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Sakartvelos Samepho

Ultimo Aggiornamento: 25/05/2013 16:35
15/05/2012 23:54
 
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non voglio esagerare ma in alcune parti hai uno stile che si avvicina al loro se vuoi una prova :p ti consiglio di leggere "Q"

;)
17/05/2012 19:16
 
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Anno 1189, Amaseia

La notizia si era sparsa come un incendio nella città e ora la paura ammorbava le vie, si insinuava nelle case, oscurava il cielo: i romei stavano arrivando ed erano numerosi come le stelle del cielo. Difficilmente le deboli mura di legno avrebbero potuto rappresentare un ostacolo per una sì grande armata e nessuno voleva pensare a cosa sarebbe successo una volta che i varangoi – che formavano il nucleo dell’esercito romeo – fossero sciamati in città.

Ma se Amaseia era in preda al panico, Khatun Abbasiyyun-Bagration si sentiva completamente dominata dalla paura più cieca. Per lei, cresciuta e vissuta nella protezione dell’harem di Baghdad, il dover aspettare una battaglia che non poteva in alcun modo evitare era una prova alla quale non pensava di essere pronta. Anzi, era sicura di non esserlo.

Se almeno Oshin fosse stato lì, lui avrebbe saputo certamente cosa fare e come trasformare la disfatta imminente in un trionfo. Ma Oshin Bagration era andato a sud con l’esercito, a guerreggiare contro i selgiuchidi. Le notizie del suo trionfo a Kaysareia erano arrivate, ovviamente, ma Khatun avrebbe volentieri scambiato quella vittoria con una sua presenza lì, dove serviva veramente.

Il problema autentico era che non poteva permettersi di restare paralizzata dal terrore. Con Oshin era partito anche il legittimo governatore della città, Erets Orbeli, e attualmente era lei la suprema autorità presente. Lasciandola, Oshin l’aveva investita dell’autorità formale di sostituto governatore, in modo che potesse gestire le faccende quotidiane di Amaseia fino al ritorno di Erets Orbeli.
Difficilmente l’attacco bizantino poteva rientrare fra le quotidiane attività degli abitanti di Amaseia, però.

Facendosi forza, Khatun lasciò le proprie stanze e scese nel cortile, dove alcuni ufficiali stavano abbaiando furiosamente ordini e gli uomini preparavano armi e armature all’imminente scontro. Una lunga fila di gente comune si accalcava verso l’armeria, i volti cupi e le espressioni che parlavano apertamente dello scarso desiderio di essere dove si trovavano.

“Come fanti non servirebbero a nulla, ma forse qualche freccia riusciranno a scagliarla prima di farsela nei pantaloni.” Un corpulento ufficiale dall’aria truce le si avvicinò. “Mia signora”, la salutò cercando di rendere rispettoso il suo tono da burbero addestratore. Chiaramente si trovava a disagio e il suo linguaggio lo testimoniava; paradossalmente la cosa sollevò un po’ l’animo di Khatun e le strappò una mezza risata. Cosa che ovviamente mise ulteriormente a disagio il veterano.

“Scusatemi, capitano Konstantine”, gli disse Khatun notando il suo sguardo. “Come siamo messi? Parlate liberamente.”

“Da schifo, mia signora”, fece lapidario l’uomo. “Non abbiamo una sola singola possibilità di impedire a quei bastardi di superare il muro. E se lo prendono non sarà una battaglia, sarà un macello.”

“Ma abbiamo truppe. Mio marito non ci ha lasciato indifesi…”

“Il problema non sono gli uomini, ma le difese. I turchi … barbari, ecco cosa sono. Incapaci di costruire qualcosa di decente e noi stiamo per pagarne il prezzo. Queste mura sono patetiche, basta una fiaccola per trasformarle in un inferno.”

Khatun stava per domandare cosa si poteva fare quando l’eco di un urlo si propagò per la città e tutti seppero che Bisanzio era arrivata. Senza parlare, Khatun si avviò verso le mura e subito Konstantine ordinò a un manipolo di uomini di seguirlo e di fare da scorta a Sua Altezza. Una volta arrivati si aprirono la via fra la folla usando le aste delle lance e arrivarono sui bastioni. E poterono guardare cosa li attendeva.

La piana era completamente sommersa da truppe bizantine. Erano ovunque e avanzavano inesorabili. Colonne e colonne di uomini, che si disponevano ordinatamente e iniziavano a innalzare tende, a costruire ripari, a spaccare legna dai vicini boschi per costruire armi d’assedio. Ai lati la cavalleria romea sorvegliava i lavori e controllava che non si tentassero sortite. Ma perfino Khatun i rendeva conto che una sortita era fuori discussione, non avevano i numeri o il morale per tentarla.

“Sono come formiche”, si lasciò sfuggire con voce impaurita un soldato. Il capitano Konstantine emise un grugnito minaccioso e l’uomo si zittì immediatamente.

“Vedete, mia signora?”, fece il capitano. “Eccolo la lo schifoso verme che ci attacca.” Khatun seguì con lo sguardo la direzione indicata e vide un gruppo di cavalieri che innalzavano lo stendardo romeo. Anche a quella distanza era evidente che si trattava di truppe di elevatissimo livello, probabilmente pari agli oikeioi di un qualunque nobile di Georgia. Dovevano essere la guardia del generale bizantino, chiunque egli fosse. In lontananza il cielo rombò, chiaro segno che si avvicinava un temporale. Perfino il tempo si adeguava alla loro situazione, pensò cupa Khatun mentre rientravano a palazzo.




Piovve per quattro giorni di fila, limitando le operazioni dei romei, ma rendendo altresì le vie un mare di fango. Se c’erano dei rinforzi georgiani in marcia, questo non avrebbe fatto altro che rallentarli. Chiusa nelle sue stanze, Khatun passava le giornate immersa nei propri tristi pensieri, e solo raramente chiedeva a un’ancella di leggerle una storia o di cantarle una canzone. Ma le storie di mitici eroi che avevano sfidato geni e mostri non riuscivano a scacciare dalla sua mente l’idea che le restavano solo pochi giorni da vivere, né il ritornare indietro ai tempi dell’harem di Baghdad le portava ricordi felici in cui perdersi. A suo modo il microcosmo dell’harem era spietato quanto e forse più che il mondo esterno coi suoi massacri e le sue battaglie. I pettegolezzi, le insinuazioni, le tresche di potere che si consumavano fra le apparentemente dorate mura dell’harem erano intrise di una ferocia e di una crudeltà disumana. Non c’era via di fuga, non c’erano vie alternative, o vincevi o morivi lentamente ogni istante. Eri preda in un imbuto sempre più stretto, davanti solamente altri nemici, altre ferite, altre difficoltà. E la fine era sempre più lontana, il passaggio per arrivarci sempre più stretto mentre le tue possibilità si assottigliavano. Fino a quando non ti rendevi conto di avere esaurito energie e idee, fino a quando non comprendevi di essere finita.

E, d’improvviso, Khatun si rese conto che sapeva come sconfiggere i bizantini.
Mandò a chiamare il capitano Konstantine e gli espose rapidamente la sua idea, anche se con termini decisamente poco militari. Il vecchio veterano la guardò a lungo. All’inizio con gli occhi di chi riteneva che le donne di certe cose non dovrebbero immischiarsi, ma consapevole che il rispetto gli imponeva di ascoltare. Man mano che Khatun procedeva, però, qualcosa cambiò e alla fine si lasciò sfuggire un laconico: “Meglio di niente.”



Due giorni dopo il sole sorse in tutto il suo splendore, le nuvole nere e la pioggia dei giorni precedenti erano ormai un ricordo. Ma con i caldi raggi arrivò anche il momento della verità. Il comandante bizantino inviò un ambasceria per intimare la resa, promettendo la vita salva agli abitanti se Amaseia si fosse immediatamente arresa, aprendo le porte e abbassando le bandiere. Il capitano Konstantine si limitò a sputare dalle mura e non ci fu bisogno di aggiungere altro, il messaggio era fin troppo chiaro.

Khatun aveva dovuto usare tutta la sua autorità per riuscire a convincere Konstantine a non relegarla nel palazzo, ma a lasciare che stesse fra i soldati, per quanto nelle retrovie. Sentiva che era ciò che doveva fare, che la sua presenza avrebbe potuto sollevare il morale dei soldati – o quantomeno spingerli a combattere per non essere inferiori a una donna.
Ovviamente il capitano, nel cedere, aveva preteso che si abbigliasse in modo consono, con una cotta di maglia e un elmo che le dessero protezione dalle eventuali frecce nemiche; aveva perfino una spada ricurva al fianco, per quanto non avesse una precisa idea di come usarla. Si sentiva impacciata, ma non fuori posto.

Attorno a lei i metsikhovne mshvildosani erano divisi in piccoli gruppi, chi parlando, chi pregando, chi addirittura giocando a dadi. Una squadra era invece stata inviata alle mura per preparare “una piccola e appuntita sorpresa”, come l’aveva definita sogghignando Konstantine.

Più avanti sostavano due battaglioni di kontophoroi, accalcati uomo contro uomo nella principale via cittadina. Questa portava dal palazzo del governatore al cancello settentrionale – quello da cui stavano per attaccare i bizantini – e risultava ora completamente ostruita da un muro di scudi e lance. Dietro, pronti a intervenire, stavano i fanti, skoutatoi e khevsur.

E la catapulta. La pesante struttura di legno era attorniata da decine di servienti, chi addetto all’argano, chi ai proiettili, chi ai bracieri accuratamente sorvegliati. Scatenare le fiamme in una città di legno poteva essere un rischio notevole, ma se tutto andava secondo i piani, quelle fiamme avrebbero salvato e non distrutto Amaseia.



I metsikhovne mshvildosani mandati avanti nel frattempo tornarono, aprendosi la via fra le fila dei kontophoroi, e raggiunsero la propria posizione. Sulle mura erano rimasti unicamente i miliziani armati di arco, che il capitano Konstantine aveva deciso di guidare personalmente. Il sibilo delle frecce si impadronì dell’aere, mischiandosi alle urla dei bizantini lanciati all’attacco e al sordo avanzare dell’ariete e della torre d’assedio, il cui profilo era visibile oltre le mura.

Poi arrivarono i primi colpi delle pesanti porte della città, colpi che si riverberarono per tutto l’abitato. In fondo alla strada comparvero i miliziani in ritirata, spronati dalle urla di Konstantine. Poi un fragore spaventoso e le porte crollarono nella polvere.

Khatun vide i kontophoroi sistemarsi in posizione di difesa, ogni arcieri incoccare e prepararsi, sentì il primo pesante proietto venire depositato sulla catapulta e qualcuno aprire uno dei bracieri per incendiarlo. Ma sopra tutto si levò il terribile grido di guerra dei varangoi, un urlo che le ghiacciò il sangue nelle vene. Stavano irrompendo come una marea dalle porte abbattute e d’improvviso il suo piano non le parve più così buono e sicuro. Si impose di non cominciare a tremare come una foglia, ma era sicura che il suo viso mezzo celato dall’elmo esprimesse fin troppo bene la sua paura. Si ritrovò a stringere convulsamente l’elsa della spada cercando di trovarvi sicurezza.

“Fuoco!”, urlò Konstantine, frattanto sopraggiunto con gli ultimi miliziani, facendosi largo fra i soldati. “Fuoco!”

Con un colpo secco uno dei servienti rilasciò il fermo e il braccio della catapulta schizzò in avanti. Il proiettile ardente disegnò un arco infuocato nel cielo di Amaseia e andò a infrangersi nella polvere della via, senza colpire nessuno.



Il fumo si diradò in fretta, lasciando vedere i varangoi che avanzavano minacciosi; ma subito un secondo e un terzo proietto solcarono il cielo. E questa volta gli archi infuocati fecero il loro lavoro. Il primo crollò a lato dei varangoi e ne carbonizzò un paio. Il secondo andò a colpire le mura, incenerendo alcuni soldati che avevano usato le scale per entrare in città.

Intanto gli arcieri avevano iniziato a scoccare, facendo piovere sui nemici all’attacco un nugolo di frecce. Non erano incendiarie, ma non per questo erano meno letali. Pur ben protetti, i soldati bizantini cadevano a un ritmo intenso e quando arrivarono a contatto coi kontophoroi erano ormai pochi. Troppo pochi per far valere la propria superiorità. La breve mischia si concluse con la ritirata dei varangoi.

I kontophoroi della prima linea, esaltati dalla vittoria, si slanciarono in caccia, nonostante Konstantine cercasse di fermarli berciando improperi orribili. Il loro impeto li portò però troppo in là, facendoli finire dritti in bocca all’intera armata romea: parte venne uccisa, il resto iniziò una ritirata che si trasformò in breve in rotta.

Khatun osservò con orrore i soldati georgiani che correvano disperatamente verso le loro linee, tallonati spietatamente dai bizantini. Era una situazione atroce, che costringeva gli arcieri a ridurre il rateo di tiro per non uccidere i propri compagni, che peraltro non riuscivano a correre più veloce dei nemici.

E in quel momento una freccia colpì Konstantine, facendolo finire nella polvere, proprio a pochi metri da Khatun. Il sangue zampillava dalla ferita al petto e bastò un breve controllo all’apotecario prontamente accorso per rendersi contro che il capitano era fuori gioco: forse sarebbe sopravvissuto, ma non poteva più partecipare alla battaglia.
Khatun lo osservava sconvolta. Non c’erano più comandanti, nessuno a guidare gli uomini. Colse da più parti sguardi che la cercavano. No, pensò con terrore crescente, non sono in grado, sono solo una donna spaventata.


Mentre nelle linee georgiane serpeggiava l’incertezza, il generale romeo stava entrando in città assieme ai suoi oikeioi e al resto della cavalleria. Erano tutti ansiosi di chiudere il discorso quanto prima e in parecchi si spinsero risolutamente avanti. Ma nella calca non ebbero modo di notare che non tutti i pali piantati dai georgiani erano stati sradicati, alcuni si protendevano ancora minacciosi verso di loro. Il risultato fu che diversi destrieri finirono impalati, i cavalieri sbalzati di sella e calpestati da chi li seguiva.
Infastidito, il generale ordinò di fermarsi e di togliere quell’ostacolo quanto prima, non aveva tempo di aspettare i comodi dei miliziani, c’era un nemico da mandare all’inferno.

E l’inferno si scatenò, ma non come i bizantini si aspettavano. Scagliata pochi istanti dopo che il capitano Konstantine era stato rimosso e portato nell’improvvisato ospedale nelle retrovie, un proietto infuocato andò a terminare la sua parabola esattamente davanti agli abbattuti cancelli di Amaseia. Come un mostro di fiamma, la sua potenza divorò tutto quello che si trovava attorno, compreso il generale nemico e metà della sua guardia.





Fu un momento fondamentale, entrambi gli schieramenti erano rimasti momentaneamente privi di comandate. Mentre gli ufficiali dei varangoi urlavano ordine e spingevano con energia i miliziani ad attaccare la posizione georgiana, Khatun ebbe tempo di realizzare che, avendo scelto di stare fra i soldati, doveva fare la sua parte, rincuorare i soldati e spingerli a non cedere.

“Arcieri!”, urlò con quanto fiato aveva, sperando di non avere la voce troppo stridula per la paura che ancora le scorreva nelle vene. “Scoccate a volontà! Ricacciateli indietro!”

E l’ordalia riprese. I bizantini si spinsero più e più volte avanti, erodendo costantemente il muro dei kontophoroi. Ma ogni volta frecce e palle infuocate aprivano varchi troppo grandi, minavano il morale e li costringevano alla ritirata.

Alla fine vennero mandati avanti skoutatoi e varangoi, che avanzarono risolutamente fra cadaveri e sangue, con gli scudi avanti a sé come protezione contro le frecce. Ormai lo schermo di kontophoroi era ridotto all’osso e Khatun preferì farli indietreggiare e sostituirli coi più freschi skoutatoi. Ma non aveva previsto che la massa di uomini in movimento avrebbe portato avanti lei pure, fin quasi in prima linea.

Con la paura che montava, si ritrovò a lottare per estrarre la spada dal suo fodero. Poi il nemico caricò selvaggiamente e si scatenò il caos più assoluto. I soldati accanto a lei si battevano come leoni, rispondendo colpo su colpo al nemico. Più indietro gli arcieri continuavano a scagliare, mentre sempre nuovi miliziani romei si spingevano all’attacco. Palle di fuoco solcavano il cielo e carbonizzavano i malcapitati su cui cadevano.



Un soldato romeo abbatté l’uomo che le stava davanti e la attaccò. Khatun reagì d’istinto con un balzo all’indietro, ma nel ricadere sentì il piede scivolare e annaspò. Il nemico menò un fendente per approfittarne ma calcolò male e il colpo andò corto, la punta della lama che raschiò con un suono orribile la cotta di Khatun. Questo le diede qualche istante per ribilanciarsi, poi lo scontro riprese. Il bizantino attaccava con più foga che perizia, fatto che permetteva a Khatun di difendersi più d’istinto che di reale abilità. E fu sempre d’istinto che, alla fine, colse una distrazione del suo avversario e riuscì a entrare nella sua guardia. La lama squarciò pelle, stoffa e carne, lordandosi di sangue. Il romeo crollò al suolo e morì in pochi istanti. Khatun ritirò la lama e provò una strana sensazione, un misto di orrore infinito ed esultanza immensa. È per questo dunque che gli uomini amano la guerra?, si chiese senza accorgersi che stava tremando. Combattevano per provare quella selvaggia sensazione di essere vivi che la pervadeva?

A scuoterla arrivò il suono lungo e prolungato di un corno da guerra, un suono che emergeva da lontano, da fuori le mura. Per un istante ebbe la certezza che fossero rinforzi bizantini. Ma perfino lì, nel cuore della mischia, le giunse chiarissimo il grido di guerra “Orbeli! Orbeli!”.



Lo sentirono anche i nemici che, seppur lentamente, cominciarono a cedere terreno e a ritirarsi. Quando si sparse la notizia che anche i resti dei varangoi avevano iniziato a ritirarsi, l’intero esercito romeo si dissolse e si diede alla fuga, sparendo in breve verso nord.
La battaglia per Amaseia era finita.



Nei giorni seguenti la notizia della disfatta romea si sparse come un incendio. La Georgia ora faceva più paura, non era uno staterello troppo cresciuto, era un regno capace e pieno di risorse. Ma le fiamme delle notizie portavano soprattutto un nome, ingigantendo col passare dei giorni le sue imprese: Khatun Bagration, principessa guerriera di Georgia.
17/05/2012 20:34
 
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non vedo l'ora che facciano un figlio, già me lo immagino che conduce l'esercito Georgiano contro l'avanzata dei Mongoli xD
27/05/2012 17:54
 
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cronaca interessante e coinvolgente era da parecchio che non vedevo un AAR così ben fatto(almeno per i miei gusti) complimenti non vedo l'ora di leggere la prossima parte
27/05/2012 20:41
 
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Anno 1194, Konstantinoupolis

Romano Paleologo congedò con un gesto annoiato l’uomo che gli stava davanti. L’ennesimo uomo di cosiddetta scienza che proponeva al governo imperiale una serie di migliorie difensive per la capitale. Come se una città come Konstantinoupolis ne avesse bisogno. Le sue mura erano talmente imponenti che si vedevano a leghe e leghe di distanza, convincendo al primo sguardo qualunque folle si fosse messo in mente di conquistarle che ciò era impossibile.
E poi Romano non aveva intenzione di scucire nemmeno un mezzo bisante, erano merce preziosa da usare per cose realmente importanti. E nulla era più importante della casata Paleologa, per cui le difese della città sarebbero rimaste le stesse di sempre. Sapeva che la gente mormorava sulla sua tirchieria, ma non gliene importava nulla. Assolutamente nulla. Era eparco da oltre dieci anni e, col basileus lontano a guerreggiare in occidente, era l’uomo più potente dell’Impero.

Per fortuna, si disse: da quando sul trono sedeva un Angelo-Ducas la Basileia aveva perso una battaglia contro i pecorai georgiani e era stata lanciata una – per lui insensata – spedizione contro le coste africane. L’unica cosa buona era stata la campagna contro i cumani in Transilvania, condotta da suo cugino.
Qualcuno avrebbe potuto fargli notare che erano stati gli Angeli-Ducas a spingere la Basileia verso settentrione, a ordinare di mettere a ferro e fuoco le lande cumane per portarvi la civiltà dell’Impero; ma probabilmente Romano Paleologo avrebbe ignorato la cosa, non dava lustro al suo casato e non portava disdoro agli altri.
Decise che era stanco di occuparsi delle piccole questioni e che voleva svagarsi un po’; mentre stava per lasciare il suo studio, l’occhio gli cadde su una pergamena. Era stata portata il giorno prima da un messaggero giunto via nave, gli pareva di ricordare. La guardò per un lungo istante, poi decise che avrebbe atteso e se ne andò.
E le poche parole che erano state vergate sulla pergamena rimasero inascoltate. Se Romano Paleologo avesse avuto idea di quanto questa sua negligenza sarebbe costata…



Era il tramonto quando una delle sentinelle sulle mura della città lanciò il primo grido d’allarme. In breve l’intera popolazione della capitale seppe che c’era un pericolo in avvicinamento. Anche Romano Paleologo ne venne informato e si recò sulle mura, dopotutto non poteva esimersi. All’esterno si vedeva una lunga colonna di cavalieri, i vessilli che sventolavano piano alla brezza della sera. Romano li fissò senza riuscire a capacitarsi di ciò che vedeva. Georgiani. Erano georgiani. La croce rossa in campo bianco non lasciava adito a dubbi.
Colse stendardi verdi fra la marea di bandiere rosse e bianche. E quelli chi erano?, si chiese. Non ricordava a chi appartenesse quel simbolo, forse qualche famiglia georgiana. Dinastie di pecorai, insomma.



“Allertate le truppe, che occupino i posti di combattimento”, comandò con un tono dal quale si intuiva perfettamente che non riteneva ci fosse reale pericolo.

“Siamo già pronti, mio signore”, gli rispose il comandante dei suoi oikeioi.

“Non ne dubitavo affatto, Niceta. Infatti ti ho ordinato di allertare le truppe, non i miei oikeioi”, precisò Romano con una nota di stizza.
“Truppe e oikeioi coincidono, mio signore”

Per un istante Romano non fu certo di aver sentito bene. Si volse verso l’uomo, un veterano brizzolato con il volto segnato da una vistosa cicatrice.
“Come?”

“Non ci sono altre truppe che noi, mio signore”, ribadì quello imperturbabile.

“E dove diavolo sono finite le milizie e le compagnie di guarnigione?”, sibilò Romano con la rabbia che cresceva.

“Partite per il nord una settimana fa, come da vostro ordine.”

Quindi ora è pure colpa mia?, pensò furente l’eparco. Che fosse dannato l’Angelo-Ducas e la sua guerra nel nord!

“Sguinzaglia gli uomini e frugate ogni bettola, taverna e bordello della città, voglio quanti più mercenari è possibile. Avanti!” Scese dalle mura controllandosi a stento e lanciando silenziosi improperi contro tutto e tutti.
Fuori, nel frattempo, i Georgiani stavano approntando macchine d’assedio.



In sette ore i suoi oikeioi compirono un lavoro egregio, riuscendo a portare al suo cospetto capitani mercenari di ogni risma, alcuni talmente ubriachi e lerci da non valere nemmeno il prezzo di una corda per impiccarli. Ma in quella marmaglia Romano qualcosa doveva scegliere. Alla fine optò per un massiccio uomo dell’Occidente, che era giunto in città un mese prima intenzionato a proseguire per la Terra Santa; ma le lusinghe della capitale romea avevano trattenuto sia lui che tutti i suoi cavalieri. Avevano anche fatto crescere le sue necessità economiche, però, e Romano si vide costretto a offrirgli una valanga di bisanti per assicurarsi i suoi servigi.
Profondamente disgustato dall’avarizia di quell’uomo, riuscì a far suoi altri mercenari per prezzi ridicoli e, quando l’alba sorse, Konstantinoupolis poteva dirsi discretamente difesa. Una compagnia di lancieri provenienti dall’Italia, gruppi vari di arcieri balcanici, uno squadrone di trapezitoi messi insieme nel più breve tempo possibile e i cavalieri franchi. Senza contare i suoi oikeioi e un corpo di cheirophoroi. Che vengano i georgiani, si disse: fra acciaio e fuoco moriranno!

Ma i georgiani non parevano avere fretta. Le sentinelle sulle mura non riscontrarono nessun preparativo per un imminente attacco e, anzi, informarono Romano che i lavori agli strumenti d’assedio erano praticamente cessati. Era un’eccellente notizia, pensò l’eparco. Avrebbe dato tempo ai suoi messaggeri di raggiungere i campi di acquartieramento a sud e a ovest, dando l’allarme. Pochi giorni e per i pecorai georgiani non ci sarebbe stato altro che la morte.



Poi arrivò il tramonto e con esso un boato che fece tremare l’intera città. Romano Paleologo, che stava ritornando da una visita alle armerie imperiali, deviò rapidamente e si portò sulle mura, per osservare coi propri occhi. E ciò che vide lo lasciò di stucco. Nella piana c’erano quattro catapulte, non particolarmente grandi, che stavano martellando con ritmo pacato i grandi battenti della Porta di Adrianopoli. A ogni centro i cardini cigolavano per lo sforzo. Non c’era tempo da perdere, si disse Romano.



Immediatamente mandò un messaggero per ordinare al comandante dei cheirophoroi di volare a difendere la porta, irrorando chiunque cercasse di entrare di fuoco. Poi scese dalle mura e spronò il proprio destriero verso il centro della città, per assumere il comando dei mercenari.

Era appena arrivato quando un corno lontano suonò lugubre. Pochi istanti e intuì il rombo dei cancelli che crollavano. Dannazione!, pensò, dannazione, dannazione!

“Andiamo”, ordinò cupo ai mercenari franchi. La marea di cavalieri si diresse a briglia sciolte verso i cancelli, le spade strette nei pugni, i vessilli al vento. La popolazione si era chiusa tutta nelle case, era quasi straniante cavalcare per una Konstantinoupolis completamente deserta, quasi morta. Romano scacciò il pensiero, portava male.


Avevano appena passato il Philadelphion quando i primi suoni di combattimento arrivarono alle sue orecchie. Ed erano rumori di truppe in fuga disperata e di altre in caccia. Ma chi diavolo erano questi georgiani?, si domandò Romano Paleologo sentendo che tutto gli stava sfuggendo di mano. Poi vide un paio di uomini apparire in lontananza correndo a perdifiato. Erano cheirophoroi, l’armamento non lasciava dubbi. Alle loro spalle apparvero alcuni cavalieri. Uno reggeva uno stendardo verde. Si slanciarono contro i fanti e li macellarono senza sforzo, un semplice colpo di spada dall’alto in basso. Poi caricarono direttamente su Romano e i suoi, mentre altri cavalieri facevano la loro comparsa in fondo alla strada.

“Carica!”, ordinò Romano puntando la spada in avanti. “Carica!”

L’urto fu brutale e diede il via a una mischia furibonda. I cavalieri in verde erano in inferiorità numerica, ma combattevano con ferocia e senza alcuna paura. Le loro spade e mazze si alzavano e abbassavano ritmicamente, sollevando schizzi di sangue e grida di dolore in parti eguali.



Romano combatteva con perizia, era stato addestrato fin da giovanissimo alle armi, per quanto poi avesse intrapreso una carriera da uomo di stato, dandosi ai giochi della politica e dell’amministrazione. Ma si sentiva stanco, non era temprato a sufficienza per quel tipo di combattimento. Aveva ucciso due uomini, ma un terzo era riuscito a colpirlo violentemente al capo con una mazza prima di essere abbattuto da uno della sua guardia. L’elmo aveva protetto Romano dalla morte, ma la testa ancora rintronava per la botta e l’elmo era ormai compromesso. Con un gesto di stizza il Paleologo lo buttò a terra e fece per spingere il cavallo nuovamente verso la mischia: i cavalieri nemici stavano visibilmente indietreggiando, bastava poco per metterli in fuga.

E fu allora che li vide, un’altra marea di cavalieri dai mantelli bianchi e rossi, le spade arrossate di sangue pronte a colpire. Sbucarono da dietro e si slanciarono all’attacco senza perdere tempo. E Romano capì che era finita, che era avvenuto l’impossibile. Si scagliò all’attacco in preda a una furia disperata e abbatté in rapida successione quattro uomini, Poi qualcosa trafisse il suo cavallo e Romano crollò a terra, batté la testa e tutto si fece nero.





Quando si riprese si sentiva come se la battaglia proseguisse nella sua testa. Aprì gli occhi e si guardò attorno. Si trovava nella pizza antistante ad Hagia Sophia, ed era notte. Ma era una notte atroce per l’Impero, la sua capitale era illuminata a giorno da centinaia di incendi. Maledetti georgiani, pensò con rabbia e provò a muoversi. Subito al suo fianco apparve un uomo in armatura pesante che gli intimò in un greco passabile di starsene buono. Romano obbedì, anche perché si sentì venir meno e l’idea di mettersi in posizione eretta non gli parve più così buona.
Poi arrivò un piccolo gruppo di cavalieri, guidati da un uomo in armatura e con un lungo mantello bianco rossocrociato. Questi spinse il destriero fino al sagrato di Hagia Sophia, quindi smontò e si avvicinò.

“Vedo che si è svegliato”, commentò.

“E ha già cercato di alzarsi, mio signore. Ma credo che quella ferita alla testa lo terrà buono a lungo”, rispose l’uomo di guardia. “È stato fortunato, in quel macello era facile che un cavallo lo calpestasse a morte”.

“Sarebbe stato meglio”, commentò Romano Paleologo con voce atona. Aveva condotto il suo casato alla più grande delle infamie, nulla avrebbe mai potuto cancellarla. Alzò lo sguardo. “Cosa sperate di ottenere tenendomi in vita?”, domandò. “Nessuno pagherà un riscatto per l’uomo che ha perso Konstantinoupolis.”

“Capisco il vostro stato d’animo, ma credo che vi sopravvalutiate pensando che io voglia un riscatto in cambio della vostra persona. Abbiamo in mano ricchezze che permetteranno al regno di crescere e potenziarsi, credete che pochi bisanti facciano la differenza?”
L’uomo si inginocchiò in modo da poterlo fissare negli occhi. “No, voi siete vivo perché non è mia abitudine uccidere se non è necessario. So che vi parrà assurdo, ma siete fortunato: ho conquistato la più grande città del mondo e, pur potendo fare di essa ciò che voglio, la sto trattando col rispetto che merita. Porteremo via tutte le ricchezze che potremo, ma nessuno sarà ucciso e i miei uomini hanno tassativo ordine di non darsi ad alcun tipo di saccheggio.” Si volse e diede alcuni ordini che Romano non comprese, non conosceva il georgiano. Una lingua di pastori, perché dovrei conoscerla?, gli disse la sua mente. Ma erano stati dei pastori a infliggergli quella disfatta e per la prima volta in vita sua Romano Paleologo si rese conto che doveva mutare visione del mondo. Se egli avesse conquistato la capitale della Georgia non gli sarebbe passato certo per la mente di non saccheggiarla, avrebbe invece cercato di accaparrarsi la fetta più grossa.

“E quelle fiamme?”

“Quelle? La notte è scura e le fiaccole aiutano a vedere. O pensavate che fossero incendi?”

Romano stava per rispondere che dai barbari ci si poteva aspettare di tutto, ma frenò la lingua e non disse nulla. Un altro drappello di cavalieri arrivò nella piazza: conducevano due uomini legati con corde. Uno dei due Romano non lo conosceva, dagli abiti doveva essere un georgiano; l’altro invece era il comandante dei mercenari franchi. La sua veste era per metà coperta di sangue e aveva un brutto taglio sopra l’occhio sinistro, ma per il resto pareva in buone condizioni.
Il capo del drappello salutò rispettosamente e disse poche frasi. L’uomo dal mantello rossocrociato lo ascoltò in silenzio, fissando ora uno ora l’altro dei due prigionieri. Poi congedò con un gesto i cavalieri e si volse verso Romano.

“Un mercenario e un saccheggiatore”, commentò indicandoglieli. Chiamò a sé l’uomo che aveva fatto la guardia a Romano e questi estrasse la propria spada. Si avvicinò al soldato georgiano legato e gli immerse la lama nel petto con un unico gesto, estraendola poi dal cadavere e pulendola su suo mantello. Fece per avvicinarsi al franco, ma un gesto lo fermo.

“Vi vedo, come dire, stupefatto.”

“Era un vostro uomo…”, cominciò Romano.

“Senza dubbio, e magari anche un valoroso che oggi ha combattuto con coraggio. Ma era anche un uomo che ha disobbedito a un mio preciso comando, cercando di prendere per sé ciò che non doveva, ciò che serve al suo regno. Il resto si perde davanti a ciò. In quanto a costui”, e indicò il mercenario, “costui è anche peggio, perché ha provato a prendere ciò che non gli spettava da coloro che l’avevano assoldato.”

“Stavo solo prendendo ciò che mi spettava!”, berciò il franco in un pessimo greco fissando con astio Romano Paleologo. “Solo i bisanti che mi hai promesso, bastardo!”.

E con uno scatto improvviso gli si slanciò contro. In mano impugnava un coltello, lo stesso con cui aveva tagliato le proprie corde. Romano se lo vide arrivare addosso e fu invaso da una paura incontrollabile, acuita dal fatto che non poteva fare nulla per evitare ciò che stava per accadere.
Ma il franco non riuscì mai a coprire i pochi passi che li separavano. Il georgiano fu rapidissimo e lo trafisse al fianco con la propria lama, liberandola prima che il mercenario cadesse a terra.

“Stupido tentativo”, commentò ripulendo la lama. Disse qualcosa all’altro uomo, che dall’espressione si stava probabilmente scusando per non essere stato pronto, e tornò a rivolgersi a Romano. “Bene, romeo, credo che sia ora che ci si diparta da questa città. Spero che il messaggio di oggi riecheggi fino alle orecchie del tuo basileus: sfidate la Georgia e il vostro sangue scorrerà. Scioglietelo”, comandò poi.

Romano Paleologo si tirò in piedi a fatica e lo guardò montare a cavallo. “Ma voi chi siete?”, domandò.

“Solo un uomo al servizio della Georgia”, rispose quello e si allontanò, diretto verso la porta dalla quale era entrato ore prima. L’altro georgiano rimase un attimo indietro.

“Ricordati di oggi, greculo”, lo apostrofò. “Ricordati del giorno in cui la tua inutile vita è stata salvata da Oshin Bagration, mepe di Georgia!”
27/05/2012 20:47
 
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Uao mi sono emozionato!
Scrivi un libro hai le qualità!
Per non parlare degli screen e delle immagini ;)








« (...) Noi vogliamo dunque abolire radicalmente la dominazione e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, noi vogliamo che gli uomini affratellati da una solidarietà cosciente e voluta cooperino tutti volontariamente al benessere di tutti; noi vogliamo che la società sia costituita allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo benessere possibile, il massimo possibile sviluppo morale e materiale; noi vogliamo per tutti pane, libertà, amore, scienza. (...) »
( Errico Malatesta, Il Programma Anarchico, 1919
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Mentre il popolo pensa che l’anarchismo sia solo un violento movimento contro lo Stato, l’anarchismo è un qualcosa di molto più sottile e con varie sfumature che una semplice opposizione al potere governativo. Gli anarchici si oppongono all’idea stessa che il potere e il dominio siano necessari per l’esistenza di una società, ed in alternativa vogliono la creazione di forme di organizzazione sociale, politica ed economica cooperative e non gerarchiche. (L. Susan Brown, The Politics of Individualism)
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28/05/2012 12:18
 
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ti rinnovo i complimenti e seguo chi mi precede: scrivi un libro, hai talento (copia gratis a me? :D)
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Anno 1199

Oshin Bagration colse l’occasione al volo: affondò la lama in profondità nel petto scoperto del suo avversario e percepì distintamente la vita che se ne andava. Ritirò la spada con un gesto secco e fece scartare il cavallo, evitando che il corpo di Berke, wali dei Selgiuchidi, gli rovinasse addosso.

Non ebbe bisogno di guardarsi attorno per sapere che l’esercito nemico si stava ritirando disordinatamente, tallonato dai suoi soldati. Ma c’era ancora molto da fare, ne era conscio. Aveva schiacciato come un serpente un’armata turca, ma la campagna era solamente all’inizio.







“Poche cariche ben indirizzate e un sapiente uso degli arcieri a cavallo, ecco in sintesi come sono andate le cose”, riferì Ivane Orbeli al consiglio di guerra. Il vecchio guerriero ormai si era completamente incanutito, ma l’età era ben lungi dal prendere il sopravvento; era ancora una mente acuta e un aiuto insostituibile per Oshin.

“Perdite?”

“Molto contenute”, rispose Erets Orbeli con la sua solita aria compiaciuta. Gli anni passavano anche per lui, ma sembrava sempre un ragazzo smanioso di ottenere nuove vittorie e di menare le mani. “Praticamente nessun contingente è sottodimensionato, sono tutti pronti per la seconda fase.”

“Eccellente. Gli esploratori hanno riferito cosa combinano le altre armate nemiche?”

“Sì, mio signore.” A rispondere questa volta era stato Vassak, il più giovane dei figli di Ivane. Alto e biondo, famoso a corte per la sua passione per le belle donne, Vassak rappresentava un po’ la pecora nera della potente casata Orbeli. All’inizio si era cercato di farlo diventare un governatore, ma ben presto ci si era resi conto che sperperava senza troppo pensare e questo le casse del regno non potevano sostenerlo. Contemporaneamente compiti militari rilevanti non ve n’erano, i posti chiave erano in mano a persone ben più qualificate. Perfino la carica di ammiraglio era già occupata, per di più da uno dei suoi fratelli, Hetoum.
Così, dopo anni passati a oziare a Trapezous sul mar Nero, Oshin aveva deciso che era tempo che Vassak facesse qualcosa di utile per il regno e l’aveva precettato per la campagna di quell’anno. E per ora si stava comportando decentemente.

“E?”

“Un’armata è in marcia verso di noi, gli esploratori stimano che non sia a più di 15 leghe. L’altra si trova decisamente più a nord, praticamente ai confini con la regione di Amaseia.”

“Pertanto possiamo per ora lasciarla perdere. Voglio tutti pronti a muovere un’ora dopo l’alba. Ivane, voi assumerete il comando dell’ala sinistra, con musellem e egriseli. Erets, a voi il comando dei monaspa e del centro, abbiatene cura. Vassak, voi invece prenderete il comando degli eristavi e occuperete l’ala destra. Domande? Allora buon riposo e che Dio sia con voi domani.”

Usciti i generali, Oshin comandò che chiamassero il suo attendente. Questi arrivò poco dopo e si fermò praticamente sulla soglia, restando in attesa a capo chino. Oshin rimase a fissarlo a lungo. “Non startene lì impalato, entra”, disse poi.

L’uomo mosse alcuni passi. “Cosa desiderate, mio signore?”

“Parlare. E quale miglior compagno di discorsi di uno che si è destreggiato per anni nell’infida corte romea?”

“Quell’uomo è morto da anni.”

“Mi sembri in salute per essere un cadavere”, rise Oshin. “Quant’è, cinque anni?”

“Cinque anni, tre mesi e sedici giorni. Mio signore.”

“E non hai mai nostalgia, non pensi mai di aver commesso un errore? Oggi sarai anche l’attendente di un re, ma ieri eri un membro della casata dei Paleologhi, eparco della Capitale.” Lo guardò. “Allora?”

“Cinque anni fa avrei condannato alla fustigazione chiunque avesse osato predirmi che un giorno avrei servito come attendente. Ma questo era un tempo, prima che il mio mondo e le mie convinzioni venissero spazzate via dalle vostre azioni.” Romano Paleologo alzò finalmente lo sguardo sul suo signore. “Vi devo due volte la vita e sono pienamente soddisfatto del mio ruolo attuale.”

“Due volte, dici?”

“Dubito che il basileus sarebbe stato tenero nei miei riguardi se mi avesse messo le mani addosso. Ero di una casata rivale e avevo tantissimo potere: sarebbe stata un’occasione irripetibile per levarmi di mezzo senza sporcarsi le mani. Prendendomi al vostro servizio mi avete permesso di aver salva la vita, pertanto ve la devo due volte.”

“In effetti. Ma ora abbiamo problemi più urgenti. Non pensavo che i turchi riuscissero a riprendersi così rapidamente; dieci anni fa erano ridotti a niente, possedevano solamente Ankara con poche uomini e Mardin con un esercito di miliziani. Oggi hanno solo Ankara ma riescono a sostenere le spese per quattro armate complete, impendendomi qualsivoglia spostamento di truppe da Kaysareia.” Oshin batté il dito sulla carta. “Sinceramente era convinto che dopo la conquista abbaside di Mardin sarei riuscito a farli ragionare.”

“Voi vi pieghereste sapendo di essere spalleggiato e continuamente rifornito di danaro?”

“Intendi il tuo antico signore? In effetti non mi stupisce, Sono mesi che le armate di Bisanzio sconfinano in Cappadocia.”

“Certamente il basileus foraggia il turco, ma buona parte delle sue risorse sono dirette contro i Cumani, a settentrione.”

“Kiev, vero?”

“Le ultime informative danno per certa la caduta della città. Le spie pensano che il prossimo passo sarà la roccaforte cumana di Peryaslav.”

“Ho letto i resoconti e non mi piacciono affatto. Il che vuol dire che mi toccherà intervenire per riequilibrare la situazione.” Lo sguardo di Oshin si spostò sulla parte inferiore della carta. “Ma tu non ti riferivi al basileus prima, vero?”

“No, pensavo più che altro al rex latinorum. Dopotutto, sebbene senza attività militari, lo stato di guerra permane e il munifico dono che avete fatto loro non ha bloccato tentativi sotterranei di appoggio ai vostri avversari.”

“Fin troppo munifico concedere loro l’intera Tracia con annessa Konstantinoupolis”, grugnì Oshin. “ma così facendo ho spezzato la continuità territoriale della basileia e costringerò il basileus a una guerra con Gerusalemme se rivuole la sua capitale. Pensi la rivoglia?”

“E chi non la vorrebbe?”

“Io no, l’avevo e l’ho lasciata andare.”

“E perché l’avete fatto?”

“Perché non ero in grado di difenderla. Se qualcuno deve diventare mio suddito è giusto che ottenga in cambio la sicurezza che io possa difenderlo. E lì non potevo. Non coi turchi in pieno riarmamento, i crociati che ammassano truppe ad Adana e i bizantini che sconfinano in Cappadocia.”

“Cosa che dimostra che l’uomo che mi ha stravolto la vita è veramente quella personalità fuor dal comune che ho percepito.”

“Adesso dimmi che questo non lo hai imparato alla corte del basileus!”

Romano Paleologo si concesse una breve risata assieme al suo signore. “Certe abitudini sono dure a morire, mio signore”, si scusò.

“E sai ancora maneggiare la spada? In questi cinque anni hai impugnato solamente la mia e solo per pulirla o rifarle il filo.”

“Non sono mai stato un guerriero provetto, ma credo di essere ancora in grado.”

“Bene. Perché da domani ti voglio al mio fianco. Non vorrai privare i turchi della tua presenza, spero.”

“Non lo farò”, promise Romano.



L’esercito georgiano fu pronto a muoversi secondo i tempi stabiliti e la lunga fila di cavalieri si snodò per le collinose lande dell’Anadolu. In testa a tutti, a fare da esploratori, cavalcavano i musellem, turchi che avevano scelto di mettersi al servizio della Georgia contro i loro precedenti padroni. Erano soldati abili e feroci, consapevoli che per loro esisteva solamente la vittoria o la morte; difficilmente avrebbero ottenuto clemenza dai loro avversari.
Oshin cavalcava al centro della colonna, con accanto il proprio portastendardo e Romano Paleologo. Quest’ultimo sembrava nervoso e Oshin poteva comprenderlo: anni lontano dai campi di battaglia privavano un uomo della necessaria tranquillità. Ma era certo che al momento giusto avrebbe combattuto bene.

Le prime avvisaglie dell’armata turca non tardarono a manifestarsi: agitazione nell’avanguardia suggerì a Oshin che il tempo della battaglia era nuovamente giunto. Spronò il cavallo e raggiunse Ivane Orbeli in testa all’esercito.

“Allora?”

“I musellem hanno avvistato il nemico a un paio di leghe da qui, non di più. Principalmente fanteria sharqiyyun e ghilman, con fursan a sostegno. E ovviamente tawashi e turkmann.”

“Ovviamente”, assentì Oshin. Si guardò attorno. Poco più avanti si vedevano alcuni declivi, che formavano una sorta di pianoro da cui si poteva dominare una buona parte dell’areale circostante. “Ivane, occupa rapidamente quelle alture e bersaglia il nemico appena sarà a tiro. Erets, tu coi monaspa fa un giro più largo e sali di lato, tenendoti celato alla vista del nemico. Io mi porterò sulla collina più alta assieme agli eristavi. Non credo che ci sia bisogno che vi dica altro, se non augurarvi che Dio sia con noi.”

Ognuno tornò alle proprie posizioni e l’armata georgiana si divise in tre tronconi, ciascuno diretto al suo obbiettivo. Oshin ritornò dai propri oikeioi e trovò Vassak Orbeli ad aspettarlo. Rapidamente lo mise al corrente del suo piano e si misero in marcia.

Le prime frecce cominciarono a sibilare nell’aria mentre gli eristavi stavano muovendosi tortuosamente lungo il fianco della collina. Ci vollero quasi venti minuti ancora prima che Oshin arrivasse in cima e avesse finalmente una visione chiara del campo di battaglia.



Lontano, alla sua sinistra, Ivane Orbeli aveva schierato egriseli e musellem in formazione ad arco e in quel momento stavano duellando a distanza con i tawashi e i turkmann. Era uno scontro del tutto impari per i selgiuchidi, in inferiorità numerica e costretti a tirare dal basso verso l’alto; ma per ora combattevano.





Il resto dell’esercito turco si trovava nella piana alle loro spalle, intendo a marciare il più velocemente possibile per dare sostegno ai propri compagni. Il comandante turco non doveva avere ancora una chiara visione di come la situazione si andava evolvendo, perché teneva tutta la propria cavalleria in retroguardia e non sulle ali. Ma era questione di tempo, avrebbe capito prima o poi.

Capì quando la lunga fila dei monaspa apparve minacciosa sulle alture; ma Oshin non aveva alcuna intenzione di lasciar tempo ai turchi di cercare una contromossa.

“Ordinate a Erets Orbeli di caricare a fondo”, comandò con tono imperioso, “e mandatemi Vassak Orbeli, subito!”

Vassak arrivò poco dopo, chiaramente teso. “Vedete il nemico?”, lo apostrofò il mepe. Non attese risposta e proseguì: “Fra poco vostro fratello guiderà i monaspa alla carica contro il fianco turco. Se il generale nemico non è un totale imbecille cercherà di aiutare i propri soldati caricando a sua volta. Ma così facendo si troverà completamente esposto al nostro attacco, che tu dovrai guidare senza indugio.
Se, invece, dovesse dimostrarsi un vigliacco e restarsene dietro,…non importa, sarà comunque alla nostra mercé e dovrai caricare egualmente. Chiaro?”

“Chiarissimo, mio re”, replicò Vassak allontanandosi subito.

“Siete sicuro che farà ciò che deve al momento giusto?”, domandò Romano avvicinandosi. Oshin grugnì.

“Lo farà, lo farà. Se non lo fa poi dovrà affrontare la mia ira e quella di suo padre; credo che, non riuscendo a decidere cosa sia peggio, opterà per fare ciò che deve.”

“Molto astuto”, convenne Romano. Oshin però non lo stava ascoltando: i monaspa stavano cominciando la carica. Il suono lugubre di un corno ne portava la notizia e i vessilli rossi come la fiamma delle singole compagnie sventolavano al vento, sovrastati da quello bianco rossocrociato di Georgia. Dalla sua posizione Oshin aveva una perfetta visuale e poté vedere distintamente la paura impadronirsi dei ranghi turchi, mentre la muraglia corazzata dei monaspa si slanciava per il fianco della collina. Alcuni provarono a reggere, altri addirittura ad attaccare, molti a ritirarsi: ma tutti vennero spazzati via dal brutale impatto di quasi duemila cavalieri corazzati lanciati a piene velocità. Diversi fanti turchi furono addirittura scagliati in aria tanto violentemente vennero colpiti.



Il comandante turco, resosi conto che doveva assolutamente tappare la falla, diede ordine ai propri fursan di attaccare il nemico. E subito Oshin udì la voce di Vassak comandare la carica. Era troppo presto, si rese conto il mepe, rischiavano di trovarsi di fronte un nemico pronto invece di uno del tutto ignaro. Ciò nonostante sapeva che la vittoria non era più in discussione, i monaspa aveva compiuto troppi danni e, in lontananza, si notavano i primi cavalleggeri selgiuchidi che si ritiravano. Così diede di sprone, subito seguito dai suoi oikeioi.
Se Vassak aveva affrettato i tempi della carica esponendosi a un mezzo fallimento, la fortuna non girava decisamente dalla parte dei turchi: infatti il generale selgiuchide non si avvide della cosa, concentrato com’era sui propri uomini che venivano macellati e sulla battaglia che ormai gli era sfuggita di mano. Così l’onda degli eristavi lo colse del tutto impreparato e diede il colpo di grazia a uno schieramento nemico fin troppo provato, decretando la fine della battaglia e l’inizio della caccia.





Oshin concesse ai suoi uomini solamente un giorno di completo riposo, poi ordinò di riprendere la marcia. C’era ancora un esercito turco e non era impossibile che il suo comandante decidesse di marciare verso Amaseia, non particolarmente difesa. Da quando, cinque anni prima, Oshin aveva espugnato Amastris e l’aveva ceduta agli alleati Egiziani, la guarnigione era stata drasticamente ridotta e non era in grado di reggere un assedio da parte di una vasta armata come quella turca.

“Quanto tempo è passato dall’inizio della campagna?”, domandò Ivane Orbeli il quinto giorno di marcia. Avevano ormai lasciato la pianura e si stavano inerpicando fra colline sassose verso le montagna, alla caccia di un nemico che, per ora almeno, non pareva intenzionato a farsi trovare.

“Circa un mese e mezzo”, replicò Oshin. Era piuttosto pensieroso da quando, quattro giorni prima, un messaggero era arrivato da Kaysareia.

“Posso rispettosamente chiedervi che cosa vi turba, mio signore?”

“Con tutta questa pompa? Sai perfettamente che non serve, Ivane.”

“Ho pensato che fosse più appropriato. Ogni tanto è bene che il rispetto dovuto a un re sia ricordato da tutti, compresi i grandi nobili.”

Oshin lo fissò per un istante. “Non ve ne fidate, vero?”

“Scusate?”

“Del mio attendente.”

“Dovrei? Abbiamo solamente la sua parola e la vostra fiducia. Siete un uomo che sa ben giudicare gli altri, mio signore,…”

“…ma pur sempre un uomo, lo so”, proseguì Oshin. “Eppure questa volta sono certo di non sbagliarmi, quell’uomo è fedele al di là di ogni dubbio.”

“Ho visto che l’avete inserito fra i vostri oikeioi. Tuttavia, se posso, non vi consiglierei di lasciarvelo se dovessimo un indomani scontrarci in campo aperto con eserciti bizantini.”

“Se voleva tagliarmi la gola lo avrebbe già fatto, ha avuto centinaia di occasioni. So che ritenete pericoloso esercitare clemenza verso i propri avversari, ma non sempre questa si ritorce contro.”

“Non intendevo offendervi, maestà.”

“E non lo avete fatto, Ivane.” Oshin gli sorrise. “Come diavolo avete fatto a gestirli?”, domandò poi indicando avanti. Per un istante Ivane Orbeli non comprese.

“I miei figli?”, disse poi. Oshin annuì. “Domanda complessa, mio signore; non saprei dirvi se sia stato peggio quando erano bambini pestiferi o quando sono diventati più grandi.” Ivane lasciò vagare lo sguardo in avanti. “Per caso questa domanda sottende ciò che penso?”

Oshin non rispose per un lungo momento, talmente lungo che Ivane pensò che non lo avrebbe fatto. “Già”, mormorò infine il mepe.

“Maschio?”

“Maschio. Guaram Bagration, così lo ha chiamato Khatun.”

“Ed è questo che vi rende così taciturno?” Ivane si concesse una mezza risata. “Non ditemi che proprio voi siete preoccupato! Si tratta solamente di un bambino.”

“Assurdo, vero? Io che ho affrontato decine di battaglie, che ho strappato al basileus la Città Inespugnabile, che ho sconfitto il principe lebbroso di Gerusalemme, io che in poco più di due mesi, se a Dio piacerà appoggiarci ancora una volta, avrò distrutto la potenza militare dei turchi, io sono spaventato da questo figlio. Non ho la minima idea di come gestire la cosa. Non è un bambino qualsiasi, Ivane; sarà il mio successore, dovrà essere pronto per un compito che sa essere opprimente come nessun altro.”

“Posso farvi una domanda? Voi lo eravate quando, venti anni fa, ci esponeste il piano per conquistare l’Anatolia?” Oshin restò in un silenzio eloquente. “Quando verrà il suo momento lo sarà, non dubitate.”



Finalmente, dopo altri otto giorni di faticosa marcia, le avanguardie avvistarono l’armata nemica. Era composta da un forte nucleo di fanti, con equipaggiamento d’assedio e tawashi e musellem a fungere da avanguardie e fiancheggiatori. Evidentemente il suo compito era quello di marciare veramente su Amaseia, ma le sconfitte patite a sud avevano convinto il sultano a richiamarli per difendere al meglio Ankara.

“Sanno della nostra presenza?”, si informò Oshin appena venne avvisato.

“Forse non ancora, maestà, ma lo sapranno non appena le loro avanguardie arriveranno su quei rilievi. E non dovrebbe mancare molto”, replicò il comandante degli esploratori.

“Allora non abbiamo tempo da buttare via. Ivane, assumente il comando di tutti gli arcieri a cavallo e portatevi il più rapidamente sull’altro lato della valle. Non preoccupatevi di restare celato, anzi; voglio che vi vedano e che si dispongano a battaglia contro di voi. Bersagliateli ma non lasciatevi ingaggiare per nessun motivo.”

Ivane accusò ricevuta e poco dopo metà dell’esercito georgiano era la galoppo nella valle. Quasi contemporaneamente le avanguardie turche li avvistarono e Oshin poté notare Ivane inviare due squadroni di egriseli a impegnare i musellem turchi. Questi vennero rapidamente indotti alla ritirata e gli egriseli si ricongiunsero ai compagni, inerpicandosi poi sui colli.



L’armata turca, nel frattempo, si stava decisamente spostando verso occidente, intenzionata a non lasciarsi bersagliare impunemente dall’alto. I tawashi cercarono di arrivare per primi alle alture, ma furono anticipati dai musellem di Ivane e in breve costretti a ripiegare sotto il costante tiro dei georgiani. Ma il resto dell’esercito era in arrivo e le catapulte turche, per quanto lente, erano un reale pericolo per la cavalleria georgiana.

Erets Orbeli spinse il proprio destriero fino a dove si trovava Oshin.



“Non dovremmo attaccare? Il nemico si sta già schierando.”

“Lo vedo”, replicò laconico il sovrano. “Ma non è ancora il momento.”

“Ma non possiamo…”

“Cosa?” Oshin fissò freddamente Erets per un istante, quindi fece un cenno a Romano Paleologo. “Va a dire a Vassak Orbeli di assumere il comando degli eristavi e di occupare la nostra ala destra. Si disinteressi completamente delle catapulte nemiche e si preoccupi unicamente di impedire ai reparti di cavalieri turchi che si sono ritirati di tornare ad aggredirci.”

Romano corse via e Oshin tornò a voltarsi verso Erets. “La pazienza è una dote fondamentale per un comandante quanto l’audacia. E ora è il momento di attaccare!”, aggiunse a pieni polmoni, puntando la propria spada in avanti.

La cavalleria georgiana partì la piccolo trotto, accelerando viepiù man mano che si appropinquava alle linee turche. Qui gli artiglieri si erano accorti del pericolo, ma ogni richiamo alla fanteria avanti a loro non ebbe alcun effetto ed essi furono presi in pieno dalla carica georgiana, venendo rapidamente dispersi o massacrati.



Con una singola nota di corno Oshin ordinò di rimettersi in posizione di attacco. Ormai le forze turche erano strette fra gli arcieri a cavallo da un lato e la cavalleria pesante dall’altro.



I comandanti turchi cercavano di capire cosa fare, Oshin li vedeva benissimo, ma era conscio che la loro situazione era disperata. Per un brevissimo istante esitò nel dare l’ordine di attacco, quasi preso da pietà nei loro confronti. Poi il suo braccio si abbassò di scatto, i corni tuonarono e il mondo tremò sotto l’impatto di migliaia di zoccoli tambureggianti. Come una marea i cavalieri georgiani aggredirono le forze turche, trafiggendo molti all’impatto. Abbandonate le lance ormai inservibili, i cavalieri misero mano alle spade e presero ritmicamente a sciabolare i fanti che, dal canto loro, provavano a difendersi come potevano, aggrediti da ogni lato.



Oshin combatteva con gesti quasi meccanici, da consumato guerriero. I suoi fendenti erano calmi e sicuri, se andavano a segno cercava un altro bersaglio, se falliva il colpo bastava un piccolo colpo di ginocchia e il destriero scartava quel tanto che bastava da assicurarsi che l’avversario non potesse nuocergli. Dopo aver abbattuto l’ennesimo nemico, il mepe si concesse un attimo per guardare come andava lo scontro.

Era evidente che la situazione dei turchi era più che disperata, solo poche sacche resistevano ancora. Ivane aveva già impegnato i suoi cavalieri rimasti a corto di frecce e centinaia di turchi erano morti o prigionieri. Era fatta, insomma.

Non senti i loro passi sull’erba schiacciata dai cavalli, né il soffio letale della lancia che veniva spinta in avanti. Sentì solamente la punta d’acciaio che bucava la corazza sul fianco e una macchia infinita di dolore oscurargli la visuale. Il suo destriero si imbizzarrì e Oshin scivolò pesantemente a terra. Cercò goffamente di rialzarsi, ma due turchi gli furono addosso e lo inchiodarono al terreno col loro peso. Avevano le facce macchiate di sangue e uno dei due teneva il braccio sinistro innaturalmente steso lungo il corpo. Erano due sconfitti, ma stavano per ottenere un trionfo che avrebbe reso quella vittoria amara come il fiele per il regno di Georgia. Uno dei due sollevò la spada per colpire e Oshin capì che era finita.

Accadde tutto a una velocità paurosa: la spada era a mezza via quando un urlo ruppe la quiete inquietante di quel momento. Poi un uomo attaccò i due turchi con una ferocia terribile. Il primo fendente staccò di netto un braccio a quello colla spada, facendolo ruzzolare di lato in una pozza di sangue e dolore. L’altro provò a mettere mano alla mazza, ma il georgiano lo aggredì e in pochi fendenti lo trafisse da parte a parte. Liberata con un gesto secco la lama dal corpo senza vita del suo avversario, si avvicinò all’altro e senza dire nulla lo decapitò. Poi lasciò cadere la spada e si inginocchiò accanto a Oshin.

“Come state, mio signore?”, domandò con voce estremamente preoccupata. Oshin trovò la forza di sorridere.

“Avete pareggiato il conto”, mormorò, “e avete la gratitudine non solo mia, ma del regno intero.” Poi il dolore si fece troppo forte e il mepe svenne. E non vide le lacrime rigare il volto di Romano Paleologo.

01/06/2012 15:38
 
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Frederick, non mi dire che il Mepe è morto, perché se è morto ti faccio fare la sua stessa fine.
Chiaramente stò scherzando [SM=g27964] .
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Il solito superbo fred [SM=x1140481] [SM=x1140481]




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Non ho nulla da ridire sulla narrazione di Frederick, come al solito fantastica. Faccio però una mezza battuta: i nostri nonni ogni tanto raccontano di come era la guerra, di come la vivevano e di come hanno combattuto. Noi utenti di questo forum ai nostri nipoti racconteremo le nostre campagne a Bellum Crucis? [SM=x1140443]
04/06/2012 10:20
 
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mi sa proprio di sì xD
bravo fred


"Per una scodella d'acqua, rendi un pasto abbondante; per un saluto gentile, prostrati a terra con zelo; per un semplice soldo, ripaga con oro; se ti salvano la vita, non risparmiare la tua. Così parole e azione del saggio riverisci; per ogni piccolo servizio, dà un compenso dieci volte maggiore: chi è davvero nobile, conosce tutti come uno solo e rende con gioia bene per male" - Mahatma Gandhi

"Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo." - Mahatma Gandhi

"You may say I'm a dreamer, but I'm not the only one" - Imagine, John Lennon

"ma é bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile a ogni morso. Bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro dev'essere la scure per il mare gelato dentro di noi." - Franz Kafka

"Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l'intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l'assenteismo e l'indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti." - Antonio Gramsci

http://www.youtube.com/watch?v=_M3dpL4nj3Q
https://www.youtube.com/watch?v=QcvjoWOwnn4
05/06/2012 16:21
 
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fred! se continui così finisco a studiare georgiano e turco all'università, altro che arabo e turco! smettila e non rovinare il mio futuro!!! ahah a parte battute, splendida cronaca, complimenti!
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Bernhard Rothmann (Munster, 13 Gennaio 1534) :i vecchi credenti non vogliono permettere a nessuno di scegliere quale vita condurre, vogliono che voi lavoriate per loro e siate contenti della fede che vi consegnano i dottori. la loro è una fede di condanna, è la fede spacciataci dall'antiscristo! ma noi, fratelli, noi vogliamo redenzione! noi vogliamo libertà e giustizia per tutti! noi vogliamo leggere liberamente la parola del signore e liberamente scegliere chi deve parlarci dal pulpito e chi rappresentarci in consiglio! chi infatti decideva i destini della città prima che lo scacciassimo a pedate? il vescovo. e chi decide ora? i ricchi, i notabili borghigiani, illustri ammiratori di lutero solo perchè la sua dottrina consente loro di resistere al vescovo! e voi, fratelli e sorelle, voi che fate vivere questa città, non potete mettere parola nelle loro sentenze. voi dovete soltanto ubbidire, come sbraita lo stesso lutero dalla sua tana principesca.i vecchi credenti vengono a dirci che i buoni cristiani non possono occuparsi del mondo, che devono coltivare la loro fede in privato, seguitando a subire in silenzio i soprusi, perchè tutti siamo peccatori condannati a espiare. ma il tempo è giunto! i potenti della terra saranno spodestati, i loro scrani cadranno, per mano del signore. cristo non viene a portarci la pace, ma la spada. le porte sono ora aperte per coloro che sapranno osare. se penseranno di schiacciarci con un colpo di spada, con la spada pareremo quel colpo per restituirne cento!!!
08/06/2012 16:22
 
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Anno 1202, Konstanta

Hetoum Orbeli guardò le mura lignee di Konstanta. Accanto a lui i genieri stavano finendo di approntare le catapulte per aprire una breccia, per quanto il compito apparisse molto semplice. Del resto l’intera impresa si era rivelata ben più facile di quanto preventivato. L’ordine di preparare quel raid era arrivato all’inizio dell’anno, ma movimenti navali nemici nel mar Nero avevano costretto Hetoum a rimandare. Cosa che, con tutta probabilità, aveva giocato a favore del colpo di mano georgiano: la campagna estiva aveva portato altre truppe bizantine a nord, verso il cuore delle steppe e la fortezza di Pereyaslav. Gli informatori dicevano che i kipchaq avevano resistito, ma in ogni caso la regione costiera della Bulgaria era completamente sguarnita quando le navi georgiane erano arrivate.
La roccaforte di Asperon era caduta praticamente senza colpo ferire e Hetoum ricordava bene l’espressione di sbigottita sorpresa che aveva invaso il volto del governatore bizantino quando i soldati georgiani avevano fatto irruzione e l’avevano trovato con le brache poco dignitosamente calate e una altrettanto svestita fanciulla nel letto.

E ora erano lì, a Konstanta, con la neve che cadeva fitta e le porte dell’inverno da tempo superate.

“Quanto ci vorrà per aprire una breccia?”

“Poco, mio signore, sono mura deboli e malridotte.”

“Tanto meglio, vorrei chiudere alla svelta questa faccenda.”

Dopo lo scambio di battute con l’artigliere, Hetoum si diresse verso l’ala destra del suo schieramento. Aveva un esercito piccolo e adeguato unicamente per quel genere di guerra, una toccata e fuga di poche ore. Due compagnie di stratiotati e una di psiloi a fare da corollario al battaglione di skoutatoi generosamente concessogli dal mepe. Hetoum non riusciva completamente a capire cosa suo padre e i suoi fratelli ci trovassero di così straordinario in Oshin Bagration. Soprattutto suo padre, il grande Ivane, non era secondo a nessuno e avrebbe dovuto, secondo Hetoum, far sì che sempre meno gloria andasse alle altre casate invece di fare inchini a un Bagration. E pensare che i turchi erano andati a un passo dal compiere l’impresa: senza quel dannato rinnegato romeo ora un altro uomo avrebbe occupato il trono di Tbilissi. Hetoum scacciò il pensiero rivoltoso prima che il livore lo sopraffacesse e arrivò dove lo aspettava un piccolo gruppo di cavalieri. Kipchaq, ecco chi erano, un altro cortese gesto del mepe. Hetoum aveva accolto bene l’idea di comandare quel raid, era gloria che andava a lui e alla sua casata; ma aveva accolto molto meno bene l’idea che tutte le sue conquiste dovevano poi essere restituite ai legittimi proprietari. Perché mai quei barbari delle steppe dovevano avere ciò che già una volta non erano stati in grado di controllare? Ma Hetoum non era così scemo da non capire che non aveva senso opporsi al mepe e, pertanto, aveva preso con sé la delegazione di kipchaq, guidata dal nobile Konchak Terter-Oba. Anche se non capiva perché lui dovesse essere messo sullo stesso piano di quel barbaro coperto di pelli.

“Siete pronto a riprendere possesso della città?”, domandò cercando di assumere un tono di voce cortese. Ma era evidente che i kipchaq sapevano cosa egli pensava di loro.

“Sono qui per questo”, replicò con una punta di freddezza Konchak Terter-Oba. “Portate al vostro signore la nostra gratitudine imperitura e l’assicurazione che avrà sempre l’amicizia del khan.”

“Riferirò le vostre parole al mepe, sono certo che le apprezzerà.” Hetoum stava per aggiungere qualcosa quando un boato sordo annunciò la prima scarica di pietre contro le mura di Konstanta. Anche a quella distanza si udì distintamente il gemito quasi umano che il legno produsse sotto quei colpi feroci, esplicando così al mondo che non avrebbe resistito a lungo.



Hetoum ne approfittò per congedarsi dai kipchaq e per andare a controllare che i suoi ordini fossero stati eseguiti. Le truppe erano state divise in due tronconi, con metà degli stratiotai e gli psiloi da una parte, skoutatoi e l’altra metà degli stratiotai a formare la seconda colonna d’attacco.
La neve continuava a cadere lenta sulla città e i suoi dintorni, stendendo la sua bianca coltre ovunque. Hetoum vide parecchi soldati togliere i fiocchi dagli elmi per non avere la visuale occultata. Poi le catapulte completarono il loro lavoro e arrivò il tempo di combattere.

Con un cenno secco del braccio Hetoum ordinò di iniziare l’avanzata. Stratiotai e skoutatoi si mossero verso la città, passando accanto alle catapulte che, intanto, avevano mutato obbiettivo e si apprestavano a tempestare un altro pezzo di mura. Gli stendardi sventolavano schivi nell’aria praticamente immota, appesantiti dalla neve.
Dalla sua posizione Hetoum aveva una decente vista sulla città e sulla posizione che stava per essere attaccata. Si vedevano gruppo di uomini che correvano di qua e di là, accorrendo verso la breccia. Ma gli skoutatoi ormai erano arrivati e stavano già sciamando dentro Konstanta.



Spostando la propria attenzione sull’altro punto delle mura che intendeva attaccare, Hetoum notò con soddisfazione che ormai le mura stavano cedendo anche lì. Comandò che l’altra colonna si mettesse in marcia e andasse a occupare rapidamente l’obbiettivo; quindi avviò il suo cavallo verso la città, seguito dai suoi oikeioi.

Quando arrivò in città la situazione era in fase di evidente stallo. L’attacco degli skoutatoi aveva messo in crisi le forze romee ma, esauritosi l’impeto della carica, i fanti georgiani si erano trovati alle prese con la strenua resistenza delle milizie bulgare, armate di lunghe alabarde, e degli akritai bizantini, arrivati a dar man forte ai compagni. L’intervento degli stratiotai aveva attenuato la pressione, ma la situazione era comunque di stasi.



Era una cosa che Hetoum non intendeva permettere e lanciò nella mischia i propri oikeioi. Che, ovviamente, fecero pendere irrimediabilmente la bilancia dalla parte della Georgia. La conquista della porta orientale da parte della seconda colonna georgiana fece comprendere alle truppe romee che la giornata era perduta e in breve ogni resistenza cessò. La battaglia era vinta.



Un’ora dopo Hetoum consegnò la città a Konchak Terter-Oba, come da ordini ricevuti, per quanto questo non gli piacesse affatto. Poi le truppe georgiane si rimisero in marcia, dirette alla costa dove le attendevano le navi. Si tornava a casa.
08/06/2012 16:24
 
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Intanto ringrazio tutti per i complimenti, spero di essere sempre all'altezza delle aspettative. Anche se magari non con questo aggiornamento, è roba da poco e messo giù alla fine di una settimana defatigante.
Ma il prossimo sarà più succoso, promesso [SM=g27960]
08/06/2012 21:28
 
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Scherzi frederick? A me è piaciuto moltissimo! Bravo! [SM=x1140522]
09/06/2012 01:10
 
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il mepe è vivo! Comunque complimenti per la cronaca, sempre molto avvincente
12/06/2012 16:18
 
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Anno 1203, Ankara

Di nuovo Anadolu. Era scritto nel suo destino, non poteva evitarlo. Oshin Bagration lo sapeva. Probabilmente lo aveva sempre saputo ma aveva cercato ogni altra via possibile. Solo che non ce n’erano. Per cui ora sono qui, pensò, a fare ciò che avrei dovuto fare già quattro anni fa. A chiudere il conto coi Kutalmish.

Oshin aveva impiegato parecchio tempo a recuperare pienamente dalla ferita quasi mortale che aveva patito nella precedente campagna. Se in quel frangente il regno aveva prosperato ed era rimasto in pace era dovuto al fatto che chiunque nei dintorni guardava con sempre maggior rispetto e timore ai Georgiani. Addirittura, nell’estate del 1201, gli emissari di Oshin erano riusciti a combinare il matrimonio dell’anziano principe reggente georgiano con una delle sorelle del rex latinorum.

Peraltro questa alleanza non aveva interrotto del tutto il flusso di denaro che da Gerusalemme e Adrianoupolis – diventata capitale romea dopo il 1194 – andava a riempire le casse del sultano selgiuchide. Il quale, ovviamente, aveva immediatamente usato quel denaro per ricostruire la propria forza militare.

Solo che questa volta le cose sarebbero andate diversamente. Invece di distruggere ancora le armate turche, Oshin aveva deciso di puntare direttamente al cuore del nemico, a conquistare la fortezza di Ankara e a delegittimare completamente la dinastia. Anche perché gli informatori riferivano che il sultano era ormai moribondo e il suo erede aveva tanto sangue Kutalmish quanto un gatto.

L’armata georgiana era in buona parte composta dai veterani delle guerre selgiuchidi, gli stessi coi quali Oshin aveva messo a ferro e fuoco l’Anadolu quattro anni prima. Egriseli, musellem, eristavi, monaspa. In più c’erano alcuni squadroni di vishap, i temibili cavalieri pesanti armeni.

Mancavano tutti gli Orbeli, però. Ivane era rimasto a Sebasteia in qualità di governatore, la progressiva cecità che lo aveva colpito lo rendeva ormai inadeguato alla vita militare. Era stato un duro colpo per Oshin vedere quell’uomo su cui così tante volte aveva fatto affidamento diventare una persona che doveva girare perennemente accompagnata da servitori perché, altrimenti, non riusciva più a trovare la via. Ma Ivane gli aveva detto che era giusto così, il suo tempo stava giungendo alla fine e il buon Dio intendeva farglielo passare nella tranquillità.
Così Oshin non aveva voluto nessun altro nobile con sé: aveva mandato Erets a riassumere le redini del governo ad Amaseia e destinato Vassak a sorvegliare la Cappadocia. Poi era partito e, con una audace marcia fra le linee bizantine, aveva aggirato tutte le difese turche ed era entrato in Anadolu da sud, da dove i turchi non lo aspettavano.

Erano in un luogo perfetto per una battaglia, una vasta piana accarezzata dal vento che si estendeva a perdita d’occhio. In lontananza nuvole di polvere indicavano che l’armata selgiuchide stava disordinatamente avanzando. Da quanto Oshin sapeva era comandata da due nobili di secondo rango, gente che cercava di emergere in uno stato ormai privo di vere e proprie dinastie nobiliari. Che uomini fossero non lo sapeva né gli importava. Che venissero in sessantamila, non sarebbe cambiato nulla. Quel giorno la vittoria avrebbe arriso alla Georgia ancora una volta e il nome dei turchi sarebbe rimasto nel gran libro della Storia unicamente per glorificare chi li aveva cancellati.

“Sembrano determinati, mio signore.” Romano Paleologo era al suo fianco, come sempre. I segni dell’età erano ben visibili sul volto del greco e i suoi capelli un tempo castani erano sempre più venati di argento. Ma il suo sguardo era forte come sempre e la sua determinazione anche di più. Il mantello rosso bordato d’oro che gli cadeva sulle spalle era il simbolo di dove era riuscito ad arrivare pur essendosi spogliato di quella superiorità che l’aveva caratterizzato quando era eparco di Konstantinoupolis: poche cariche erano più importanti nel regno di quella di comandante degli oikeioi del mepe.

“Ho come l’impressione che uno qualunque di quegli uomini darebbe l’anima pur di non essere là, nella polvere, ad avanzare contro di noi”, rispose Oshin giocherellando con l’elsa della spada. “Sanno cosa li attende.”

“Più che altro sanno chi li attende, mio signore. Il vostro nome è leggenda fra i Turchi, temuto e ammirato quanto quello di nessun altro.”

“A quanto pare non abbastanza, visto che quell’idiota del Sultano preferisce continuare a usare i suoi uomini come carne da macello piuttosto che fare il loro bene a prezzo di un po’ del proprio orgoglio.”

“Riconoscere la verità è cosa complicata, mio signore, e a volte non la vediamo nemmeno se ce la troviamo sotto gli occhi.”

“Fin troppo vero. Non volevo arrivare a questo, Romano, non volevo dover annientare con la forza un nemico che domani avrebbe potuto diventare nostro alleato. Ho provato di tutto per evitarlo, ma a quanto pare questo è il destino che Dio ha in serbo per i Turchi.”

Un esploratore arrivò al galoppo. “Il nemico si sta schierando, Vostra Altezza.”

Oshin accusò ricevuta con un breve cenno del capo e l’esploratore ripartì per tornare alla sua unità. Erano a circa una lega, valutò il mepe con occhio esperto. Una lega di terreno pianeggiante e erboso. Pessima scelta da parte dei comandanti selgiuchidi, ma l’avrebbero scoperto troppo tardi. Spinse il destriero davanti alle truppe.

“Soldati!”, urlò per farsi sentire. “Non credo di dovervi ispirare, so che farete il vostro dovere fino in fondo come avete sempre fatto. So che alla fine di questa giornata sarò ancora una volta fiero di voi, fiero di aver combattuto al vostro fianco. Là”, e indicò alle proprie spalle, “ci aspettano i nemici. Sono più di noi, come sempre. Ma questo non li salverà, come non li ha salvati in passato. Perché loro sono soli, mentre Dio è con noi. E sotto la sua protezione noi non perderemo mai.”

Levò la spada al cielo mentre un boato attraversava le file dei cavalieri georgiani. Centinaia di vessilli garrivano al vento, inondando il cielo di croci rosse in campo bianco. Poi i corni emisero le loro profonde note e i soldati si ricomposero, impugnando lance, archi e spade.
Oshin aveva preso posizione all’estremità sinistra dello schieramento e fu da lì che diede ordine di avanzare.



La lunga linea di cavalieri georgiani, spessa quattro ranghi, prese a muoversi al passo, sollevando nuvolette di polvere che subito il vento disperdeva. Le corazze luccicavano al sole, che si divertiva a giocare coi riflessi delle lame e degli elmi. I cavalli sbuffavano per l’impazienza, qualcuno nitriva all’indirizzo dei turchi lontani in segno di sfida.

A 800 metri Oshin abbassò la spada una prima volta e l’intera massa dell’esercito georgiano aumentò l’andatura, raggiungendo il trotto. Ora la polvere era un muro compatto alle loro spalle in cui i raggi del sole faticavano ad aprirsi la via. Ma le bandiere sventolavano fiere, in un tripudio di bianco rosso, giallo e azzurro.
Oshin cavalcava alle spalle di Romano Paleologo e del portastendardo, la spada stretta in pugno, il mantello bianco che svolazzava dietro di lui. Il suo destriero era ansioso di lanciarsi nella mischia, tanto che doveva di tanto in tanto tirare le briglia per riportarlo all’ordine. Avanti, il nemico era ancora impegnato nelle manovre di assestamento della linea, ma agli occhi di Oshin appariva evidente che non sarebbe riuscito a completare le mosse in tempo utile. Ormai erano a non più di 400 metri e il tempo dei turchi stava rapidamente esaurendosi.

Con un gesto secco Oshin Bagration calò nuovamente la spada. Subito cento corni ripercossero il suo ordine in tutto l’esercito e diecimila cavalieri si slanciarono alla carica nella piana. Il terreno tremava sotto il tambureggiare degli zoccoli dei destrieri, che ora parevano volare come angeli sterminatori verso il nemico. Migliaia di lance mandavano barbagli di morte, mentre nugoli di frecce oscuravano il cielo e saettavano verso i Turchi.
A Oshin per un breve istante parve quasi che fossero i nemici a correre loro incontro. Poi arrivò l’impatto, devastante, e tutto scomparve in un turbine di polvere, acciaio e sangue. Le prime linee dei battaglioni turchi si dissolsero sotto la carica furente dei georgiani e in più punti i cavalieri trapassarono completamente lo schieramento, ritrovandosi alle spalle del nemico.







In breve la battaglia divenne un massacro, coi turchi impotenti che venivano sterminati dai georgiani. Finì tutto in meno di un’ora e il sole era ancora ben alto nel cielo quando l’ultimo soldato turco si arrese.
“La vittoria è
vostra, mio mepe!”, lo salutò uno dei comandanti dei monaspa. “I pochi sopravvissuti sono in fuga verso i monti, non dobbiamo temere nulla da loro.”

“Eccellente. Avete già una stima delle perdite?”

“Non è ancora completa, ma posso dire che sono piuttosto contenute. Solamente i ghilman hanno opposto una vera resistenza.”

Oshin lo congedò con un gesto e inspirò profondamente. Era finita, dunque. Ventiquattro anni dopo, il sultanato selgiuchide di Rum non esisteva più. O, per meglio dire, era alla sua completa mercé. Per un istante pensò di inviare qualcuno a negoziare un accordo di sudditanza. Ma fu solo un momento. La guerra dà al vincitore il diritto di fare al vinto ciò che vuole. Non era così che aveva detto il grande condottiero romano Cesare, secoli e secoli prima? Una cosa del genere. E Oshin Bagration, mepe di Georgia, avrebbe fatto ciò che era venuto a fare: la popolazione sarebbe stata risparmiata, Ankyra occupata senza saccheggio. Ma il potere dei Kutalmish finiva lì.







Anno 1203, Darbend

Faceva un freddo pungente e il vento soffiava cattivo nella gelida alba invernale. I soldati, quasi tutti coscritti male armati e poco coperti, rabbrividivano sul posto, cercando calore l’un l’altro nei ranghi serrati. Più avanti alcuni serventi sbuffavano mentre caricavano pesanti macigni sulle rozze catapulte lignee.

Ma né il vento né il freddo facevano alcun effetto su Konstantine Artuqid. Il giovane comandante stava fermo in sella al proprio destriero, accanto al portastendardo dei suoi oikeioi. La bandiera con la croce rossa in campo bianco sventolava furiosamente sotto gli attacchi del vento della steppa. Era la bandiera che suo padre aveva scelto di servire, abbandonando il trono di Mardin per seguire le grazie di una principessa georgiana. Era la bandiera che l’aveva portato a diventare governatore di Ganja, in teoria difensore del regno contro i Corasmi, in realtà occupante del posto meno desiderato dell’intera Georgia. Era lì che Konstantine era cresciuto, all’ombra del Caucaso, dimenticato praticamente da tutti. Eppure egli era figlio della sorella del mepe Giorgi e, quindi, cugino nientemeno che di Oshin Bagration istesso.

Era una parentela pericolosa, che tuttavia gli aveva aperto le porte delle migliori scuole di Tbilissi quando aveva compiuto i sedici anni. Alla capitale aveva studiato per diventare un nobile servitore del Regno, dividendo equamente le sue giornate fra materie economiche e addestramenti militari. Ma aveva anche subito insulti e spregi: la scelta di sua madre di concedersi a un principe islamico di basso rango aveva destato scalpore all’epoca e solamente i trionfi della guerra turca avevano fatto sì che le chiacchiere dei potenti smettessero di occuparsi della cosa. Ma ovviamente la comparsa di Konstantine a Tbilissi aveva risvegliato la questione.

Ancora ricordava come la sua presenza fosse riuscita a far andare d’accordo nientemeno che Abuletisdze e Orbeli, solitamente cordiali nemici. Ma i due rampolli di quelle nobili casate che avevano studiato con lui avevano deciso che era meglio accantonare l’inimicizia fra loro per dedicarsi a farlo sentire un verme. Ed era andata avanti a lungo, almeno fino a quando Konstantine non aveva avuto la pessima idea, a sentire Gurgan Abuletisdze, di mettere gli occhi su una certa Margarid, una ragazza di una nobile casata dell’Armenia, nativa di Ani. Konstantine era quasi certo che a Gurgan quella ragazza non interessasse affatto, ma che avesse fatto ciò che aveva fatto unicamente per insultarlo; fatto sta che alla fine Konstantine non ci aveva visto più e aveva reagito agli insulti con altri insulti. Mentre lo faceva sentiva che era ciò che l’altro voleva, ma non aveva saputo trattenersi. L’infamia, come l’aveva definita Gurgan Abuletisdze, aveva generato un duello riparatore.

E da lì tutto era mutato.
Perché Konstantine Artuqid aveva impartito a Gurgan Abuletisdze una lezione che difficilmente quest’ultimo avrebbe dimenticato: gli sarebbe bastato fissarsi in uno specchio per avere la prova costante della sua inferiorità, una frastagliata cicatrice lungo la guancia destra.

Ovviamente la cosa aveva suscitato un vespaio clamoroso, con gli Abuletisdze che avevano fatto appello a ogni autorità affinché il moccioso dell’islamico e della sgualdrina georgiana fosse severamente punito.

Purtroppo per loro e per fortuna di Konstantine avevano scelto il momento meno adatto. Oshin Bagration era tornato alla capitale per una breve visita al principe reggente (che era un Abuletisdze) e per ritemprarsi dopo la prima campagna in Anadolu. E il suo giudizio non aveva dato ragione agli Abuletisdze.
Così Konstantine aveva potuto continuare gli studi e diplomarsi, nonché continuare a frequentare Margarid d’Armenia. Ormai erano promessi, si sarebbero sposati al suo ritorno da quell’impresa. Ma prima di tutto Darbend andava conquistata.

In linea teorica avrebbe dovuto trattarsi di una cosa di poco conto, il signore di Darbend era un uomo che aveva più a cuore le tratte commerciali che il potere. Tuttavia manteneva in costante servizio alcuni contingenti di fanti di varia natura, per assicurare libero transito ai mercanti che arrivavano nella città. Soprattutto aveva due contingenti di Shirvans, che formavano il nerbo della difesa. E Konstantine sapeva bene che scherzare con un shirvan era un buon modo per incontrare più rapidamente il Creatore.
In ogni caso un’armata georgiana regolare avrebbe preso Darbend con scarse difficoltà. Ma le risorse del Regno erano tutte devolute alle campagne anatoliche e al contenimento della potenza bizantina, per cui tutto ciò di cui disponeva erano stratiotai e psiloi. Il che rendeva l’impresa più ardua del previsto.

Un grosso artigliere dal naso camuso gli si avvicinò. “Siamo pronti, mio signore”, grugnì chiaramente a disagio.



Konstantine fece cenno di cominciare le danze e rimase a osservare la grossa catapulta che veniva azionata e scagliava il pesante pezzo di pietra contro le mura di Darbend, circa 400 metri più avanti. L’impatto fece gemere il legname in modo sinistro, ma le mura ressero. Ma non lo avrebbero fatto a lungo, era chiaro.

Konstantine Artuqid si voltò verso un attendente. “Quando le catapulte avranno completato la loro opera voglio che tutti i contingenti di stratiotai sciamino in città. Ma non per darsi alla pazza gioia. Voglio che formino una linea compatta davanti alle mura, lasciando spazio affinché gli psiloi possano occuparla e bersagliare indisturbati il nemico. Ora va’ e riferisci.”

L’attendente sparì rapido e Konstantine tornò a concentrarsi sulle mura distanti. Mancava poco, ormai, lo vedeva bene. Si chiese se sarebbe stato all’altezza. Quando, a Tbilissi, il mepe gli aveva personalmente affidato quel compito si era sentito orgoglioso di essere stato scelto e sicuro che Darbend sarebbe caduta con irrisoria facilità. Ma ora Tbilissi sembrava lontana mille leghe e la sua sicurezza scemava rapidamente.

Poi con uno schianto sordo le difese esterne di Darbend cedettero. Ligi agli ordini ricevuti, gli stratiotai si stavano già muovendo. Konstantine sapeva che erano soldati di basso rango, uomini che avrebbero preferito trovarsi nelle proprie case piuttosto che lì. Per un istante fu tentato di fermare tutto, di non lasciare che quella massa informe andasse a sfidare gli shirvans; ma si rese conto che non poteva farlo, ormai bisognava danzare.



Quando entrò in città, Konstantine vide che gli stratiotai avevano egregiamente svolto il loro compito, occupando una salda testa di ponte; alle loro spalle gli psiloi stavano prendendo posizione sugli spalti delle mura, da dove avrebbero avuto una miglior visuale di tiro. Ma la cosa sconvolgente era che i difensori della città non avevano fatto nulla per impedire le manovre georgiane, semplicemente si erano ritirati verso l’interno, per quanto Konstantine vedesse bene alcuni cavalieri shirvans che si aggiravano un duecento metri più avanti.



“Arcieri!”, gridò Konstantine per essere sicuro che tutti lo sentissero. “Tirate a volontà!”

Le frecce cominciarono a solcare il freddo cielo di Darbend e a cadere sui difensori. Sulle prime i danni furono molto limitati; ma ben presto gli psiloi cominciarono ad aggiustare mira e gittata e le perdite avversarie a montare. Eppure non si manifestava una reazione, un tentativo d’attacco. Era come se ci fosse un vuoto di comando.

Ma era evidente che la cosa non poteva proseguire a lungo, non era pensabile che i nemici si facessero semplicemente uccidere. E, ovviamente, i primi a reagire furono gli shrivans. Uno, poi un altro, infine tutti i cavalieri attaccarono la barriera degli stratiotai. Erano in netta inferiorità numerica ma molto più esperti e corazzati e combattevano con fredda determinazione.

Konstantine si domandò se doveva intervenire. Ma non gli sfuggì il fatto che per arrivare a contatto avrebbe dovuto rompere l’unità degli stratiotai, manovra che rischiava di risultare fatale con soldati così poco esperti. Non lontano da lui uno shirvans abbatté quattro stratiotai prima di far recederei cavallo fra le urla di giubilo dei suoi compagni.



Tuttavia gli stratiotai si stavano battendo con coraggio, reggendo bene nonostante le perdite. Era tempo che Konstantine mandasse nella mischia i suoi cavalieri, per far girare il corso della battaglia. E se non poteva rischiare di farlo frontalmente, allora doveva farlo da dietro. Il giovane generale spinse il proprio cavallo nelle vie laterali, seguito dai suoi oikeioi, dirigendosi verso la piazza principale di Darbend. La sua comparsa gettò nel panico i fanti rimasti di riserva, i quali gettarono le armi e fuggirono. Rimasti soli, gli shirvans vennero attaccati alle spalle e, dopo una breve mischia, indotti ad arrendersi.

Konstantine Artuqid, la spada rossa di sangue stretta in pugno, respirò a pieni polmoni l’aria fredda della mattina. Aveva vinto e aveva dimostrato che anche un Artuqid poteva valere qualcosa per il regno di Georgia.
13/06/2012 16:49
 
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complimenti, bellissima cronaca

quella con i georgiani è di gran lunga la mia campagna preferita!

"Se si dice la verità, si è sicuri, prima o poi, di essere scoperti"
14/06/2012 19:21
 
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Anno 1217, Smyrna

Oshin Bagration uscì dalla tenda da campo e si guardò attorno. L’aria fredda del mattino lo fece rabbrividire. Accanto a lui la bandiera georgiana sventolava pigra sotto le carezza del lieve vento che soffiava da oriente. In lontananza si vedevano nuvole di polvere, segno di un’armata in marcia. Erano bizantini, Oshin lo sapeva, gli esploratori li avevano avvistati tre giorni prima. Era da allora che erano in caccia, una battuta che si sarebbe conclusa quel giorno. Ormai ai comandanti romei non restava altra possibilità che la battaglia, Oshin aveva compiuto una marcia avvolgente sul loro fianco, andando infine a porsi fra la loro posizione e l’obbiettivo finale: la fortezza di Smyrna, che si ergeva imponente poche leghe alle spalle del campo georgiano. Praticamente indifesa.

Oshin montò a cavallo e si diresse a incontrare i suoi comandanti. Erano tutti volti nuovi, i volti del futuro. Gli ufficiali coi quali aveva combattuto cento e cento scontri contro i turchi erano o morti o si erano ritirati. Ivane Orbeli era morto da cinque anni, nella quiete di Sebasteia. Suo figlio Erets continuava a governare Amaseia ma i cerusici non gli davano che pochi anni ancora. Anche Romano Paleologo aveva infine ceduto all’età che avanzava e aveva, suo malgrado, rassegnato le dimissioni da comandante degli oikeioi del mepe. Ora era a Kaysareia, in qualità di guardia personale della moglie di Oshin, Khatun.
Era un nuovo mondo, in cui Oshin non si trovava completamente a suo agio: era circondato da uomini che non avevano idea di cosa volesse dire essere soldati di un esercito piccolo, i cui vicini sono più forti, numerosi e cattivi. Questi erano figli delle sue conquiste, gente cresciuta con la consapevolezza che la Georgia era un grande regno, potente e rispettato. Se, per ipotesi, avessero perso la battaglia che li attendeva, le conseguenza non sarebbero state letali, nessuno di loro l’avrebbe pensato. Ma Oshin ricordava molto bene la battaglia di Amaseia contro i Turchi o la sfida col principe lebbroso di Gerusalemme; scontri dal cui esito era dipeso il destino del regno intero.

C’è poco da fare, sono vecchio, si disse. Scacciò il pensiero molesto, ma sapeva che quella era la pura verità. Aveva cinquantaquattro anni, un’età in cui gli uomini non si dedicano più alle armi. Nessuno nell’esercito lo pareggiava, quasi tutti avrebbero potuto essere suoi figli se non addirittura nipoti. Da quant’è che sono sul campo di battaglia?, si chiese mentre dava gli ultimi ordini e supervisionava la disposizione dei reparti. Quarant’anni, anno più anno meno. Una vita intera. Da Amaseia a Kaysareia, da Konstantinoupolis alle campagna di Anadolu, aveva guidato gli eserciti di Georgia da una vittoria all’altra, senza mai risparmiarsi. E ora il suo corpo stava pagando gli effetti del suo costante impegno al servizio del Regno.

Anche dopo aver sconfitto i turchi e averne chiuso la storia ad Ankyra non aveva avuto modo di riposarsi. L’anno dopo i bizantini avevano lanciato un attacco contro la stessa Ankyra e, sebbene fosse stato Hetoum Orbeli a sconfiggerli, Oshin Bagration si era assunto il compito di contrattaccare. Ikonion, Attaleia, Dorylaion: una dopo l’altra erano cadute tutte nelle mani del mepe. E per via aveva anche sconfitto due eserciti bizantini.

Si fermò alle spalle della linea dei kontophoroi e scrutò il nemico in avvicinamento. I bizantini dovevano essere veramente disperati, pensò, per cercare l’attacco; avevano meno uomini, praticamente nessuna cavalleria e non avevano scelto il campo. Ma sapeva bene che non potevano fare altro, era lui che li aveva costretti a quel passo.

Si chiese se suo figlio avesse già conquistato Nikaia oppure se fosse ancora impegnato nelle operazioni d’assedio. Guaram era ormai un uomo, aveva diciotto anni, e Oshin era certo che si sarebbe fatto onore. Non che Nikaia fosse una preda troppo grossa, la potenza romea era in crisi da tempo più o meno ovunque. Ma un futuro sovrano doveva avere cognizione della guerra e di cosa comportava, per cui gli aveva affidato quell’impresa. Sarà un buon sovrano quando me ne sarò andato?, si domandò. Non avrebbe risentito troppo del fatto di essere mio figlio? Soprattutto capirà che non deve assolutamente confrontarsi con me, ma essere semplicemente sé stesso? Ma solo il futuro aveva le risposte e quel futuro Oshin non l’avrebbe visto. Come nemmeno i bizantini in arrivo.

Ormai erano pienamente visibili. Grossi nugoli di fanti armati di spada, seguiti da un paio di contingenti di guardia variaga e da diverse compagnie di arcieri. Erano buoni soldati, che venivano vanamente sprecati dai loro comandanti. Oshin si spostò sul lato destro dello schieramento, inviando tutti i monaspa a sua disposizione – due squadroni, gli altri erano con Guaram a Nikaia – a presidiare l’ala sinistra. Poi i nemici entrarono nel raggio di tiro degli arcieri georgiani e la battaglia cominciò.
I bizantini resistettero alle nubi di frecce e con coraggio andarono a cercare il corpo a corpo. I kontophoroi li accolsero a piè fermo e la mischia si accese in fretta.



Con gesti quasi meccanici, Oshin ordinò alla sua linea, decisamente più ampia, di aumentare la pressione sui fianchi del nemico, quindi si diresse verso i contingenti di varangoi, che stavano avanzando di corsa. La carica georgiana li colse impreparati e ne frantumò i ranghi, portandovi la morte. In breve le unità d’elite dell’armata romea erano ridotte a pochi uomini in fuga.



Sull’altra ala i monaspa si misero in movimento e puntarono gli arcieri bizantini. Questi, avvedutisi del pericolo, cominciarono a ritirarsi, ma non furono abbastanza rapidi. Oshin osservò con distacco alla loro distruzione.



Quando i monaspa finirono il loro lavoro il mepe diede un secco ordine e la cavalleria georgiana chiuse il cerchio attorno ai fanti.



Quella sera, quando ormai tutti dormivano, Oshin Bagration si concesse una solitaria passeggiata sulle mura di Smyrna. All’orizzonte poteva vedere l’Egeo, sentire lo sciabordio delle sue acque, respirarne l’aria salmastra. Si sentiva dolorante e stanco, nonostante lo scontro di quel giorno non fosse stato particolarmente defatigante. Soprattutto si sentiva stanco di battaglie e campagne, voleva riposarsi e passare il tempo in attività più rilassanti e amene. Voleva tornare a vedere Kaysareia, le montagne della Cappadocia, magari addirittura tornare ancora una volta fino in Georgia, all’ombra dell’imponente Caucaso. Avrebbe affidato sempre più responsabilità a Guaram, era il p’rintsi e doveva abituarsi alle responsabilità del comando.
Questa è stata la mia ultima campagna, si disse prima di rientrare nelle sue stanze, l’ultimo atto della mia vita di soldato. Ormai da qui a Ganja è sempre terra del Regno. Dopotutto, pensò con un sorriso, qualcosa di buono ho combinato in questo mondo.
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