshin che il tempo della battaglia era nuovamente giunto. Spronò il cavallo e raggiunse Ivane Orbeli in testa all’esercito.
“Allora?”
“I musellem hanno avvistato il nemico a un paio di leghe da qui, non di più. Principalmente fanteria sharqiyyun e ghilman, con fursan a sostegno. E ovviamente tawashi e turkmann.”
“Ovviamente”, assentì Oshin. Si guardò attorno. Poco più avanti si vedevano alcuni declivi, che formavano una sorta di pianoro da cui si poteva dominare una buona parte dell’areale circostante. “Ivane, occupa rapidamente quelle alture e bersaglia il nemico appena sarà a tiro. Erets, tu coi monaspa fa un giro più largo e sali di lato, tenendoti celato alla vista del nemico. Io mi porterò sulla collina più alta assieme agli eristavi. Non credo che ci sia bisogno che vi dica altro, se non augurarvi che Dio sia con noi.”
Ognuno tornò alle proprie posizioni e l’armata georgiana si divise in tre tronconi, ciascuno diretto al suo obbiettivo. Oshin ritornò dai propri oikeioi e trovò Vassak Orbeli ad aspettarlo. Rapidamente lo mise al corrente del suo piano e si misero in marcia.
Le prime frecce cominciarono a sibilare nell’aria mentre gli eristavi stavano muovendosi tortuosamente lungo il fianco della collina. Ci vollero quasi venti minuti ancora prima che Oshin arrivasse in cima e avesse finalmente una visione chiara del campo di battaglia.
Lontano, alla sua sinistra, Ivane Orbeli aveva schierato egriseli e musellem in formazione ad arco e in quel momento stavano duellando a distanza con i tawashi e i turkmann. Era uno scontro del tutto impari per i selgiuchidi, in inferiorità numerica e costretti a tirare dal basso verso l’alto; ma per ora combattevano.
Il resto dell’esercito turco si trovava nella piana alle loro spalle, intendo a marciare il più velocemente possibile per dare sostegno ai propri compagni. Il comandante turco non doveva avere ancora una chiara visione di come la situazione si andava evolvendo, perché teneva tutta la propria cavalleria in retroguardia e non sulle ali. Ma era questione di tempo, avrebbe capito prima o poi.
Capì quando la lunga fila dei monaspa apparve minacciosa sulle alture; ma Oshin non aveva alcuna intenzione di lasciar tempo ai turchi di cercare una contromossa.
“Ordinate a Erets Orbeli di caricare a fondo”, comandò con tono imperioso, “e mandatemi Vassak Orbeli, subito!”
Vassak arrivò poco dopo, chiaramente teso. “Vedete il nemico?”, lo apostrofò il mepe. Non attese risposta e proseguì: “Fra poco vostro fratello guiderà i monaspa alla carica contro il fianco turco. Se il generale nemico non è un totale imbecille cercherà di aiutare i propri soldati caricando a sua volta. Ma così facendo si troverà completamente esposto al nostro attacco, che tu dovrai guidare senza indugio.
Se, invece, dovesse dimostrarsi un vigliacco e restarsene dietro,…non importa, sarà comunque alla nostra mercé e dovrai caricare egualmente. Chiaro?”
“Chiarissimo, mio re”, replicò Vassak allontanandosi subito.
“Siete sicuro che farà ciò che deve al momento giusto?”, domandò Romano avvicinandosi. Oshin grugnì.
“Lo farà, lo farà. Se non lo fa poi dovrà affrontare la mia ira e quella di suo padre; credo che, non riuscendo a decidere cosa sia peggio, opterà per fare ciò che deve.”
“Molto astuto”, convenne Romano. Oshin però non lo stava ascoltando: i monaspa stavano cominciando la carica. Il suono lugubre di un corno ne portava la notizia e i vessilli rossi come la fiamma delle singole compagnie sventolavano al vento, sovrastati da quello bianco rossocrociato di Georgia. Dalla sua posizione Oshin aveva una perfetta visuale e poté vedere distintamente la paura impadronirsi dei ranghi turchi, mentre la muraglia corazzata dei monaspa si slanciava per il fianco della collina. Alcuni provarono a reggere, altri addirittura ad attaccare, molti a ritirarsi: ma tutti vennero spazzati via dal brutale impatto di quasi duemila cavalieri corazzati lanciati a piene velocità. Diversi fanti turchi furono addirittura scagliati in aria tanto violentemente vennero colpiti.
Il comandante turco, resosi conto che doveva assolutamente tappare la falla, diede ordine ai propri fursan di attaccare il nemico. E subito Oshin udì la voce di Vassak comandare la carica. Era troppo presto, si rese conto il mepe, rischiavano di trovarsi di fronte un nemico pronto invece di uno del tutto ignaro. Ciò nonostante sapeva che la vittoria non era più in discussione, i monaspa aveva compiuto troppi danni e, in lontananza, si notavano i primi cavalleggeri selgiuchidi che si ritiravano. Così diede di sprone, subito seguito dai suoi oikeioi.
Se Vassak aveva affrettato i tempi della carica esponendosi a un mezzo fallimento, la fortuna non girava decisamente dalla parte dei turchi: infatti il generale selgiuchide non si avvide della cosa, concentrato com’era sui propri uomini che venivano macellati e sulla battaglia che ormai gli era sfuggita di mano. Così l’onda degli eristavi lo colse del tutto impreparato e diede il colpo di grazia a uno schieramento nemico fin troppo provato, decretando la fine della battaglia e l’inizio della caccia.
Oshin concesse ai suoi uomini solamente un giorno di completo riposo, poi ordinò di riprendere la marcia. C’era ancora un esercito turco e non era impossibile che il suo comandante decidesse di marciare verso Amaseia, non particolarmente difesa. Da quando, cinque anni prima, Oshin aveva espugnato Amastris e l’aveva ceduta agli alleati Egiziani, la guarnigione era stata drasticamente ridotta e non era in grado di reggere un assedio da parte di una vasta armata come quella turca.
“Quanto tempo è passato dall’inizio della campagna?”, domandò Ivane Orbeli il quinto giorno di marcia. Avevano ormai lasciato la pianura e si stavano inerpicando fra colline sassose verso le montagna, alla caccia di un nemico che, per ora almeno, non pareva intenzionato a farsi trovare.
“Circa un mese e mezzo”, replicò Oshin. Era piuttosto pensieroso da quando, quattro giorni prima, un messaggero era arrivato da Kaysareia.
“Posso rispettosamente chiedervi che cosa vi turba, mio signore?”
“Con tutta questa pompa? Sai perfettamente che non serve, Ivane.”
“Ho pensato che fosse più appropriato. Ogni tanto è bene che il rispetto dovuto a un re sia ricordato da tutti, compresi i grandi nobili.”
Oshin lo fissò per un istante. “Non ve ne fidate, vero?”
“Scusate?”
“Del mio attendente.”
“Dovrei? Abbiamo solamente la sua parola e la vostra fiducia. Siete un uomo che sa ben giudicare gli altri, mio signore,…”
“…ma pur sempre un uomo, lo so”, proseguì Oshin. “Eppure questa volta sono certo di non sbagliarmi, quell’uomo è fedele al di là di ogni dubbio.”
“Ho visto che l’avete inserito fra i vostri oikeioi. Tuttavia, se posso, non vi consiglierei di lasciarvelo se dovessimo un indomani scontrarci in campo aperto con eserciti bizantini.”
“Se voleva tagliarmi la gola lo avrebbe già fatto, ha avuto centinaia di occasioni. So che ritenete pericoloso esercitare clemenza verso i propri avversari, ma non sempre questa si ritorce contro.”
“Non intendevo offendervi, maestà.”
“E non lo avete fatto, Ivane.” Oshin gli sorrise. “Come diavolo avete fatto a gestirli?”, domandò poi indicando avanti. Per un istante Ivane Orbeli non comprese.
“I miei figli?”, disse poi. Oshin annuì. “Domanda complessa, mio signore; non saprei dirvi se sia stato peggio quando erano bambini pestiferi o quando sono diventati più grandi.” Ivane lasciò vagare lo sguardo in avanti. “Per caso questa domanda sottende ciò che penso?”
Oshin non rispose per un lungo momento, talmente lungo che Ivane pensò che non lo avrebbe fatto. “Già”, mormorò infine il mepe.
“Maschio?”
“Maschio. Guaram Bagration, così lo ha chiamato Khatun.”
“Ed è questo che vi rende così taciturno?” Ivane si concesse una mezza risata. “Non ditemi che proprio voi siete preoccupato! Si tratta solamente di un bambino.”
“Assurdo, vero? Io che ho affrontato decine di battaglie, che ho strappato al basileus la Città Inespugnabile, che ho sconfitto il principe lebbroso di Gerusalemme, io che in poco più di due mesi, se a Dio piacerà appoggiarci ancora una volta, avrò distrutto la potenza militare dei turchi, io sono spaventato da questo figlio. Non ho la minima idea di come gestire la cosa. Non è un bambino qualsiasi, Ivane; sarà il mio successore, dovrà essere pronto per un compito che sa essere opprimente come nessun altro.”
“Posso farvi una domanda? Voi lo eravate quando, venti anni fa, ci esponeste il piano per conquistare l’Anatolia?” Oshin restò in un silenzio eloquente. “Quando verrà il suo momento lo sarà, non dubitate.”
Finalmente, dopo altri otto giorni di faticosa marcia, le avanguardie avvistarono l’armata nemica. Era composta da un forte nucleo di fanti, con equipaggiamento d’assedio e tawashi e musellem a fungere da avanguardie e fiancheggiatori. Evidentemente il suo compito era quello di marciare veramente su Amaseia, ma le sconfitte patite a sud avevano convinto il sultano a richiamarli per difendere al meglio Ankara.
“Sanno della nostra presenza?”, si informò Oshin appena venne avvisato.
“Forse non ancora, maestà, ma lo sapranno non appena le loro avanguardie arriveranno su quei rilievi. E non dovrebbe mancare molto”, replicò il comandante degli esploratori.
“Allora non abbiamo tempo da buttare via. Ivane, assumente il comando di tutti gli arcieri a cavallo e portatevi il più rapidamente sull’altro lato della valle. Non preoccupatevi di restare celato, anzi; voglio che vi vedano e che si dispongano a battaglia contro di voi. Bersagliateli ma non lasciatevi ingaggiare per nessun motivo.”
Ivane accusò ricevuta e poco dopo metà dell’esercito georgiano era la galoppo nella valle. Quasi contemporaneamente le avanguardie turche li avvistarono e Oshin poté notare Ivane inviare due squadroni di egriseli a impegnare i musellem turchi. Questi vennero rapidamente indotti alla ritirata e gli egriseli si ricongiunsero ai compagni, inerpicandosi poi sui colli.
L’armata turca, nel frattempo, si stava decisamente spostando verso occidente, intenzionata a non lasciarsi bersagliare impunemente dall’alto. I tawashi cercarono di arrivare per primi alle alture, ma furono anticipati dai musellem di Ivane e in breve costretti a ripiegare sotto il costante tiro dei georgiani. Ma il resto dell’esercito era in arrivo e le catapulte turche, per quanto lente, erano un reale pericolo per la cavalleria georgiana.
Erets Orbeli spinse il proprio destriero fino a dove si trovava Oshin.
“Non dovremmo attaccare? Il nemico si sta già schierando.”
“Lo vedo”, replicò laconico il sovrano. “Ma non è ancora il momento.”
“Ma non possiamo…”
“Cosa?” Oshin fissò freddamente Erets per un istante, quindi fece un cenno a Romano Paleologo. “Va a dire a Vassak Orbeli di assumere il comando degli eristavi e di occupare la nostra ala destra. Si disinteressi completamente delle catapulte nemiche e si preoccupi unicamente di impedire ai reparti di cavalieri turchi che si sono ritirati di tornare ad aggredirci.”
Romano corse via e Oshin tornò a voltarsi verso Erets. “La pazienza è una dote fondamentale per un comandante quanto l’audacia. E ora è il momento di attaccare!”, aggiunse a pieni polmoni, puntando la propria spada in avanti.
La cavalleria georgiana partì la piccolo trotto, accelerando viepiù man mano che si appropinquava alle linee turche. Qui gli artiglieri si erano accorti del pericolo, ma ogni richiamo alla fanteria avanti a loro non ebbe alcun effetto ed essi furono presi in pieno dalla carica georgiana, venendo rapidamente dispersi o massacrati.
Con una singola nota di corno Oshin ordinò di rimettersi in posizione di attacco. Ormai le forze turche erano strette fra gli arcieri a cavallo da un lato e la cavalleria pesante dall’altro.
I comandanti turchi cercavano di capire cosa fare, Oshin li vedeva benissimo, ma era conscio che la loro situazione era disperata. Per un brevissimo istante esitò nel dare l’ordine di attacco, quasi preso da pietà nei loro confronti. Poi il suo braccio si abbassò di scatto, i corni tuonarono e il mondo tremò sotto l’impatto di migliaia di zoccoli tambureggianti. Come una marea i cavalieri georgiani aggredirono le forze turche, trafiggendo molti all’impatto. Abbandonate le lance ormai inservibili, i cavalieri misero mano alle spade e presero ritmicamente a sciabolare i fanti che, dal canto loro, provavano a difendersi come potevano, aggrediti da ogni lato.
Oshin combatteva con gesti quasi meccanici, da consumato guerriero. I suoi fendenti erano calmi e sicuri, se andavano a segno cercava un altro bersaglio, se falliva il colpo bastava un piccolo colpo di ginocchia e il destriero scartava quel tanto che bastava da assicurarsi che l’avversario non potesse nuocergli. Dopo aver abbattuto l’ennesimo nemico, il mepe si concesse un attimo per guardare come andava lo scontro.
Era evidente che la situazione dei turchi era più che disperata, solo poche sacche resistevano ancora. Ivane aveva già impegnato i suoi cavalieri rimasti a corto di frecce e centinaia di turchi erano morti o prigionieri. Era fatta, insomma.
Non senti i loro passi sull’erba schiacciata dai cavalli, né il soffio letale della lancia che veniva spinta in avanti. Sentì solamente la punta d’acciaio che bucava la corazza sul fianco e una macchia infinita di dolore oscurargli la visuale. Il suo destriero si imbizzarrì e Oshin scivolò pesantemente a terra. Cercò goffamente di rialzarsi, ma due turchi gli furono addosso e lo inchiodarono al terreno col loro peso. Avevano le facce macchiate di sangue e uno dei due teneva il braccio sinistro innaturalmente steso lungo il corpo. Erano due sconfitti, ma stavano per ottenere un trionfo che avrebbe reso quella vittoria amara come il fiele per il regno di Georgia. Uno dei due sollevò la spada per colpire e Oshin capì che era finita.
Accadde tutto a una velocità paurosa: la spada era a mezza via quando un urlo ruppe la quiete inquietante di quel momento. Poi un uomo attaccò i due turchi con una ferocia terribile. Il primo fendente staccò di netto un braccio a quello colla spada, facendolo ruzzolare di lato in una pozza di sangue e dolore. L’altro provò a mettere mano alla mazza, ma il georgiano lo aggredì e in pochi fendenti lo trafisse da parte a parte. Liberata con un gesto secco la lama dal corpo senza vita del suo avversario, si avvicinò all’altro e senza dire nulla lo decapitò. Poi lasciò cadere la spada e si inginocchiò accanto a Oshin.
“Come state, mio signore?”, domandò con voce estremamente preoccupata. Oshin trovò la forza di sorridere.
“Avete pareggiato il conto”, mormorò, “e avete la gratitudine non solo mia, ma del regno intero.” Poi il dolore si fece troppo forte e il mepe svenne. E non vide le lacrime rigare il volto di Romano Paleologo.