Anno 1189
L’aria era fredda e il sole ancora non aveva fatto capolino all’orizzonte quando si misero in marcia. Aprivano i kontophoroi, che avanzavano silenziosi nell’oscurità della notte. Di seguito due compagnie di metsikhovne mshvidlosani, con le preziose corde degli archi a riposare protette nelle faretre. Chiudevano la colonna altri kontophoroi e due squadroni di musellem. In avanscoperta e sui fianchi operavano gli egriseli, a protezione da eventuali imboscate e sorprese spiacevoli.
Dal canto suo Dzagan considerava fin troppo spiacevole già quella levataccia e quella marcia iniziata sotto il discutibile auspicio delle tenebre. Era nell’esercito da oltre vent’anni, ma ancora non si era abituato a doversi svegliare ben prima del sole per una giornata che prometteva marcia continua. E che sarebbe stata seguita da altre giornate tutte eguali. Ma erano gli ordini del p’rintsi e chi era lui per contestarli
Il sole intanto stava facendo capolino alla loro sinistra, dal che Dzagan dedusse che stavano dirigendo a sud. Contro i Turchi. Gli pareva strana come cosa, nelle caserme giravano voci di una forte concentrazione di truppe romee a est di Amastris e si pensava che la spedizione fosse volta a chiudere quel problema e ad assicurare protezione ad Amaseia prima di continuare la guerra contro il Sultano. Ma ormai era chiaro che altre erano le idee che albergavano nella mente del p’rintsi, per cui si marciava a sud. Ora dopo ora, sempre avanti.
Ben presto i soldati superarono la dolorosa soglia della fatica e i cori sussurrati di lamentele cessarono, ognuno risparmiava quante più energie per andare un passo ancora avanti. A giudicare dalla luce doveva essere passato mezzogiorno da parecchio, ma nessun segnale di sosta era stato dato e i soldati avevano consumato il proprio magro pasto marciando. Per ora, per fortuna, dei turchi nessuna traccia.
Incontrarono le prime pattuglie due giorni dopo, mentre scendevano nella valle dell’Halys, che i turchi chiamavano Kizilirmak; ma si trattava di poche milizie che non provarono alcunché, si limitarono a osservare e a sparire al primo segno degli egriseli.
“Secondo te dove siamo diretti?”, domandò il suo vicino di marcia.
“Contro i padroni di quelli là”, grugnì Dzagan in risposta, accenando con la testa agli esploratori che si dileguavano oltre l’orizzonte. “Non sarà uno scherzo, ormai è parecchio che siamo nel loro territorio.”
“Ma li abbiamo sconfitti, ormai sanno che…”
“Cosa? Che non possono vincere?” Dzagan rise. “Certo che li abbiamo sconfitti, ma sono passati quasi due anni. Ormai si sono ripresi e, fidati, ci stanno aspettando dove meglio gli aggrada.”
“Ma allora…”
“Allora dovremo fare il nostro dovere”, concluse Dzagan. “Siamo arcieri metsikhovne, mica volgari toxotai.”
Dopo l’avvistamento degli esploratori passò quasi una settimana prima che altre forze turche venissero avvistate. Nel frattempo avevano continuato a seguire il fiume e curvato verso oriente, puntando verso la città di Sivas, l’antica Sebasteia.
Qua la guarnigione turca tentò una resistenza in campo aperto e finì per essere spazzata via dagli oikeioi del p’rintsi. Il perché del folle gesto non lo capiì nessuno, tanto non era importante.
Il giorno dopo l’esercito georgiano entrò in una Sivas completamente intrisa di paura, ma nessun soldato cercò di approfittare della situazione: come ad Amaseia gli ordini del p’rintsi erano tassativi, decapitazione immediata per chi fosse stato sorpreso a saccheggiare. E nessuno voleva morire.
Tre giorni dopo l’esercito lasciò quella che ormai era ridiventata Sebasteia e puntò risolutamente a sud.
“Andiamo al cuore del nemico, insomma”, commentò un soldato. “Sarà un affare sanguinoso”, e sogghingava nel dirlo. Dzagan non condivideva quell’entusiasmo quasi perverso, ma anch’egli sentiva che era tempo di incontrare il Turco in una battaglia degna di questo nome e di abbatterlo dopo una fiera tenzone. Suo nonno era caduto a Didgori. Suo zio ne era uscito con una gamba sola, ma diceva sempre che era stato un buon prezzo per scacciare simili invasori dalle ancestrali terre del Regno. E ora spettava a lui essere presente a un altro atto di quel conflitto. Sperando che fosse un atto decisivo e nel senso corretto.
Incontrarono l’esercito turco a una trentina di leghe a nord di Kayseri, in attesa. Comprendeva un forte nucleo di lancieri ghilman, sostenuti su ambo i fianchi da sharqiyyun, halqa e artukogullari. Bande di arcieri si vedevano un po’ ovunque, composte tanto da fellah quanto dai ben più addestrati okçular. E c’erano diverse unità di cavalleria leggera da tiro, in particolare akinji e tawashi.
“Tawashi”, mormorarono parecchie voci con astio. Dzagan non poteva dare loro torto, detestava anch’egli quei cavalieri tanto audaci quanto coriacei. Era risaputo che i tawashi erano eccellenti tiratori a cavallo; ma altresì che si reputavano sprecati per quel tipo di combattimento e che non perdevano occasione di accantonare l’arco in favore della mazza da guerra. Dzagan osservava lo schieramento nemico e più lo guardava meno gli piaceva: il suo occhio da soldato veterano gli permetteva di calcolare rapidamente la consistenza del nemico e non c’era dubbio che i turchi fossero di più. Non in schiacciante superiorità, ma di più sì. Poi scorse qualcosa e sentì un brivido: il nemico schierava anche baliste e catapulte.
Era una cosa di cui doveva essersi accorto anche il p’rintsi, perché Dzagan lo vide parlare animatamente coi suoi consiglieri. Che rimpiangesse di aver lasciato a Sebasteia gli eristavi? Possibile, un buon nucleo di cavalleria pesante avrebbe fatto decisamente comodo. Invece pareva che Oshin intendesse sfidare i turchi sul loro stesso campo, arcieri a cavallo contro arcieri a cavallo.
Una notevole agitazione nelle retrovie e l’arrivo di diverse staffette fecero però capire a tutti che il p’rintsi non stava pensando alle catapulte turche, almeno non nell’immediato: nuvole di polvere alle loro spalle indicavano l’avvicinarsi di altre truppe ed era superfluo, pensò Dzagan, specificare da che parte stavano.
Poi arrivarono gli ordini e il tempo dei pensieri finì. Gli ufficiali incitarono gli uomini e tutta la fanteria georgiana si mosse verso alcune rovine, due quadrati di pietra sovrapposti che biancheggiavano nell’erba. Forse un tempo lì c’era una villa o un tempio; ma ora non restava che quello, un labile segno che stava visibilmente cedendo sotto l’incessante attacco dell’erba. Non che a Dzagan interessasse. Mentre correva assieme agli altri tirò fuori la corda dell’arco e la agganciò con un gesto fluido e naturale; del resto era la sua vita.
Raggiunsero infine la cima di quella che poteva essere definita una collina, per quanto in realtà non fosse che un tenue rialzo. Ma avrebbe comunque costretto i turchi ad attaccare in salita.
“Quadrato!”, berciavano gli ufficiali, spingendo i kontophoroi al loro posto. Lancia in pugno e scudo praticamente piantato nel terreno, i fanti formarono una muraglia a rinchiudere completamente le salmerie e i metsikhovne. Era una minifortezza, la cui tenuta o caduta era nelle mani di coloro che la componevano.
Dzagan si trovò accanto a due vecchi commilitoni, uomini con cui aveva molte volte condiviso il pericolo, e con un novellino, alla sua prima campagna nei metsikhovne mshvildosani. “Nervoso?”, lo punzecchiò uno dei veterani.
“Non più di te, vecchio”, replicò piccato il giovane, ma era evidente da come stringeva l’arco che si sentiva molto meno sicuro di come voleva apparire.
“Tranquillo figliolo, qua siamo al sicuro. Nessuno verrà a sbudellarti con una daga, al massimo verrai trapassato da una freccia nemica.”
“Preferirei evitare.”
“Come noi tutti. Ma è meglio una freccia, che morde una volta e poi basta, piuttosto che una spada, che continua ad attaccarti.”
“E se mai arriverà una spada”, s’intromise un altro, “beh, non avrà molta importanza perché vorrà dire che i kontophoroi hanno ceduto e la battaglia è andata.”
Intanto la battaglia era cominciata. Larghi a destra gli egriseli stavano duellando con parte dei tawashi, per ora solo a distanza. In lontananza i musellem si erano spinti a silenziare subito le catapulte turche, ma non erano riusciti a raggiungere anche le baliste e ora operavano al largo, attendendo il momento propizio. Gli oikeioi del p’rintsi avevano disceso la collinetta, ma non per incrociare le lame con gli akinji, bensì per portarsi in una posizione da cui poter attaccare la fanteria turca avanzante.
Che, in effetti, venivano avanti con slancio. I primi ad arrivare furono gli akinji, che iniziarono a svariare davanti al fronte dei kontophoroi, bersagliandolo di giavellotti. I pesanti scudi proteggevano bene i soldati, ma qua e là arrivarono i primi caduti e gemiti di sofferenza si levarono sul campo di battaglia.
Poi arrivò l’ordine di tirare. I metsikhovne mshvildosani incoccarono le frecce, tesero le corde per un tiro a parabola e rilasciarono all’unisono. Un fischio quasi assordante riempì l’aria, spento d’improvviso dal sordo rumore delle frecce che impattavano la carne delle loro vittime, uomini o cavalli che fossero.
Ma sempre nuovi turchi apparivano e ben presto gli arcieri abbandonarono la sincronia in favore di un tiro più rapido e costante. Dzagan sceglieva i bersagli, li puntava e ne cercava degli altri mentre ancora la freccia stava volando. Non si preoccupava di vedere se aveva colpito qualcosa, non ne aveva il tempo. I rumori e le urla lo informavano che anche alle spalle stava arrivando il nemico e che bisognava tirare anche su di loro. Davanti a lui i kontophoroi combattevano selvaggiamente per respingere la marea nemica e non era infrequente che, seppur per brevi istanti, qualche soldato turco riuscisse a uccidere un georgiano e provasse a passare. Un paio di volte fu lo stesso Dzagan a correggere all’ultimo il proprio tiro e a scagliare contro un artukogullaro troppo animoso o un ghilman troppo sfacciato.
Svuotò la prima faretra e chiamò perentoriamente uno dei ragazzi delle salmerie affinché gli portasse di corsa un nuovo fascio di frecce. Ma sapeva che ci sarebbe voluto qualche momento e poté quindi riposare le braccia che bruciavano per lo sforzo di tendere e scoccare. Intanto ne approfittò per dare un’occhiata in giro e vedere come andava.
Gli egriseli dovevano aver avuto ragione dei tawashi, perché avevano risalito la collina e si erano uniti al tiro dei metsikhovne mshvildosani; purtroppo però anche i turchi ormai schieravano al gran completo i loro tiratori e la situazione era ben bilanciata. Soprattutto erano molto i metsikhovne ormai inabili a continuare la battaglia, feriti o morti che fossero.
Alle spalle dello schieramento turco i musellem avevano facilmente sopraffatto le baliste – colpevolmente lasciate indifese dai comandanti turchi – ma non avevano molte possibilità di togliere pressione ai fanti, erano arcieri a cavallo e non cavalleria pesante. L’unica che c’era era la guardia del p’rintsi, ma si trovava distante.
Un suono di corno lacerò l’aria e Dzagan saettò lo sguardo verso la fonte del rumore. E vide gli oikeioi di Oshin Bagration lanciati alla carica contro un misto di lancieri e fanti turchi mandati a impegnarli. Anche a quella distanza Dzagan vide benissimo la fanteria turca letteralmente scomparire sotto gli zoccoli dei cavalieri del p’rintsi, il cui personale stendardo garriva al vento. Poi arrivò il ragazzo con le frecce e fu nuovamente tempo di scagliare dardi contro il nemico.
Nemico che stava facendo il massimo sforzo per sfondare. Ma i kontophoroi reggevano e i due lati meno impegnati stavano anzi ruotando per accerchiare i turchi. La pugna era feroce come non mai e Dzagan rallentò il tiro, non riusciva più ad avere un bersaglio chiaro.
Però la battaglia girava dalla loro, lo capì quando vide i tawashi impugnare le mazze e slanciarsi all’attacco. Era una mossa disperata e, infatti, non sortì effetti positivi: quasi subito gli egriseli, che avevano ormai esaurito le frecce, impugnarono le spade e spronarono i loro cavalli contro il nemico. La carica irruppe fra gli arcieri appiedati come una marea, sommergendo nel tracollo delle retrovie turche anche i tawashi.
L’arrivo di Oshin Bagration fu il colpo di grazia e chiuse di fatto la battaglia, per quando la cavalleria andò avanti altre due ore a inseguire fuggiaschi.
Al tramonto l’esercito turco non esisteva più.
L’indomani, sotto un sole radioso quanto la loro vittoria, le truppe georgiane entrarono nella fortezza di Kaysareia. Dzagan marciava con un braccio fasciato – una freccia l’aveva colpito proprio nelle ultimissime fasi praticamente senza che se ne accorgesse – ma non sentiva alcun genere di dolore. Quello era il suo giorno, era il giorno che la Georgia non avrebbe mai dimenticato. E nemmeno i turchi.