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Sakartvelos Samepho

Ultimo Aggiornamento: 25/05/2013 16:35
01/05/2012 23:58
 
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Ho come il sospetto che Frederick SIA uno scrittore: narrazione troppo bella e perfetta per una persona normale.
Continua così, ormai hai attirato la nostra curiosità in maniera eccezionale.

Nullum magnum ingenium mixtura demientiae - Non c'è mai grande ingegno senza una vena di follia
Trahit sua quemque voluptas - Ognuno è attratto da ciò che gli piace (Virgilio)
Tanti est exercitus, quanti imperator - Di tanto valore è l'esercito, di quanto il suo condottiero


02/05/2012 12:48
 
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In realtà no, non sono uno scrittore [SM=g27969] Sono la classica persona che ha il libro nel cassetto. Diciamo che mi piace scrivere e che sto cercando di fare una AAR un po' diversa - soprattutto diversa da Renovatio Imperii!

02/05/2012 12:55
 
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Anno 1183, valle di Malatya

Un sorriso da lupo increspò le labbra di Ivane Orbeli. Accucciato nell’erba alta, osservava discreto quanto stava accadendo e la sua mente vedeva già cosa sarebbe successo dopo. A quanto pareva la caduta di Amaseia non aveva scosso troppo il sultanato di Rum, visto le mosse che aveva compiuto: al comando di un giovane amir della casata Danishmend una spedizione era partita per conquistare la roccaforte di Mardin e un numero crescente di truppe venivano convogliate a Malatya.

Le notizie erano state portate meno di un mese prima da alcuni mercanti di passaggio a Tbilissi e non erano state ben accolte. Quasi nessuno aveva creduto che tutte quelle operazioni e quella concentrazione di truppe fossero dovute al solo desiderio di prendere Mardin, non era nemmeno lontanamente pensabile. Pertanto il mepe aveva deciso che, per quanto la fortezza di Ani fosse stata recentemente dotata di una seconda cerchia di mura e fosse equipaggiata per resistere a un lungo assedio, era di gran lunga preferibile andare all’offensiva.

E così tre settimane prima Ivane Orbeli era stato inviato a Ani, per assumere il comando dell’esercito e invadere la valle di Malatya. Il mepe, nell’affidargli l’importante missione, gli aveva dato il comando di due squadroni di monaspa, l’elite guerriera del regno, cavalieri pesanti e temerari la cui carica poteva sfondare ogni difesa.

Ma probabilmente erano superflui, se lo sguardo non l’ingannava e la qualità delle forze turche era veramente quella che stava ammirando.

In basso, in marcia, c’era un’accozzaglia di uomini equipaggiati alla bell’e meglio, quasi certamente contadini e piccoli artigiani arruolati a forza e dotati di una lancia e di uno scudo. Qua e là lungo la colonna si intravvedevano unità di arcieri e, a giudicare da come avanzavano, dovevano essere soldati di professione, probabilmente arcieri armeni. Dopotutto l’area era rinomata proprio per questo e anche Ivane ne aveva.



Più avanti, in attesa del grosso delle forze turche, c’era una colonna più piccola. Erano i mezzi d’assedio che dovevano accodarsi all’esercito ed erano accompagnati da un’unità di arcieri armeni che fungeva da scorta.



“Massimo mezz’ora e saranno a tiro”, constatò con un grugnito il comandante degli arcieri, un corpulento armeno dal naso rincagnato. Sputò per terra con disgusto. “Non avranno alcuna possibilità, li massacreremo.”

Ivane rise fra sé. Non trovava particolarmente simpatici i musulmani, il regno combatteva gente di quella fede da troppo tempo. Ma trovava divertente il modo in cui gli armeni reagivano alla presenza dei seguaci di Allah. C’era chi aveva trovato un modo di coesistere – e gli arcieri nell’esercito turco ne erano la prova – e altri che, invece, ritenevano i figli del Profeta un cancro da estirpare quanto prima e, possibilmente, nel sangue.

Strisciò indietro e raggiunse il proprio esercito, accucciato in attesa al riparo di alcune piccole colline. Con un breve cenno convocò i comandanti delle varie unità.

“Signori, il nemico è ormai quasi arrivato a tiro e, da quanto ho potuto vedere, non sospetta minimamente della nostra presenza. Pertanto facciamo in modo che non sappia se non quando sarà troppo tardi. Agiremo nel modo che vi sto per esporre e se ciascuno rispetterà il piano otterremo una vittoria liscia e indolore. Per noi almeno”, aggiunse strappando una risata.
“I kontophoroi si disporranno in una linea compatta là avanti, mentre gli skoutatoi occuperanno la posizione all’ala destra. Gli arcieri, sia armeni che georgiani, prenderanno posizione davanti. Io sarò largo a destra coi miei oikeioi e con uno squadrone di monsapa, l’altro occuperà l’ala sinistra.



Il primo colpo lo sferreremo contro il treno d’assedio e lo porterò io personalmente. Vedendo i loro compagni sotto attacco di una piccola forza di cavalleria i comandanti turchi decideranno di accelerare il passo e di accorrere. Questo li porterà nell’area di tiro degli arcieri. Attendete prima di scoccare le prime raffiche, perché avvisarli troppo presto della nostra presenza potrebbe complicarci il lavoro.

Una volta che i turchi si saranno accorti degli arcieri, invece di ritirarsi andranno all’attacco. E visto che vogliono frecce voi dategli frecce in quantità. Sono truppe di milizia, non soldati professionisti: un tiro costante e letale dovrebbe minarne il morale rapidamente; in caso contrario fate ritirare gli arcieri alle spalle dei kontophoroi e mandate all’attacco gli skoutatoi.



Intanto la cavalleria avrà libertà di movimento e d’attacco sull’intero fronte, andando costantemente a colpire unità isolate e a indebolire i fianchi. In particolare bisogna disperdere quanto prima gli arcieri armeni, la cui abilità conosciamo bene."



"Ci sono domande?”

Nessuno parlò. Ivane con un altro cenno chiuse il breve consiglio di guerra e raggiunse il suo destriero. Vi montò con un movimento fluido e impugnò la spada. Alle sue spalle il portastendardo lasciò che il vento ghermisse lo stendardo e lo facesse sventolare. Subito gli altri portastendardi lo imitarono. Qua è là il leone d’Armenia mostrava gli artigli, ma l’esercito era un tripudio di croci rosse in campo bianco. Ivane diede di sprone, lanciandosi verso il nemico e la vittoria.
02/05/2012 13:12
 
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grandissimo!!!
)______________________________________________________________________(
"Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori" Fabrizio de André
"Le cose più belle della vita o sono immorali, o sono illegali, oppure fanno ingrassare"
George Bernard Shaw
"Life is eternal; and love is immortal; and death is only a horizon; and a horizon is nothing save the limit of our sight." - Rossiter W. Raymond


02/05/2012 14:50
 
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veramente appassionante. Mi hai fatto venir voglia di iniziare una campagna coi georgiani, che finora avevo solo visto come una rogna giocando coi turchi! [SM=g27963]
03/05/2012 14:32
 
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Anno 1186, piana di Amaseia

Il sole era sorto da diverse ore e la polvere, da impercettibile disturbo all’orizzonte era diventata una nuvola che costantemente andava ingrandendosi. I soldati georgiani se ne stavano ai loro posti, i fanti accucciati a terra accanto alle armi a discorrere di donne e di casa, i cavalieri intenti a curare i loro destrieri, gli arcieri ad assicurarsi che le corde fossero tese e le faretre piene. Gli stendardi delle varie unità garrivano mosci al flebile vento che soffiava da occidente, con le croci rosse che parevano chinare il capo pur sotto quella debole carezza.

Eppure a Oshin Bagration, p’rintsi di Georgia, non sfuggiva il nervosismo che imperava ovunque. Lo avvertiva negli sguardi inquieti dei soldati, nelle risate stentate, nei nitriti dei cavalli. E lo vedeva, riflesso ovunque, sul suo stesso volto. Quando aveva progettato quella guerra se ne stava beato nel palazzo di Tbilissi, a centinaia di leghe da lì, nel pieno fulgore dei suoi sogni da adolescente.

Ora, nove anni più tardi, era sull’orlo della sua prima vera battaglia. Era perfettamente conscio che la conquista di Amaseia e l’uccisione del suo poco accorto governatore difficilmente potevano essere esibite come glorie militari, erano vittorie ottenute contro forze deboli e per nulla preparate. Ma questa volta la questione era tremendamente seria, questa volta i Turchi erano venuti per riprendersi ciò che era stato loro tolto.

E lo avevano fatto in grande stile. Un misto di fanteria sharqiyyun e artukogullara, fiancheggiata da unità di milizia, con bande di arcieri tanto appiedati quanto a cavallo. E battaglioni di ghilman, l’elite dell’esercito turco, soldati che difficilmente si spaventavano e che erano abituati ad avere ragione di ogni nemico. Oltre, ovviamente, alla guardia del comandante, un amir di nome Mehmed di Ray. Un uomo del popolo e per tanto ferocemente determinato a scalare posizioni agli occhi del sultano col sangue e la vittoria.





Sarebbe stato in grado di affrontarlo e sconfiggerlo?, si chiese Oshin con un brivido. Non voleva pensare a cosa sarebbe successo se avesse perso, sapeva fin troppo bene che il Regno non aveva un seconda armata alle sue spalle, quanto restava delle forze georgiane era a Melitene con Ivane Orbeli.

Sentì una pressenza al suo fianco e non ebbe bisogno di voltarsi per capire che si trattava di Erets Orbeli. Solo un nobile di grande casata come lui si sarebbe mosso con quella sicumera al cospetto del suo principe. Anche se doveva ammettere che Erets si era comportato bene con la missione nell’Egeo, era tutto fuorché un compito facile quello che gli era stato affidato. E l’aver riportato indietro il grosso degli uomini era stato un piccolo grande trionfo, l’ennesimo per la casata Orbeli. Perché c’era poco da nascondere, la guerra ai Turchi era un progetto della famiglia Bagration, ma erano gli Orbeli che ne stavano traendo gloria e prestigio.

“Avanzano per davvero”, constatò Erets Orbeli con una smorfia divertita. “Poveri idioti, non sanno cosa li attende!”

“Solo uno stolto sottovaluta il proprio nemico”, gli rispose il p’rintsi con una certa acidità. “Quelli non sono i contadini che difendevano Amaseia, sono professionisti. E sono qui per vincere esattamente come noi.”

“Se non vi conoscessi mi verrebbe da supporre che abbiate timore di loro, Vostra Altezza.” C’era ironia decisamente non velata nelle parole di Erets, ma Oshin preferì lasciar correre. In effetti non mi conosci, pensò fra sé, altrimenti sapresti che non è di loro che ho timore, ma delle mie capacità.

“Prendi il comando dei musellem e tienti all’ala. Hai un solo compito, levare di mezzo l’amir nemico: morto lui la sua armata potrebbe sfaldarsi.”

Erets sogghignò come un lupo. “Sarà fatto, Vostra Altezza”, rispose prima di allontanarsi per raggiungere i suoi uomini. Oshin rimase nuovamente solo coi suoi pensieri, almeno finché il comandante dei suoi oikeioi non gli si avvicinò e con garbo portò alla sua attenzione che ormai i turchi erano pienamente schierati e avanzavano per dar battaglia.



“Che gli egriseli avanzino a sinistra e impegnino gli arcieri a cavallo nemici. Si tengano il più possibile lontano dalle mischie, ma siano pronti a intervenire alle spalle del nemico al mio ordine. La fanteria è al suo posto?”

“Ogni uomo è nei ranghi, mio principe: i kontophoroi davanti, gli arcieri dietro”, gli risposero.

“Ottimo.” Oshin chiamò un attendente. “Va’ dal comandante degli eristavi e digli che si tenga pronto a intervenire a sostegno degli egriseli nel caso che la cavalleria pesante turca li scelga come bersaglio. In caso contrario resti dov’è e attenda istruzioni.”

L’attendente corse via. Poi un urlo di guerra si levò nell’aria, subito imitato da un secondo, da un terzo e poi da tutti. Oltre diecimila gole turche proruppero in un grido d’odio contro i georgiani, quindi si scagliarono all’attacco, decisi a spazzare via l’armata di Oshin. La battaglia di Amaseia era cominciata.



Mehmed di Ray doveva essere un buon comandante, bastarono pochi minuti perché Oshin se ne rendesse conto. Manteneva una posizione neutra alle spalle della sua linea, avendo il doppio vantaggio di poter avere sotto controllo la situazione generale e contemporaneamente di rappresentare un deterrente a eventuali tentativi di aggiramento. Aveva scelto di far compiere alla fanteria un attacco di massa, di trasformarla in una sorta di pugno di gigante che frantumasse con la violenzza dell’assalto le difese georgiane.



Sulle prime questo era parso un azzardo, in quando aveva concesso bersagli molto comodi agli arcieri georgiani; ma ben presto i kontophoroi si erano trovati sottoposti a una pressione elevata, con i ghilman a formare il cuore dell’attacco turco e miliziani e sharqiyyun a colpire ai lati, minacciando di aggirare la linea georgiana. La situazione richiedeva intervento rapido, Oshin lo comprendeva; ma farlo voleva dire esporsi alla letale controcarica del generale turco e il p’rintsi non voleva mandare alla morte né gli eristavi né tantomeno i propri oikeioi.

Peraltro era evidente che Mehmet di Ray stava aspettando solamente quello, l’occasione per incrociare le lame col conquistatore di Amaseia per punirlo personalmente. Un brivido attraversò la schiena di Oshin, per quanto fosse una giornata calda: paura, ecco cos’era, maledetta paura. Era forse un codardo?, si domandò con rabbia. Muoviti!, provò a spronarsi, ma le sue mani rimasero inerti attorno alle briglia, lo sguardo perso in lontananza.

Orizzonte dove gli egriseli erano alle prese con bande di guerrieri artukogullari che, per quanto non riuscissero a impegnarli nel corpo a corpo, avevano fatto sì che l’ordinata linea di battaglia degli egriseli si fosse sfaldata e ora ogni cavaliere tirava per proprio conto, con esiti decisamente meno letali di prima. Oshin pensò di inviare gli eristavi a togliere di mezzo quei noiosi fanti, ma gli bastò uno sguardo al generale turco per cambiare idea. Ma dove diavolo era Erets Orbeli?

Polvere varia indicava che il nobile si trovava verso occidente, assieme presumibilmente ai musellem. A confrontarsi con degli arcieri a cavallo che, chiaramente, stavano vendendo carissima la pelle. Avrebbe dovuto aspettarselo, li aveva contrapposti a dei turchi che aveva prontamente accettato il dominio georgiano, generando il classico “il musellem buono è il musellem morto”. E pareva che neanche la presenza degli oikeioi di Erets cambiasse la situazione in tempi brevi.

In sostanza l’esito della battaglia dipendeva interamente da lui, dalla mossa che avrebbe fatto. E capì che doveva farne una, aspettare non serviva a niente. Poteva diventare finalmente un generale degno di tal nome o essere ricordato o come colui la cui bambinesca paura aveva rappresentato la miglior arma turca; o in alternativa come colui che era stato salvato da un Orbeli, se Erets si fosse liberato per tempo. Strinse nervosamente la spada. Al diavolo!, si urlò mentalmente, Smettila di fare il poppante e diventa un uomo!

“Che gli eristavi vadano a sterminare quei fastidiosi insetti che ronzano attorno agli egriseli”, ordinò bruscamente a un attendente. “Una volta finito non stiano a gloriarsi, ma si diano una mossa e tornino indietro, una sana carica nella schiena dovrebbe indurre i turchi a più miti consigli.”

“In quanto a noi, miei fidi compagni, noi andiamo a fare la festa al gran capo!” Un ruggito d’approvazione si levò dai suoi uomini, subito seguito da un gridò d’avvertimento: “Sharquiyyun!”

“Carica!”, tuonò in risposta Oshin, dando di sprone. Immediatamente gli oikeioi lo seguirono e precipitarono come una muraglia contro la fanteria turca, maciullandola all’impatto.



E subito il corno annunciò che Mehmed di Ray scendeva anch’egli in campo. Oshin ordinò di riformare i ranghi in movimento e di caricare nuovamente. L’impatto fu violentissimo e ben presto ogni cosa divenne un turbine di cavalli e spade. Oshin abbatté un cavaliere turco e mandò fuori tempo il fendente di un altro. Poi una lama si aprì la strada nella sua difesa e morse ferocemente acciaio e carne. Fu assalito da un’ondata soverchiante di dolore, ma sapeva di non poter cadere, l’effetto che ciò avrebbe avuto sarebbe stato devastante per il morale degli uomini. Ma l’avversario non gli diede tregua e lo attaccò nuovamente. Oshin deviò i primi due fendenti, ma col terzo fu troppo lento: la lama nemica morse ancora la sua carne e questa volta capì che non sarebbe riuscito a reggersi in sella. Però quel bastardo l’avrebbe trascinato a terra con sé, si disse. E colpì dal sotto in su, evitando lo scudo nemico e andando a colpirlo direttamente in pieno petto. Il turco cacciò un grido e crollò al suolo. Oshin sentì una sensazione di euforia afferrarlo, anche se non abbastanza forte per scacciare l’oscurità che avanzava. Captò debolmente il suono di un corno, quindi tutto divenne buio.



Si svegliò in preda a atroci dolori. Poche occhiate e capì di essere nella sua tenda. Appena provò a muoversi il suo scudiero gli fu subito accanto.

“Com’è andata?”, biascicò Oshin. Ma il giovane era già corso via, quasi sicuramente a chiamare uno degli apotecari al seguito dell’armata. Infatti tornò poco dopo accompagnato da un uomo sulla quarantina che sfoggiava una gran barba scura e ispida. Questi squadrò con occhio esperto le ferite.

“Siete fortunato, mio principe, a quanto pare Dio ancora non vi vuole e nemmeno il diavolo.”

“Com’è andata la battaglia?”, domandò di nuovo Oshin. L’apotecario grugnì.

“Un macello, come sempre. Però avete vinto, se è ciò che vi interessa sapere.”

“Certo che abbiamo vinto!” Erets Orbeli irruppe nella tenda. “P’rintsi”, si inchinò con deferenza. Autentica, notò con un filo di sorpresa Oshin.

“E i turchi?”

“Il grosso uccisi, parecchi prigionieri, pochi scappati sui monti. E il comandante nemico è caduto sul campo. Praticamente è un trionfo assoluto.”

“Che è successo dopo che sono caduto? Raccontatemi.”

“Quei dannati arcieri a cavallo si sono battuti come leoni, abbiamo dovuto ucciderli quasi tutti prima che la capissero e scegliessero di ritirarsi”, disse Erets con riluttante ammirazione. “A quel punto ho lasciato i musellem e mi sono precipitato a vedere come procedevano le cose dalle altre parti. Dopotutto il mio compito era eliminare Mehmed di Ray e il verme turco era ancora vivo e vegeto. Impegnato contro di voi, mio p’rintsi. Ho dato immediato ordine di caricarlo alle spalle e la cosa è riuscita completamente: stretto completamente in una morsa georgiana, il turco ha lottato ma non poteva che soccombere. Morto lui, morti tutti: l’armata nemica si è sfaldata, a partire dai miliziani. Gli eristavi sono arrivati per operare una carica decisiva, ma non hanno fatto altro che inseguire contingenti già in fuga.”



Oshin chiuse gli occhi e sorrise: aveva vinto. E ora la via per Kayseri era decisamente più sgombera. Il tempo di riprendersi dalle ferite ricevute e poi avrebbe lanciato l’attacco decisivo. Con la consapevolezza che non sarebbe stato più un imberbe pivello a guidare l’esercito, ma un uomo che portava addosso i segni tangibili del suo apprendistato.
05/05/2012 12:58
 
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bella battaglia, per caso hai il resoconto di fine battaglia?
05/05/2012 13:15
 
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Re:
LordFerro, 05/05/2012 12.58:

bella battaglia, per caso hai il resoconto di fine battaglia?



No, purtroppo non ho preso l'immagine [SM=g27969]

05/05/2012 13:34
 
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Bravo fred, le tue cronache mi piacciono molto, ho seguito appassionatamente la tua cronaca sulla Renovatio Imperii e adesso mi gustando questa tua nuova con i Georgiani.
La scelta di uno stile di narrazione romanzato è davvero bella, una scelta alla quale ho rinunciato all'ultimo momento per la mia AAR. Continua così, non vedo l'ora di leggere il seguito
06/05/2012 12:50
 
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Anno 1189

L’aria era fredda e il sole ancora non aveva fatto capolino all’orizzonte quando si misero in marcia. Aprivano i kontophoroi, che avanzavano silenziosi nell’oscurità della notte. Di seguito due compagnie di metsikhovne mshvidlosani, con le preziose corde degli archi a riposare protette nelle faretre. Chiudevano la colonna altri kontophoroi e due squadroni di musellem. In avanscoperta e sui fianchi operavano gli egriseli, a protezione da eventuali imboscate e sorprese spiacevoli.

Dal canto suo Dzagan considerava fin troppo spiacevole già quella levataccia e quella marcia iniziata sotto il discutibile auspicio delle tenebre. Era nell’esercito da oltre vent’anni, ma ancora non si era abituato a doversi svegliare ben prima del sole per una giornata che prometteva marcia continua. E che sarebbe stata seguita da altre giornate tutte eguali. Ma erano gli ordini del p’rintsi e chi era lui per contestarli

Il sole intanto stava facendo capolino alla loro sinistra, dal che Dzagan dedusse che stavano dirigendo a sud. Contro i Turchi. Gli pareva strana come cosa, nelle caserme giravano voci di una forte concentrazione di truppe romee a est di Amastris e si pensava che la spedizione fosse volta a chiudere quel problema e ad assicurare protezione ad Amaseia prima di continuare la guerra contro il Sultano. Ma ormai era chiaro che altre erano le idee che albergavano nella mente del p’rintsi, per cui si marciava a sud. Ora dopo ora, sempre avanti.

Ben presto i soldati superarono la dolorosa soglia della fatica e i cori sussurrati di lamentele cessarono, ognuno risparmiava quante più energie per andare un passo ancora avanti. A giudicare dalla luce doveva essere passato mezzogiorno da parecchio, ma nessun segnale di sosta era stato dato e i soldati avevano consumato il proprio magro pasto marciando. Per ora, per fortuna, dei turchi nessuna traccia.


Incontrarono le prime pattuglie due giorni dopo, mentre scendevano nella valle dell’Halys, che i turchi chiamavano Kizilirmak; ma si trattava di poche milizie che non provarono alcunché, si limitarono a osservare e a sparire al primo segno degli egriseli.

“Secondo te dove siamo diretti?”, domandò il suo vicino di marcia.

“Contro i padroni di quelli là”, grugnì Dzagan in risposta, accenando con la testa agli esploratori che si dileguavano oltre l’orizzonte. “Non sarà uno scherzo, ormai è parecchio che siamo nel loro territorio.”

“Ma li abbiamo sconfitti, ormai sanno che…”

“Cosa? Che non possono vincere?” Dzagan rise. “Certo che li abbiamo sconfitti, ma sono passati quasi due anni. Ormai si sono ripresi e, fidati, ci stanno aspettando dove meglio gli aggrada.”

“Ma allora…”

“Allora dovremo fare il nostro dovere”, concluse Dzagan. “Siamo arcieri metsikhovne, mica volgari toxotai.”


Dopo l’avvistamento degli esploratori passò quasi una settimana prima che altre forze turche venissero avvistate. Nel frattempo avevano continuato a seguire il fiume e curvato verso oriente, puntando verso la città di Sivas, l’antica Sebasteia.

Qua la guarnigione turca tentò una resistenza in campo aperto e finì per essere spazzata via dagli oikeioi del p’rintsi. Il perché del folle gesto non lo capiì nessuno, tanto non era importante.



Il giorno dopo l’esercito georgiano entrò in una Sivas completamente intrisa di paura, ma nessun soldato cercò di approfittare della situazione: come ad Amaseia gli ordini del p’rintsi erano tassativi, decapitazione immediata per chi fosse stato sorpreso a saccheggiare. E nessuno voleva morire.


Tre giorni dopo l’esercito lasciò quella che ormai era ridiventata Sebasteia e puntò risolutamente a sud.

“Andiamo al cuore del nemico, insomma”, commentò un soldato. “Sarà un affare sanguinoso”, e sogghingava nel dirlo. Dzagan non condivideva quell’entusiasmo quasi perverso, ma anch’egli sentiva che era tempo di incontrare il Turco in una battaglia degna di questo nome e di abbatterlo dopo una fiera tenzone. Suo nonno era caduto a Didgori. Suo zio ne era uscito con una gamba sola, ma diceva sempre che era stato un buon prezzo per scacciare simili invasori dalle ancestrali terre del Regno. E ora spettava a lui essere presente a un altro atto di quel conflitto. Sperando che fosse un atto decisivo e nel senso corretto.

Incontrarono l’esercito turco a una trentina di leghe a nord di Kayseri, in attesa. Comprendeva un forte nucleo di lancieri ghilman, sostenuti su ambo i fianchi da sharqiyyun, halqa e artukogullari. Bande di arcieri si vedevano un po’ ovunque, composte tanto da fellah quanto dai ben più addestrati okçular. E c’erano diverse unità di cavalleria leggera da tiro, in particolare akinji e tawashi.

“Tawashi”, mormorarono parecchie voci con astio. Dzagan non poteva dare loro torto, detestava anch’egli quei cavalieri tanto audaci quanto coriacei. Era risaputo che i tawashi erano eccellenti tiratori a cavallo; ma altresì che si reputavano sprecati per quel tipo di combattimento e che non perdevano occasione di accantonare l’arco in favore della mazza da guerra. Dzagan osservava lo schieramento nemico e più lo guardava meno gli piaceva: il suo occhio da soldato veterano gli permetteva di calcolare rapidamente la consistenza del nemico e non c’era dubbio che i turchi fossero di più. Non in schiacciante superiorità, ma di più sì. Poi scorse qualcosa e sentì un brivido: il nemico schierava anche baliste e catapulte.

Era una cosa di cui doveva essersi accorto anche il p’rintsi, perché Dzagan lo vide parlare animatamente coi suoi consiglieri. Che rimpiangesse di aver lasciato a Sebasteia gli eristavi? Possibile, un buon nucleo di cavalleria pesante avrebbe fatto decisamente comodo. Invece pareva che Oshin intendesse sfidare i turchi sul loro stesso campo, arcieri a cavallo contro arcieri a cavallo.

Una notevole agitazione nelle retrovie e l’arrivo di diverse staffette fecero però capire a tutti che il p’rintsi non stava pensando alle catapulte turche, almeno non nell’immediato: nuvole di polvere alle loro spalle indicavano l’avvicinarsi di altre truppe ed era superfluo, pensò Dzagan, specificare da che parte stavano.

Poi arrivarono gli ordini e il tempo dei pensieri finì. Gli ufficiali incitarono gli uomini e tutta la fanteria georgiana si mosse verso alcune rovine, due quadrati di pietra sovrapposti che biancheggiavano nell’erba. Forse un tempo lì c’era una villa o un tempio; ma ora non restava che quello, un labile segno che stava visibilmente cedendo sotto l’incessante attacco dell’erba. Non che a Dzagan interessasse. Mentre correva assieme agli altri tirò fuori la corda dell’arco e la agganciò con un gesto fluido e naturale; del resto era la sua vita.
Raggiunsero infine la cima di quella che poteva essere definita una collina, per quanto in realtà non fosse che un tenue rialzo. Ma avrebbe comunque costretto i turchi ad attaccare in salita.



“Quadrato!”, berciavano gli ufficiali, spingendo i kontophoroi al loro posto. Lancia in pugno e scudo praticamente piantato nel terreno, i fanti formarono una muraglia a rinchiudere completamente le salmerie e i metsikhovne. Era una minifortezza, la cui tenuta o caduta era nelle mani di coloro che la componevano.



Dzagan si trovò accanto a due vecchi commilitoni, uomini con cui aveva molte volte condiviso il pericolo, e con un novellino, alla sua prima campagna nei metsikhovne mshvildosani. “Nervoso?”, lo punzecchiò uno dei veterani.

“Non più di te, vecchio”, replicò piccato il giovane, ma era evidente da come stringeva l’arco che si sentiva molto meno sicuro di come voleva apparire.

“Tranquillo figliolo, qua siamo al sicuro. Nessuno verrà a sbudellarti con una daga, al massimo verrai trapassato da una freccia nemica.”

“Preferirei evitare.”

“Come noi tutti. Ma è meglio una freccia, che morde una volta e poi basta, piuttosto che una spada, che continua ad attaccarti.”

“E se mai arriverà una spada”, s’intromise un altro, “beh, non avrà molta importanza perché vorrà dire che i kontophoroi hanno ceduto e la battaglia è andata.”


Intanto la battaglia era cominciata. Larghi a destra gli egriseli stavano duellando con parte dei tawashi, per ora solo a distanza. In lontananza i musellem si erano spinti a silenziare subito le catapulte turche, ma non erano riusciti a raggiungere anche le baliste e ora operavano al largo, attendendo il momento propizio. Gli oikeioi del p’rintsi avevano disceso la collinetta, ma non per incrociare le lame con gli akinji, bensì per portarsi in una posizione da cui poter attaccare la fanteria turca avanzante.

Che, in effetti, venivano avanti con slancio. I primi ad arrivare furono gli akinji, che iniziarono a svariare davanti al fronte dei kontophoroi, bersagliandolo di giavellotti. I pesanti scudi proteggevano bene i soldati, ma qua e là arrivarono i primi caduti e gemiti di sofferenza si levarono sul campo di battaglia.

Poi arrivò l’ordine di tirare. I metsikhovne mshvildosani incoccarono le frecce, tesero le corde per un tiro a parabola e rilasciarono all’unisono. Un fischio quasi assordante riempì l’aria, spento d’improvviso dal sordo rumore delle frecce che impattavano la carne delle loro vittime, uomini o cavalli che fossero.

Ma sempre nuovi turchi apparivano e ben presto gli arcieri abbandonarono la sincronia in favore di un tiro più rapido e costante. Dzagan sceglieva i bersagli, li puntava e ne cercava degli altri mentre ancora la freccia stava volando. Non si preoccupava di vedere se aveva colpito qualcosa, non ne aveva il tempo. I rumori e le urla lo informavano che anche alle spalle stava arrivando il nemico e che bisognava tirare anche su di loro. Davanti a lui i kontophoroi combattevano selvaggiamente per respingere la marea nemica e non era infrequente che, seppur per brevi istanti, qualche soldato turco riuscisse a uccidere un georgiano e provasse a passare. Un paio di volte fu lo stesso Dzagan a correggere all’ultimo il proprio tiro e a scagliare contro un artukogullaro troppo animoso o un ghilman troppo sfacciato.



Svuotò la prima faretra e chiamò perentoriamente uno dei ragazzi delle salmerie affinché gli portasse di corsa un nuovo fascio di frecce. Ma sapeva che ci sarebbe voluto qualche momento e poté quindi riposare le braccia che bruciavano per lo sforzo di tendere e scoccare. Intanto ne approfittò per dare un’occhiata in giro e vedere come andava.

Gli egriseli dovevano aver avuto ragione dei tawashi, perché avevano risalito la collina e si erano uniti al tiro dei metsikhovne mshvildosani; purtroppo però anche i turchi ormai schieravano al gran completo i loro tiratori e la situazione era ben bilanciata. Soprattutto erano molto i metsikhovne ormai inabili a continuare la battaglia, feriti o morti che fossero.
Alle spalle dello schieramento turco i musellem avevano facilmente sopraffatto le baliste – colpevolmente lasciate indifese dai comandanti turchi – ma non avevano molte possibilità di togliere pressione ai fanti, erano arcieri a cavallo e non cavalleria pesante. L’unica che c’era era la guardia del p’rintsi, ma si trovava distante.



Un suono di corno lacerò l’aria e Dzagan saettò lo sguardo verso la fonte del rumore. E vide gli oikeioi di Oshin Bagration lanciati alla carica contro un misto di lancieri e fanti turchi mandati a impegnarli. Anche a quella distanza Dzagan vide benissimo la fanteria turca letteralmente scomparire sotto gli zoccoli dei cavalieri del p’rintsi, il cui personale stendardo garriva al vento. Poi arrivò il ragazzo con le frecce e fu nuovamente tempo di scagliare dardi contro il nemico.



Nemico che stava facendo il massimo sforzo per sfondare. Ma i kontophoroi reggevano e i due lati meno impegnati stavano anzi ruotando per accerchiare i turchi. La pugna era feroce come non mai e Dzagan rallentò il tiro, non riusciva più ad avere un bersaglio chiaro.

Però la battaglia girava dalla loro, lo capì quando vide i tawashi impugnare le mazze e slanciarsi all’attacco. Era una mossa disperata e, infatti, non sortì effetti positivi: quasi subito gli egriseli, che avevano ormai esaurito le frecce, impugnarono le spade e spronarono i loro cavalli contro il nemico. La carica irruppe fra gli arcieri appiedati come una marea, sommergendo nel tracollo delle retrovie turche anche i tawashi.



L’arrivo di Oshin Bagration fu il colpo di grazia e chiuse di fatto la battaglia, per quando la cavalleria andò avanti altre due ore a inseguire fuggiaschi.



Al tramonto l’esercito turco non esisteva più.



L’indomani, sotto un sole radioso quanto la loro vittoria, le truppe georgiane entrarono nella fortezza di Kaysareia. Dzagan marciava con un braccio fasciato – una freccia l’aveva colpito proprio nelle ultimissime fasi praticamente senza che se ne accorgesse – ma non sentiva alcun genere di dolore. Quello era il suo giorno, era il giorno che la Georgia non avrebbe mai dimenticato. E nemmeno i turchi.
06/05/2012 13:11
 
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Fred, complimenti!!!!


06/05/2012 13:14
 
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Vittoria schiacciante e cronaca perfetta, non ho nient'altro da aggiungere.
Ho provato una battaglia con in georgiani contro i turchi, ma ho scelto come avversari i temibili giannizzeri; è stato un bagno di sngue dove ne sono uscito "vincitore": i turchi respinti e in rotta con le mie forze decimate, circa 1380 uomini persi contro i 1500 dei miei avversari (io avevo circa 1450 soldati).

Nullum magnum ingenium mixtura demientiae - Non c'è mai grande ingegno senza una vena di follia
Trahit sua quemque voluptas - Ognuno è attratto da ciò che gli piace (Virgilio)
Tanti est exercitus, quanti imperator - Di tanto valore è l'esercito, di quanto il suo condottiero


06/05/2012 17:02
 
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Congratulazioni, che lettura affascinante!!! Stavo pensando ai turchi come prossima campagna ma mi stai facendo cambiare idea ...




08/05/2012 16:49
 
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Anno 1189, fortezza di Kaysareia

“Direi che è tempo di fare il punto della situazione”, esordì un più che soddisfatto mepe Giorgi Bagration. Ricordava bene il concilio in cui si era deciso di muovere guerra ai Turchi. Era un passo che andava compiuto, ma era stato un azzardo non di poco conto. Non solo andava a sfidare il sultanato di Rum, ma entrava prepotentemente nell’area rivendicata dai Romei. Con cui si era in guerra già allora. Ma adesso, undici anni dopo, il mondo era cambiato, quantomeno quello del suo regno. Ed era opera della sua casata, opera di suo figlio. L’imberbe ragazzo che nel palazzo reale di Tbilissi aveva spiegato ai più potenti nobili del regno come attaccare i turchi era ora un uomo il cui nome era esaltato per tutto il regno. Lo chiamavano “il Conquistatore” e non aveva che 26 anni. Per un istante il mepe lasciò volare la fantasia per vedere dove suo figlio sarebbe potuto arrivare. Ma gli altri aspettavano e il consiglio doveva cominciare. “Allora, cominciamo dal fronte più caldo. Oshin?”

“La modestia mi imporrebbe di non esaltare troppo una mia vittoria, ma non è possibile negare che quella appena ottenuta abbia colpito in maniera quasi mortale il sultanato di Rum. Le spie riferiscono di una Ankara assai poco difesa e di un sultano che non sa come reagire alla situazione. E peraltro pare che anche il basileus non abbia una precisa idea di come comportarsi, non credo che ci considerasse capaci di vincere là dove lui e i suoi predecessori hanno fallito. Tiene Ikonion ma per ora le armate romee sono sulla difensiva.”

“E devono restarci il più a lungo possibile”, lo interruppe il mepe. “Ora siamo uno stato forte, ma non per questo capaci di impegnarci in una guerra attiva e prolungata contro Bisanzio.”

“Assolutamente vero”, concordò il p’rintsi. “ Ho letto il rapporto del tesoriere reale e le finanze sono un argomento molto delicato. Per ora pare che le spese della guerra e della gestione delle conquiste vengano rette dal tesoro della corona; ma ulteriori avanzamenti o reclutamenti potrebbero comportare un passivo.”

“Quanto ci è costata questa guerra, finanziariamente parlando?”

“All’incirca una perdita secca di 30.000 bisanti, forse anche qualcosa di più. Il tesoro qualche mese fa ammontava a circa 45.000 bisanti, ma senza considerare le spese dell’ultima campagna e delle sue conquiste.”

“In effetti non è poco”, commentò Ivane Orbeli. “A meridione la situazione è abbastanza delicata. Abbiamo il completo controllo della valle di Melitene e i turchi sono arroccati a Mardin. Però pare che siano, almeno numericamente, consistenti. Non penso che siano truppe esperte, ma non per questo dobbiamo sottovalutarle.”

“Mi sono giunte voci che l’atabeg abbia dei problemi. Quanto c’è di vero?”, domandò Oshin. Ivane si concesse una breve risata.

“Non li definirei piccoli problemi, mio signore”, rispose. “Stando alle ultime notizie un mese fa, mentre voi entravate trionfatore in questa fortezza, i soldati del Califfo conquistavano Mosul e passavano a fil di spada gli ultimi zenghidi. I territori dell’atabeg di Aleppo sono ormai tutti in mano dei latini di Gerusalemme, mentre le terre di Mosul sono abbasidi. Eccettuata Urfa, che è saldamente occupata dai crociati venuti dalla Germania. Alleati con Gerusalemme, pare.”

“Quindi abbiamo il fronte meridionale presidiato dai nostri alleati? Urfa esclusa, s’intende.”

“Esattamente. Meglio continuare ad avere rapporti amichevoli con loro, se posso consigliare.”

“I parenti di mia moglie ci saranno leali come noi lo saremo con loro”, rispose Oshin. “E più il Califfo ci vedrà in salute, meno gli passeranno per la testa strane idee.”

“Mi sa che questo ci porta all’argomento più scottante: che ne facciamo dei turchi?” Dal tono di voce e dall’espressione era evidente che Erets Orbeli non aspettava altro che l’ordine di cancellarli dalla faccia della terra. Ma Oshin lo deluse subito.

“Il sultano deve comprendere rapidamente che la sua vita e quella del suo regno sono completamente nelle nostre mani. Pertanto bisogna quanto prima marciare su Mardin e annientarla. Correggimi se sbaglio, Ivane, ma è un Danishmend il suo attuale proprietario, no?” Ivane Orbeli annuì. “Data la situazione non credo che un sultano Kutalmish difenderà a spada tratta un Danishmend quando saprà che sta pensando di liberarsi dal voto di fedeltà e di farsi sultano a sua volta.”

“Ma non ne siamo sicuri, vero?”, domandò Giorgi che intuiva il gioco di Oshin.

“Certo che no, padre. Ma cosa importa? Certo non organizzeremo un incontro tra i due, non penso che il Danishmend si lascerà prendere vivo. E con la sola Ankara in suo possesso, il Kutalmish si troverà di fronte a due sole scelte: morire o giurarci fedeltà. Diventando il nostro scudo contro Bisanzio e limitando le nostre spese alla sola difesa di Kaysareia.”

“Interessante”, mormorò Erets. “Sì, mi piace come idea.” Avendo assunto il governatorato di Amaseia Erets avrebbe avuto a che fare più di altri coi vassalli turchi e l’idea che uno di loro gli si inchinasse gli andava decisamente a genio. Gli altri si lasciarono sfuggire una mezza risata.

“E Bisanzio?”

“Bisanzio per ora attende, padre. Ma una volta ottenuto il vassallaggio del sultano intendo guidare una spedizione su Amastris per sottrarla ai romei. E magari darla proprio ai turchi: premiamoli e sfruttiamoli ancora come baluardo.”

“Decisamente sarai un grande sovrano”, si lasciò sfuggire Giorgi. Oshin lo fissò e stava per parlare ma il mepe lo anticipò. “Sappiamo tutti che i miei giorni sono alla fine, ho più di sessant’anni. Ho fatto quanto ho potuto per rendere questo regno forte e prospero, spero di essere ricordato bene. Ma il futuro della Georgia è nelle tua mani, Oshin. Anzi, lo è già da qualche tempo, fra non molto lo sarà in maniera ufficiale.”



L’uscita del mepe aveva portato un po’ di imbarazzo nella sala e nessuno sapeva come scacciarlo. A farlo ci pensò infine una ufficiale della guardia di Giorgi, che entrò trafelato e con la preoccupazione più viva dipinta sul volto. “Mio re”, salutò con un breve inchino.

“Che succede?”

L’ufficiale rimase per un istante in preda a un silenzio nervoso. “Sono arrivati dei messaggeri, mio re”, disse infine. “I bizantini hanno attraversato il confine a settentrione e marciano su Amaseia.”

“Cosa?” I quattro si guardarono e poi gli occhi di Oshin si indurirono fino a diventare due sfere d’acciaio. “E sia, se il basileus vuole la guerra avrà la guerra!”, sibilò furioso.

“E poi…”, fece ancora l’ufficiale.
“Cos’altro c’è?”

“I Latini, mio re. Hanno lasciato Adana una settimana fa e le spie riferiscono che hanno sono entrati in Cappadocia da tre giorni. Una vasta armata, pare.”

Un lungo momento di silenzio carico di tensione ammantò la sala. Erano notizie critiche, un doppio attacco di due nemici, uno vecchio e uno nuovo, entrambi potenti.

“Chi guida i bizantini?”

“Un certo Giovanni Studita, mio p’rintsi.”

“E a sud?”

“Le spie hanno visto il vessillo dell’erede al trono di Gerusalemme.”

“Quindi è direttamente il princeps Anthoine d’Angiò”, constatò Ivane con una smorfia. “Non ha fama di grande generale, è molto più un uomo di corte. Poteva andarci peggio.”

“C’era anche un altro vessillo, mio signore…”

“Il principe lebbroso.” Le parole uscirono dalla bocca di Oshin intrise di una sicurezza tale che l’ufficiale lo guardò stupito.

“Come lo sapete?”

“Non lo sapevo, lo temevo. Ma non ho tempo per la paura. Erets, tu riparti immediatamente per Amaseia, se Dio è con noi arriverai in tempo per assumerne la difesa; in caso contrario preghiamo che il capitano Konstantine sappia difenderla bene.” Non lo disse ma tutti capirono che temeva per Khatun, rimasta ad Amaseia. “Ivane, voglio tutta la cavalleria possibile qui, al più presto. Noi ci occuperemo di affrontare Baldovino il Lebbroso.”
09/05/2012 08:57
 
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Non per metttermi in mezzo ai tuoi progetti, ma nel caso di vassallaggio dei Turchi io ti consiglierei di fare due spedizioni una a Smirne e l'altra a Dorileum e bloccando il collegamento fra Costantinopoli e Nicea cedendoli ai Turchi.
15/05/2012 16:57
 
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a quando un altro capitolo?
15/05/2012 20:39
 
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Anno 1189, 25 leghe a sud di Kaysareia

Oshin Bagration si issò sulle staffe e guardò in lontananza. La battaglia doveva essere già cominciata, pensò. Del resto la fama che ammantava l’eroica figura di Baldovino il Lebbroso non era certo quella di un codardo. Era un uomo dalla volontà d’acciaio ed era ovvio che, per quanto il titolo di principe fosse detenuto da suo cugino Anthoine, era a lui che gli uomini guardavano,. E Oshin non poteva dare loro torto.

Baldovino era il principale responsabile del crollo verticale che aveva colpito l’oramai fu Sultanato Zenghide. Le sue campagne erano state fulminee e l’intuizione di sfruttare il desiderio espansionistico del Califfo a proprio vantaggio un colpo di genio. L’attacco combinato aveva impedito in qualsivoglia modo a Nur ad-Din di reagire e, in definitiva, di provare a salvare il salvabile.

Baldovino aveva agito con glaciale abilità, catturando una in fila a quell’altra le principali basi di potere zenghide: Damas, Homs, infine Alep. Quest’ultima difesa personalmente dall’ormai disperato atabeg che, privo di vie d’uscita, aveva combattuto con la ferocia di chi è messo al muro. Ma non era servito a nulla, Baldovino aveva vinto comunque e Nur ad-Din era finito sottoterra.

E ora, qualche anno dopo, Baldovino stava cercando di fare esattamente la medesima cosa, di cominciare una guerra contro un avversario che non si aspettava l’attacco e che era impegnato su un altro fronte. Ma da questo campo di battaglia Baldovino non uscirà vincitore, si ripromise Oshin.

I suoi oikeioi attendevano pazientemente, le lance puntate al cielo come una piccola foresta, pronti a scattare al minimo segnale. Oshin decise che aveva osservato anche troppo e che era tempo di fare la propria parte. Fece un cenno e spinse avanti il proprio destrieri, che nitrì impaziente. Gli oikeioi gli si affiancarono rapidi e entrarono nella piana.

Le urla e i rumori sordi della battaglia giungevano fino a lì. Era evidente che l’armata latina aveva attaccato senza por tempo in mezzo, scagliando tutta la propria potenza contro il nemico. Più avanzava e meglio Oshin distingueva i tre grandi carri sormontati da croci lignee: era simboli che galvanizzavano il morale delle truppe, immoti stendardi la cui protezione era affidata ai Templari. Avrebbe colpito lì, decise il p’rintsi; nulla funzionava meglio come un colpo di maglio al morale del nemico, dopotutto.

Ma bisognava muoversi a darlo, questo colpo di maglio. L’ala sinistra dello schieramento georgiano era completamente impegnata in una mischia selvaggia e Oshin vedeva fin troppo bene che lì Ivane Orbeli aveva concentrato l’elite della cavalleria georgiana, i monaspa. Che stavano affrontando nientemeno che il principe lebbroso in persona, il cui stendardo sventolava fiero nel cielo. Dall’altra parte egriseli e musellem stavano giocando con la parte meno nobile dell’armata latina, principalmente coscritti siriani; ma questi ultimi stavano riuscendo nel loro scopo, tenerli lontani da dove si decideva veramente lo scontro.
E al centro la guardia di Ivane Orbeli lottava con il princeps latino. Qua e là si vedevano pure gruppi di fanti che si gettavano nella mischia, attaccando i cavalieri georgiani da ogni parte. E, a quanto pareva, anche gli shirvans, che dovevano formare la riserva, erano già stati impiegati.



Un grido costrinse Oshin a riconcentrarsi sulla propria linea di marcia: i templari li avevano notati e stavano muovendosi per formare una linea contro di loro. Ma dopo poco apparve evidente che l’idea del nemico era molto più complessa: stavano agendo come tre corpi separati per prendere a tenaglia Oshin e i suoi.

Doveva agire in fretta. Ordinò seccamente di accelerare l’andatura fino alla carica e contemporaneamente di aprire la formazione per ottenere la massima superficie d’impatto. Gli oikeioi eseguirono la manovra con consumata abilità e anticiparono la mossa dei templari di non più di un centinaio di metri. Che però valsero tutto. Invece di ritrovarsi completamente circondati da nemici, gli oikeioi di Oshin impattarono con uno dei tre corpi templari alla massima velocità possibile e lo sbriciolarono in pochi istanti. Oshin non percepì nemmeno le urla dei nemici, vennero immediatamente spente dagli zoccoli tambureggianti dei destrieri georgiani. Passarono oltre trascinati dal proprio impeto, lasciandosi alle spalle uno spettacolo di devastazione totale.



Ma gli altri due battaglioni templari stavano comunque convergendo su di loro ed era tempo di attaccare di nuovo. Effettuata una rapida conversione di marcia, gli oikeioi attaccarono ancora e ancora, portando la distruzione fra le fila dei templari.

D’improvviso un urlo si levò dallo schieramento georgiano. Oshin alzò di scatto la testa e notò che non si vedeva più sventolare la bandiera del princeps. Dunque Anthoine d’Angiò era caduto, quantomeno era prigioniero. Era un’ottima notizia, ma non sarebbe bastato a vincere lo scontro.



Così Oshin rinunciò a inseguire gli ormai pochissimi templari rimasti, datisi alla fuga, e spronò invece verso il punto in cui infuriava lo scontro fra Baldovino e i monaspa.

Il principe lebbroso doveva aver combattuto al meglio delle sue possibilità, ma forse si rendeva conto ormai che aveva osato un po’ troppo. Vide certamente gli oikeioi di Oshin che arrivavano alla carica, così come quanto restava di quelli di Ivane Orbeli; ma non vide il cavaliere georgiano che, infine, riuscì a penetrare nelle sue difese e a trafiggerlo.





L’attacco degli oikeioi spezzò definitivamente la resistenza latina in quel punto, ma questa era già praticamente distrutta, la morte di un sì grande generale non poteva che avere effetti funesti. Solo i siriani tentarono un ultimo attacco, prontamente respinto dai monaspa, prima che la battaglia si concludesse.



“I miei sentiti complimento, Ivane, siete stato perfetto”, salutò Oshin incontrando l’Orbeli. Il quale si schernì.

“Vostra la tattica, vostra la vittoria, mio p’rintsi.”

Oshin replicò con un sorriso, anche se internamente non si sentiva affatto felice. Aveva ottenuto una grande vittoria, aveva sconfitto uno dei generali più celebrati d’Oriente e salvato il regno da una guerra aperta troppo dispendiosa. Ma non poteva fare nulla per quanto accadeva a nord, poteva solo aspettare di sapere se sarebbe stato un marito o un vedovo.
In ogni caso i romei avrebbero sputato sangue.
15/05/2012 21:29
 
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complimenti vivissimi. Leggi i Wu_ming per caso?
15/05/2012 21:32
 
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cosmo notte, 15/05/2012 21.29:

complimenti vivissimi. Leggi i Wu_ming per caso?



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Ne ho sentito parlare, ma non ho mai letto nessun loro libro

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