@serializable: li hai nominati e infatti...
Anno 1234, Tmutarakan
“Questo è quanto?”
“Sì, mio signore. Il rendiconto completo delle entrate del mese.”
“Allora direi che possiamo procedere alla spedizione. Inviate il tutto alla capitale.”
“A Trapezous?”
“Visto che è diventata da poco capitale direi di sì. Ora andate.”
“Mancherebbe la vostra firma di autorizzazione, mio signore.”
Davit Abuletisdze firmò sbrigativamente la pergamena e congedò nuovamente il burocrate. Poi si alzò e si diresse alla finestra del suo studio privato. Da lì poteva vedere praticamente tutta la città, un agglomerato urbano cresciuto negli anni fino a diventare la seconda città del regno per ricchezza e dimensioni. Tmutarakan, la perla di Taman: così era conosciuta nelle steppe. Forse per molti non era così perlacea, non a confronto delle seduzioni bizantine di Nikaia, dell’austera bellezza montana di Tbilissi o della forza e del potere che emanavano le mura di Kaysareia. Ma per Davit Abuletisdze Tmutarakan era casa.
La parte occidentale, proprio la direzione in cui stava guardando, era la più vitale, dominata dal vasto porto commerciale e dai due mercati, cuori pulsanti della città. Le strade erano sempre ingombre di uomini, carri e animali, di gente che vendeva e di gente che comprava, dai piccoli artigiani ai magnati della regione. E la quantità di merci disponibili era anche più impressionante. Tessuti pregiati, pellicce, animali rari, tinture, lana, gioielli, generi alimentari di ogni genere, cavalli, cammelli: qualunque cosa si desiderasse a Tmutarakan c’era.
Quando suo padre gli aveva passato il titolo di governatore, Davit si era sentito espressamente dire che quel titolo altro non era che un patetico paliativo che le casate dei Bagration e degli Orbeli usavano per tenersi buoni loro Abuletisdze, facendo loro credere di avere potere e onori quando in realtà questi venivano accumulati in quelle aree del regno dove di Abuletisdze non ce n’era nemmeno uno. Ma Davit era più che soddisfatto del proprio ruolo, amava dedicarsi alla gestione quotidiana della città, si sentiva nato per fare il governatore. Forse, si disse mentre lasciava vagare lo sguardo sul bailamme del mercato grande, non si sarebbe sentito così soddisfatto se fosse stato governatore di Ganja, che era decisamente più piccola e fuori dalle grandi tratte commerciali del regno. Ma quella era l’area di competenza degli Artuqid e che restasse loro.
Le guardie scattarono sull’attenti quando Davit scese nel cortile del palazzo del governatorato. Le salutò con un cenno del capo e si diresse verso le scuderie: voleva fare una cavalcata nelle piane che circondavano la città, lo aiutavano a pensare e a tenersi informato di quando accadeva. Ma era appena montato in sella quando vide un uomo entrare di corsa nel cortile e capì che cercava lui.
“Che succede?”, domandò cercando di nascondere il tono annoiato.
L’uomo si inchinò prima di rispondere. “Profughi alle porte, mio signore.”
Un’altra guerricciola nelle steppe, si disse Davit. Ma perché questi nomadi non se ne stavano calmi? “Quanti?”
“Non saranno più di una sessantina, mio signore.”
Davit annuì e ordinò di fargli strada. Dopotutto rientrava fra i suoi doveri di governatore quello di trattare personalmente simili questioni.
Erano effetti non più di sessanta persone, ridotte in uno stato pietoso. I fortunati indossavano pochi stracci laceri e sporchi, molti erano praticamente ignudi, alcuni chiaramente malati. Parecchi erano feriti, tutti apparivano sconvolti. Davit smontò da cavallo e si avvicinò. Non sembravano abitanti delle steppe, però.
“Da dove venite?”, domandò senza rivolgersi a qualcuno in particolare.
“Da Darbend”, rispose un uomo con un braccio solo e una fasciatura vistosa attorno alla testa.
Davit lo guardò perplesso. Darbend era all’altro lato del Caucaso, centinaia e centinaia di leghe distante. E era terra di Georgia da almeno trent’anni. Come era possibile? E la fortezza di Maghas, che dominava i passi del Caucaso? Perché non si erano diretti lì? Ma soprattutto, cosa era successo a Darbend?
“I Mongoli”, esalò l’uomo quando Davit ebbe posto la domanda. “Sono stati i Mongoli.”
Mongoli. Le ultime notizie che aveva ricevuto – vecchie di almeno sei mesi – li davano decisamente più a nord, intenti a combattere contro le popolazione della Volga Bulgaria. Ma a quanto pareva si erano mossi.
“Ma che è accaduto?”
“Sono arrivati dal nulla, mio signore”, rispose un altro uomo, con un passato da soldato a giudicare dal portamento. “Il giorno prima non c’erano e il giorno dopo occupavano leghe e leghe di territorio. Non ho mai visto un simile orda. Non sapendo che intenzioni avessero abbiamo inviato loro un’ambasceria. Un’ora dopo hanno attaccato con le teste degli ambasciatori come vessilli.” Rabbrividì e fece una pausa. Davit intuì che il seguito doveva essere decisamente spiacevole e attese. “Abbiamo lottato come potevamo, ma eravamo contadini, artigiani, mercanti. Loro erano furie demoniache. Hanno conquistato la città e l’hanno saccheggiata orribilmente. Gli uomini sono stati massacrati, le donne stuprate cento e cento volte fino a che non sono morte. Nemmeno i bambini sono state risparmiati. Poi hanno dato Darbend alle fiamme e hanno festeggiato sulle ceneri della città. Siamo vivi per miracolo.”
“E come mai siete qui? Maghas ha forse subito eguale sorte?”
“Il governatore ha ascoltato la nostra storia e poi ha fatto sigillare la fortezza, restando in attesa. Riteneva che le spesse mura di Maghas potessero arrestare la marea, ma non so dirvi se i Mongoli siano andati anche lì.”
“Anche?”
“Sarkel, mio signore. I Mongoli l’hanno conquistata due mesi fa”, intervenne un altro, dall’aspetto decisamente kipchaq. “Io c’ero e ho visto. Una volta macellato il nostro esercito e, conquistata la fortezza, hanno fatto preparare un grandioso banchetto di vittoria. Hanno costruito delle piattaforme usando pesanti tavole di legno unite fra loro e hanno allestito il banchetto sopra di esse. Ma prima hanno fatto sdraiare tutti i prigionieri sotto le piattaforme, a fungere da basi. Quindi si sono accomodati a mangiare e bere senza posa mentre, sotto di loro, i kipchaq morivano lentamente per soffocamento.”
Davit lo fissò orripilato. Non era infrequente che arrivassero notizie di questo o quel raid, con annessi saccheggi e uccisioni. Ma quella storia era orribilmente disumana. Come si poteva condannare un altro essere umano a una morte talmente orrenda? Ma il suo senso pratico lo portò a capire che non aveva tempo per rimuginare su ciò. Se i Mongoli avevano preso Sarkel voleva dire che erano in guerra coi Kipchaq. Forse avrebbero proseguito per la capitale Azaq. Ma poteva anche darsi che la “perla di Taman” attirasse i loro sguardi.
“Capitano, assicuratevi che questi uomini abbiano un alloggio, dei viveri e delle cure adeguate”, comandò. “Poi inviate esploratori a nord, che riferiscano continuamente delle mosse di questi Mongoli. E che un altro messo venga inviato alla capitale quanto prima: forse il mepe già è stato avvertito, ma un altro allarme non credo guasterà.”
Le tre settimane seguenti furono contrassegnate da un crescendo di ansia collettiva. La notizia del fato di Darbend e Sarkel si propagò come un incendio e con essa la paura iniziò a serpeggiare fra le vie. Da città vitale Tmutarakan si trasformò rapidamente in un luogo cupo, dove la gente cercava di svolgere i suoi affari il più in fretta possibile, con l’occhio sempre rivolto alle steppe, col timore di vedere comparire all’orizzonte i Mongoli.
Dei selvaggi cavalieri dell’est non si vide traccia; in compenso il rivolo di profughi divenne sempre più un fiume in piena. Centinaia e centinaia di persone cercavano disperato rifugio a Tmutarakan, portando con sé racconti atroci e i segni tangibili della veridicità delle loro parole. Tobu, Jebedei, Subotei, Hulegu: i nomi dei macellai mongoli venivano sussurrati e bastavano a evocare spettacoli di disumana spietatezza.
Poi, un mattino, nell’affollatissimo porto di Tmutarakan, dove chiunque avesse danaro cercava di assicurarsi una via di fuga, attraccò una nave della flotta reale, a bordo della quale c’era un messaggero del mepe. Immediatamente venne scortato al palazzo del governatore, alla presenza di Davit.
Al governatore di Tmutarakan
abbiamo ricevuto già notizia del terribile fato di Darbend. La fortezza di Maghas è stata pesantemente difesa e riteniamo sia più che preparata per sostenere un attacco in forze da parte di questo nemico. Abbiamo altresì già ordinato un reclutamento intensivo di truppe nelle aree della Georgia e dell’Armenia, nonché della Chaldia e dell’Abkhazeti. I forti del Caucaso sono presidiati e la via che conduce da Sokhumi a Tmutarakan è protetta dalla rocca di Tualpse.
Pur tuttavia, allo stato attuale non abbiamo modo di inviare rinforzi consistenti a Tmutarakan. Siamo perfettamente consapevoli di quanto la città sia importante per il regno e per la vostra casata. Ma cercare di difenderla sarebbe un suicidio, non siamo preparati a farlo. Pertanto vi chiedo di organizzare l’evacuazione di quanta più popolazione, civile e militare, sia possibile, ripiegando sull’Abkhazeti.
E’ un duro sacrificio che chiedo, ma sul sangue di Cristo vi giuro che ci riprenderemo la città non appena saremo pronti.
In fede
Guaram Bagration, mepe di Georgia, Armenia e Anatolia, protettore del Caucaso
Davit lesse per tre volte la lettera, per essere sicuro di aver compreso bene. Poi alzò lo sguardo sul messaggero. “Evacuazione?”, domandò in tono inquietantemente calmo.
“Sono gli ordini, mio signore”, rispose quello meccanicamente.
“E allora torna dal nostro mepe e, usando un po’ d’immaginazione, esplicagli dove diavolo può ficcarsi i suoi ordini!!!”, esplose Davit battendo entrambi i pugni sul tavolo. “Dovrei abbandonare Tmutarakan? Questa città l’ha conquistata mio nonno, è il frutto delle fatiche di tre generazioni della mia casata e dovrei abbandonarla di fronte al primo bastardo che viene a reclamarla?!? Per Dio, mai!!!”
“Ma…”, provò a protestare il messo. Ma Davit lo folgorò con lo sguardo.
“Il tuo mestiere è portare missive, per cui limitati a fare ciò. Ora sparisci dalla mia vista. Capitano!”, abbaiò poi. L’ufficiale, che attendeva fuori, si presentò immediatamente. “Sigilla immediatamente tutti gli accessi via terra alla città. Ogni profugo che dovesse arrivare da ora in avanti venga spedito verso sud-est, verso Tualpse. Poi voglio un resoconto dettagliato delle nostre forze militari e dello stato delle difese. Scattate!”
Entro notte Tmutarakan era completamente isolata, con il mare come unica via di comunicazione con il resto del mondo. Davit, nella sua stanza, stava leggendo il resoconto fattogli dal capitano. La situazione poteva essere decisamente peggiore, si disse. Secondo le stime aveva a sua disposizione quattro compagnie di trapeziuntoi, quattro di metsikhovne mshvildosani e un corpo di nakharar, mercenari armeni. Poi poteva contare su due compagnie di lancieri metsikhovne e due di kartlian, a cui si aggiungevano i suoi oikeioi e uno squadrone di shirvans.
Lo stato delle mura, d’altro canto, era invece meno incoraggiante: visto il perdurante stato di alleanza e amicizia col khanato dei Kipchaq, le difese di Tmutarakan non erano state particolarmente potenziate e risultavano vecchie e poco efficaci, soprattutto se paragonate a quelle di altre città. E i Mongoli avevano conquistato Sarkel, una fortezza a doppia cinta.
Inoltre tutte le voci erano concorde nell’affermare che l’armata media dei Mongoli era paragonabile a un’armata elitaria di uno qualunque dei regni che si affacciavano sul mar Nero. Erano migliaia, esperti in ogni genere di combattimento, con strane e micidiali macchine d’assedio orientali, terribilmente feroci e determinati.
Davit sapeva cosa voleva dire: non aveva abbastanza uomini e difese sufficientemente robuste per poter reggere, almeno apparentemente. Come minimo doveva incrementare la propria forza numerica. Per fortuna, se c’era una cosa che non mancava in quei giorni a Tmutarakan erano gli uomini. Avrebbe reclutato altri battaglioni di fanti, cercando il più possibile di suddividerli fra che aveva già una certa esperienza bellica e chi, invece, ne era del tutto privo.
Una settimana dopo rientrarono due esploratori, terrorizzati. Il motivo di tale paura si manifestò poche ore più tardi. Dall’alto delle mura Davit Abuletisdze osservò l’immensa orda mongola che ricopriva completamente la piana: erano uno spettacolo terribile, foriero di orrore e morte. Poi alcuni cavalieri si spinsero risolutamente fin presso le mura. Li comandava un uomo coi capelli raccolti in una lunga coda di cavallo, che gli scendeva lungo la schiena. Sfoggiava un paio di baffi spioventi che gli davano l’aria di un uccello da preda e il suo sguardo era scevro di ogni pietà.
“Chi comanda in questo letamaio?”, urlò. “Chi?”
“Io sono il governatore, Davit della casata Abuletisdze.”
“Io sono Tobu. Mi chiamano l’Iracondo, ma è un soprannome che non mi rende giustizia.” Ghignò. “Sarò breve: arrendetevi e inchinatevi al mio potere e vedrò di limitare i miei uomini.” Questa volta la risata fu più lunga e laida.
“Non so dalle tue parti, ma qui non siamo abituati a calarci le brache di fronte a un bamboccio che ride”, rispose Davit con determinazione. L’ira stravolse il volto del mongolo mentre quell’insulto lo colpiva.
“Georgiano”, sibilò velenosamente, “in molti hanno provato a insultarmi, ma nessuno è vissuto abbastanza a lungo da vantarsene. Dormi bene stanotte perché domani ridurrò questa città in cenere e voi tutti verrete sterminati!”
Volse il cavallo e tornò dai suoi. Davit espirò profondamente: sapeva bene che quello scambio di battute aveva annientato ogni minima possibilità di pietà da parte dei Mongoli. O si vinceva o i fortunati sarebbero stati quelli che si sarebbero risvegliati all’inferno. Si volse verso il suo secondo.
“Allora?”, domandò. “A che punto sono i nuovi battaglioni?”
“Non possono che essere pronti, mio signore”, rispose laconico il veterano.
“D’accordo. Voglio tutti gli uomini pronti e in posizione appena fa giorno.” Gli tese uno schema rozzamente vergato su un pezzo di pergamena. “Questo sarà lo schieramento.”
L’uomo lo studiò qualche istante. “Difendiamo così poco le mura, mio signore?”, chiese. “Non avremo nessuna possibilità di impedire loro di sfondare.”
“Lo so perfettamente. Ma non cambierò la mia decisione, questo sarà lo schieramento. Comunque”, sorrise appena, “non sono impazzito, so come cercare di difendere la città.”
La mattina seguente un bel sole caldo sorse a indorare le mura e gli edifici di Tmutarakan. Quasi a sfotterci, pensò Davit Abuletisdze mentre si affibbiava la spada al fianco e si assicurava l’elmo in testa. Nel cortile del palazzo del governatorato lo attendevano i suoi oikeioi, con le corazze che scintillavano e i mantelli che si agitavano pigramente sotto la brezza del mattino. Davit montò in sella senza dire una parola e si avviò verso le mura. Ad accoglierlo c’erano gli ufficiali dei battaglioni di stratiotai, i corpi che radunavano i volontari con bassa esperienza.
“Sono pronti?”
“Guardate voi stesso, mio signore.”
Davit salì sulle mura. La piana antistante era coperta di Mongoli urlanti. C’erano diverse torri d’assedio, scale in quantità e arieti. Oltre a degli strani carretti irti di spunzoni.
Il generale mongolo, Tobu detto l’Iracondo, stava arringando le sue truppe e a ogni pausa un boato sottolineava i suoi sanguinari richiami. Poi, d’improvviso, una serie di scoppi infernali risuonò nell’aria e i carretti con gli spunzoni parvero prendere fuoco; pochi istanti e le mura furono aggredite da una selva di scie infuocate, i cui colpi si ripercossero fino alle fondamenta.
Molti stratiotai si guardarono terrorizzati e non pochi volsero la testa verso il porto, con l’evidente tentazione della fuga.
“Lasciate perdere, non è di là che vi salverete”, li richiamò Davit senza nemmeno voltarsi. “Se stasera la città sarà ancora in piedi o meno dipende principalmente da voi, quindi restate al vostro posto e fate il vostro dovere.“ Si volse verso uno dei comandanti, un uomo imponente con un braccio solo. “E’ tutto pronto?”
“Come avete ordinato.”
“Perfetto. State al riparo dalle frecce e attendete il mio segnale.”
Mentre scendeva, Davit sentì distintamente le macchine d’assedio mettersi in movimento e le corde degli archi dei nakharar iniziare a fischiare. Il ballo era cominciato.
In meno di venti minuti la situazione sulle mura era diventata disperata. Dai continui rapporti risultava che la porta era sotto attacco e, sebbene un ariete fosse stato dato alle fiamme, altri erano sopraggiunti e ora i loro colpi battevano sordamente il tempo che restava a Tmutarakan.
Inoltre il bastione alla destra della porta era sotto pesante attacco, con fanti mongoli che duellavano con gli stratiotai e i nakharar che, esaurite le frecce, erano stati costretti a mettere mano alle asce.
Salvo peraltro essere in una situazione insostenibile, una delle torri d’assedio era stata portata alle loro spalle e ben presto sarebbero stati aggrediti.
“E il bastione di sinistra?”
“E’ anch’esso sotto attacco. Fanti corazzati mongoli, probabilmente arcieri. Ormai avranno già preso le mura.”
“Ma puntano alla porta?”
“Pare di no, mio signore. Pare che intendano aggirare le nostre linee di difesa sfruttando le vie.”
Cosa che non poteva essere loro permessa. Davit chiamò a sé il comandante degli shirvans, un giovane dal portamento fiero che rispondeva all’altisonante nome di Shaddad.
“Truppe appiedate mongole sono entrate in città dal bastione sinistro. Va a spiegare loro che non sono i benvenuti.”
Shaddad sorrise come un lupo davanti all’agnello. “Come comandi.”
Gli shirvans si allontanarono al trotto veloce e in breve disparvero alla vista. Davit tese l’orecchio: l’ariete batteva ancora, ma i gemiti delle porte erano ormai strazianti, mancava pochissimo al loro cedimento. Avanzò rapido fino a un punto dal quale aveva una buona prospettiva sulla porta e sul bastione soprastante. Gli stratiotai erano ancora là, li vedeva. Il loro numero si era pesantemente ridotto, ma gli arcieri mongoli non li avevano scacciati. La speranza era ancora viva, dunque.
Con uno schianto orrendo i battenti di Tmutarakan si arresero.
Urla belluine accolsero quella vittoria, ora la strada per le ricchezze della perla di Taman erano spalancate. Davit sentì la voce di Tobu l’Iracondo sovrastare tutte le altre con grida che di umano non avevano nulla. Del loro dialetto non capiva nulla, quelle poche frasi che si erano scambiati il giorno prima erano state pronunciate nella lingua della steppa; ciò nonostante capì benissimo quando il generale mongolo diede l’ordine di irrompere nella città.
“Ora!”, urlò con quanto fiato aveva in gola. “Ora!!! Ora!!!”
E gli stratiotai, che fino a quel momento erano rimasti in attesa sotto il costante tiro degli arcieri mongoli, risposero. Decine di asce si alzarono e calarono a staccare di netto corde e funi; non più bloccati nei loro loculi, decine e decine di pali lungi un metro e dalla punta indurita alla fiamma si rizzarono repentinamente, sia davanti alla porta che nelle vie laterali.
E i Mongoli ci finirono contro in pieno, trascinati dalla loro stessa sete di conquista e saccheggio.
Da una via laterale, Davit Abuletisdze assistette con un misto di gioia selvaggia e raccapriccio all’ecatombe che le sue trappole provocarono. Chi riusciva a passare la prima linea veniva inesorabilmente trascinato sulla seconda, dove non trovava scampo. I nitriti dei cavalli sventrati si univano alle urla disumane degli uomini morenti, mentre l’aria si colorava di sangue. Nel breve spazio di una decina di minuti metà dell’armata mongola si dissolse, ghermita dalle adunche mani della Morte.
Ma, contro ogni aspettativa, la cosa parve non intaccare né la determinazione né il morale dei sopravvissuti. Nonostante il loro generale giacesse col petto sfondato da un palo, i fanti mongoli si slanciarono lungo le vie di Tmutarakan, cercando con furore la mischia. Davit rimase impressionato, non sapendo se congratularsi per quella dimostrazione di coraggio e fermezza, o se invece deprecare quel disperato desiderio di sangue e violenza. Tornò rapidamente dai suoi oikeioi. Per via notò che gli arcieri corazzati mongoli erano stati impegnati in mischia dai cavalieri di Shaddad; ma vide altresì che stavano combattendo bravamente, senza la minima intenzione di cedere. Ma aveva altro a cui pensare.
Si portò fino alla piazza sulla quale si affacciava il palazzo del governatorato, dove c’era il quartier generale e dove venivano portati i feriti. Qua, con l’aria di essere appena passati attraverso l’inferno, c’erano poche decine di stratiotai, tutto ciò che restava dei difensori delle mura. Davit fece loro un cenno di saluto e di approvazione, quindi proseguì per la linea del fronte.
I kartlian stavano tenendo la posizione contro l’assalto dei lancieri corazzati mongoli, ai quali si erano uniti un paio di cavalieri sopravvissuti.
Alle loro spalle gli arcieri mongoli scaricavano le frecce con grande velocità. Ma a Davit bastò un istante per capire che, infine, anche i Mongoli stavano per cedere. L’intera via era sotto il tiro incessante dei suoi arcieri, otto compagnie fino a quel momento inutilizzate e pertanto fresche. Ormai era solo una questione di tempo prima che la vittoria fosse completa.
Ci volle un’altra ora prima che anche gli ultimi irriducibili fossero abbattuti. Praticamente nessuno si arrese, chi non riuscì o non volle fuggire combatté fino all’ultima stilla di sangue. Ma quando il sole iniziò a tramontare la battaglia era finita e i soldati georgiani stavano lavorando alacremente per cercare di riportare la città a un aspetto umano. In sella accanto alle mura che avevano sofferto maggiormente l’assalto mongolo, Davit Abuletisdze attendeva paziente che le trappole venissero levate e la viabilità riaperta. Lo spettacolo era terribile: l’angusto spazio fra la porta e gli edifici circostanti era un mattatoio, centinaia e centinaia di uomini e cavalli giacevano scompostamente al suolo, accatastati gli uni sugli altri, tutti uniti nel sonno mortale.
“Inutile che proviate pietà per loro, non ne sono degni.” Il giovane Shaddad era apparso quasi dal nulla al suo fianco. Portava una vistosa fasciatura al braccio destro, ma appariva estremamente soddisfatto.
“Vi capisco, so che la vostra famiglia era di Darbend”, replicò Davit. “Ma non posso fare a meno di pensare che è un modo orribile per morire. E ormai non posso fare altro che pregare per la loro anima.”
“E credete davvero che il vostro dio li accoglierà? Allah certamente non potrebbe commettere un errore simile, sono esseri maligni e hanno solamente avuto ciò che si meritavano.”
“Da quando Allah vi confida le sue intenzioni?”, replicò secco Davit. Shaddad si irrigidì per un istante. “Non volevo offendervi, come ho già detto vi comprendo”, continuò Davit in tono più calmo. “Tuttavia sento di non essere in grado di decidere io se questa gente meriti di finire all’Inferno o meno, le loro anime sono nelle mani di Cristo ormai. Però non fatevi ingannare: se torneranno sarò pronto a riceverli nuovamente.”
Due settimane dopo un messaggero raggiunse Guaram Bagration, mepe di Georgia, a Ikonion. Recava con sé uno stringato rapporto dell’accaduto, che iniziava in tal modo:
“
Io, Davit della casa Abuletisdze, governatore di Tmutarakan, ho volontariamente scelto di ignorare gli ordini ricevuti da voi, nonostante la loro chiarezza e la vostra superiore autorità. Mi sono arrogato questo diritto perfettamente consapevole di cosa questo mio gesto rappresentasse e del fatto che da quell’istante la mia vita era completamente nelle vostre mani. Solamente, prima di decidere se la mia testa dovrà restare al suo posto oppure no, vi prego di leggere quanto segue, il resoconto di come non io, ma il vostro popolo abbia respinto l’orda mongola e fatto sì che al tramonto Tmutarakan fosse ancora terra di Georgia.”