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Sakartvelos Samepho

Ultimo Aggiornamento: 25/05/2013 16:35
15/06/2012 14:03
 
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Anno 1225, Kaysareia

La spianata antistante alla fortezza di Kaysareia era gremita all’inverosimile di persone. Artigiani e contadini, soldati e mercanti, sacerdoti e nullatenenti, nobili e plebei, tutti erano lì. Guaram Bagration, p’rintsi di Georgia, era in sella al proprio destriero, circondato dalla propria guardia d’onore. Alle sue spalle, su una collina solitaria, si innalzava una costruzione dall’aspetto semplice, di pietra chiara, con un’unica porta di ferro battuto. Accanto ad essa sventolava la bandiera bianca rossocrociata del Regno.

Erano passati sette anni dal giorno in cui sua madre, Khatun Bagration, figlia del Califfo di Baghdad, si era spenta in Kaysareia. La notizia l’aveva raggiunto a Nikaia, appena conquistata, e Guaram era rientrato rapidamente. Ricordava molto poco di quel giorno, a dir la verità, ma una cosa gli era rimasta impressa: quanto apparisse distrutto suo padre. Non aveva mai visto un uomo così prosciugato di energie come in quel giorno. E ora, sette anni dopo, era di nuovo lì, ai piedi del mausoleo funebre ove riposava sua madre.

Un suono lugubre di corni annunciò che il corteo stava arrivando. Guaram si strinse il mantello, nero come la pece, attorno al corpo, riparandosi da un’improvvisa folate gelida. Il cielo era plumbeo, ma almeno per ora non pareva intenzionato a inondare il mondo colle sue lacrime. Ma era evidente che prima di sera anche gli elementi avrebbero pianto la scomparsa di Oshin Bagration, mepe di Georgia.



Prima apparvero i cavalieri della guardia, tutti vestiti a lutto. Il portastendardo reggeva un vessillo nero, senza altri ornamenti. Poi, nel silenzio generale, comparve il carro che trasportava il feretro, trainato da otto cavalli neri. A chiusura venivano altri cavalieri, guidati da Hetoum Orbeli, designato dallo stesso Oshin per questo compito.

Quando il corteo si fermò il patriarca di Tbilissi, la massima autorità religiosa del Regno, diede iniziò alla celebrazione funebre. Guaram assunse un’espressione compita, ma non riuscì a concentrarsi su quanto l’uomo di Dio diceva. Sentiva in sé un vuoto immenso e contemporaneamente il peso di una responsabilità che ormai gravava completamente sulle sue spalle. Da lì si sarebbe diretto a Tbilissi, per essere incoronato mepe e assumere ufficialmente il governo del Regno. E la cosa lo spaventava molto più di quanto volesse ammettere.



Ricordava bene l’ultimo incontro che aveva avuto con suo padre, meno di una settimana prima. Oshin era chiaramente prostrato dalla malattia che lo stava sconfiggendo, ma la sua mente era ancora lucida. L’aveva fatto chiamare proprio per parlargli del futuro della Georgia, di ciò che aveva costruito in quasi quarant’anni di regno.

“Hai per le mani un potere che io non ho mai nemmeno sognato”, gli aveva detto con voce arrochita. “Ma ricordati sempre che ce l’hai non per il tuo piacere, ma perché sei il più alto servitore del Regno. Dio ti ha concesso più potere che ad altri perché da te vuole più che da altri. Non compiere mai passi che ti vengono dettati dall’orgoglio o dall’egoismo, non possono che portare guai e pericoli.”

“Ma come farò ad essere un buon sovrano? I georgiani hanno voi nel cuore, io sarò solo vostro figlio.”

“Tu sei mio figlio, Guaram, è per questo che sarai il re. E certamente verranno fatti confronti, è purtroppo inevitabile. Ma tu non lasciarti influenzare da ciò. Sii semplicemente te stesso e non cercare di agire come avrei fatto io, è la via sbagliata.
Io sarò ricordato come colui che ha trasformato la Georgia da piccolo stato caucasico a dominatore di mezza Asia. Ma tu, figlio mio, tu non devi assolutamente cercare di passare alla Storia per aver conquistato di più; tu devi essere colui che renderà solide e durature le mie conquiste.“

“E’ per questo che mi hai fatto sposare quella principessa di Venezia? Per consolidare il regno? E’ senza dubbio una bella donna, ma sai benissimo che io non la amo.”

“Lo so, ma purtroppo è il destino dei sovrani. Quando andai da mio padre e gli proposi di organizzare il mio matrimonio con una delle figlie del Califfo, non avevo la minima idea di chi sarebbe stata la mia sposa. Lo scopo era quello di rinsaldare un’alleanza che ci era vitale per avere mano libera contro i Turchi. Sono decenni che ogni giorno ringrazio Dio di avermi dato tua madre. So la fortuna che ho avuto e so altrettanto bene che è un dono raro. Forse, col tempo, anche tu troverai nella tua sposa una compagna fedele e devota, te lo auguro. In ogni caso il tuo matrimonio ci ha permesso di comprare la pace con Bisanzio e questo è una cosa molto importante. Sei il futuro re, da te ci sia aspetta sacrifici più grandi che dagli altri.”

“Sarà come dici. Ma non credo che questa Flora Morosini mi interesserà in futuro più di quanto mi interessa ora.”

“Finché la tua sfera privata non si ripercuote sulla tua figura pubblica non credo che la cosa distruggerà il regno. Sono altri i pericoli dai quali dovrai guardarti.”

“Il rex latinorum?”

“Certamente il mio esimio collega di Gerusalemme ha delle mire espansionistiche ben precise e un potere che non vedo la necessità di sfidare. Ho già avuto una prova di forza con lui quando ha attaccato i domini abbasidi e sono stato costretto a restare a guardare mentre si prendeva metà del loro regno; ma l’alleanza dei latini ci assicura frontiere meridionali tranquille, traffici commerciali redditizi e eventuale aiuto contro futuri avversari; pertanto ho guardato e atteso.”

“Ora pare che si stiano muovendo per sfruttare la loro presenza in Tracia.”

“L’ho sentito dire. Si tratta di una bella gatta da pelare, senza dubbio. Però conosci il tuo nemico e puoi, volendo, combatterlo con molte armi, non unicamente con la forza bruta. I latini sono da tenere d’occhio, ma è il nord che mi spaventa.”

“Il nord? I Kipchaq sono nostri ottimi alleati e con la crisi che ha colpito Bisanzio credo che presto rioccuperanno Kiev e dintorni.”

“Forse. Ma non sono i Kipchaq ha preoccuparmi, conosco il khan e non ha né la forza né la volontà per crearti problemi. No, sono altre le cose che destano in me preoccupazione.”

“Ah, ho capito: parli di quelle voci che parlano di cavalieri dall’Oriente, di un capo sanguinario e di massacri senza fine in Transoxania.”

“Già. Ora sembrano lontani e deboli, ma poi? Se dovessero rivelarsi forti e pericolosi? So come trattare coi latini, coi romei e coi kipchaq, non temo musulmani o cristiani, tantomeno pagani dediti a Tengri. Ma l’ignoto, quello invece lo temo. In tutti questi anni ho sempre guardato a Occidente, dimenticandomi troppo delle nostre radici caucasiche e delle nostre lande originarie. Non scordartene, figlio mio, non dimenticarti delle terre che ci hanno dato i natali. Senza di esse non siamo georgiani, siamo gente qualunque. Non dimenticartene mai.”



A riscuoterlo dai suoi pensieri arrivò la voce profonda del patriarca, che stava concludendo la celebrazione. Il resto fu fin troppo lungo e fin troppo pesante. Guaram non poteva andarsene, ma il suo animo avrebbe voluto cacciare via tutti per restare da solo con le persone che amava e che ora non c’erano più.

A metà pomeriggio il cielo finalmente cominciò a piangere; nonostante ciò ci vollero diverse ora prima che l’immensa folla si disperdesse.
Quando la notte prese il sopravvento Guaram Bagration, ormai mepe di Georgia, rimase da solo presso la tomba dei propri genitori. La lapide di sua madre la conosceva fin troppo bene, un delicato bassorilievo che la rappresentava nelle sue vesti tipiche, praticamente senza gioielli, con il capo velato e uno sguardo pieno di tenerezza.
Alle sue spalle, in una piccola nicchia c’erano un’altra lapide, che rappresentava un soldato armato di tutto punto. La scritta indicava che lì era sepolto Romano Paleologo, comandante degli oikeioi reali.
Al centro del mausoleo si innalzava ora il sarcofago di suo padre. Lo scultore non era riuscito affatto a rendere giustizia alla forza e al carisma che Oshin Bagration aveva emanato in vita. Era una lastra tombale qualunque, un gelido pezzo di pietra indegno di un sì grande uomo. Tutto intorno c’erano bassorilievi con le sue imprese e, in mezzo, una lunga scritta:

qui giace Oshin della casa Bagration, primo del suo nome, Mepe di Georgia, Re d’Armenia, Dominatore dell’Anatolia, Difensore del Caucaso, Conquistatore di Konstantinoupolis, Distruttore dei Turchi.

Guaram Bagration si inginocchiò in muta preghiera. Quando si rialzò i suoi occhi luccicavano di lacrime. “Ti giurò che sarai fiero di me, papà”, mormorò.

15/06/2012 15:50
 
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Non voglio sembrare stronzo, la tua cronaca è la perfezione che continua a stupirmi, ma lasciati fare questa domanda: 1225 e ti sei preso solo l'Anatolia ???

Nullum magnum ingenium mixtura demientiae - Non c'è mai grande ingegno senza una vena di follia
Trahit sua quemque voluptas - Ognuno è attratto da ciò che gli piace (Virgilio)
Tanti est exercitus, quanti imperator - Di tanto valore è l'esercito, di quanto il suo condottiero


15/06/2012 16:23
 
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Tendo a preferire una tipologia di espansione che mi permetta di essere perennemente in positivo con le finanze, ogni singolo turno. Ora con la campagna sono venti anni avanti e ho aggiunto solamente 5 province - ma anche 200.000 bisanti in più nelle casse.
C'è altresì da considerare che sono alleato coi Crociati, con gli Abbasidi, coi Cumani e con gli Egiziani...lo spazio di manovra non è tantissimo.
Il che, peraltro, non esclude affatto eventi degni di nota: i mongoli bussano alle porte, stay tuned...
16/06/2012 23:46
 
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[SM=x1140527] [SM=x1140527] [SM=x1140527] Commovente

Per caso non potresti far risorgere la casata di Romano Paleologo, magari con un avanzamento di livello di un capitano a generale oppure con un adozione.
Chiaramente puoi anche ignorare questa richiesta.
17/06/2012 01:14
 
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Ci penserò, Lord Ferro, ci penserò.
17/06/2012 17:26
 
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Scusa se te lo chiedo, che programma usi per fare le mappe ???

A LordFerro: ma proprio i Paleologi vuoi far risorgere ??? xDxD

[SM=x1140431] [SM=x1140438] [SM=x1140438] [SM=x1140516] [SM=j2369094]
[Modificato da Basilio II Komnenos 17/06/2012 17:27]

Nullum magnum ingenium mixtura demientiae - Non c'è mai grande ingegno senza una vena di follia
Trahit sua quemque voluptas - Ognuno è attratto da ciò che gli piace (Virgilio)
Tanti est exercitus, quanti imperator - Di tanto valore è l'esercito, di quanto il suo condottiero


17/06/2012 18:32
 
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Uso photoshop per fare le cartine. Tempo addietro (almeno un anno buono) aveva fatto una piccola guida proprio su questo, puoi trovarla qui: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9769076
19/06/2012 09:49
 
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grandissima cronaca. Suppongo che sarai abbastanza vincolato allo scontro con gli eredi di Attila.
19/06/2012 15:34
 
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@serializable: li hai nominati e infatti...




Anno 1234, Tmutarakan

“Questo è quanto?”

“Sì, mio signore. Il rendiconto completo delle entrate del mese.”

“Allora direi che possiamo procedere alla spedizione. Inviate il tutto alla capitale.”

“A Trapezous?”

“Visto che è diventata da poco capitale direi di sì. Ora andate.”

“Mancherebbe la vostra firma di autorizzazione, mio signore.”

Davit Abuletisdze firmò sbrigativamente la pergamena e congedò nuovamente il burocrate. Poi si alzò e si diresse alla finestra del suo studio privato. Da lì poteva vedere praticamente tutta la città, un agglomerato urbano cresciuto negli anni fino a diventare la seconda città del regno per ricchezza e dimensioni. Tmutarakan, la perla di Taman: così era conosciuta nelle steppe. Forse per molti non era così perlacea, non a confronto delle seduzioni bizantine di Nikaia, dell’austera bellezza montana di Tbilissi o della forza e del potere che emanavano le mura di Kaysareia. Ma per Davit Abuletisdze Tmutarakan era casa.

La parte occidentale, proprio la direzione in cui stava guardando, era la più vitale, dominata dal vasto porto commerciale e dai due mercati, cuori pulsanti della città. Le strade erano sempre ingombre di uomini, carri e animali, di gente che vendeva e di gente che comprava, dai piccoli artigiani ai magnati della regione. E la quantità di merci disponibili era anche più impressionante. Tessuti pregiati, pellicce, animali rari, tinture, lana, gioielli, generi alimentari di ogni genere, cavalli, cammelli: qualunque cosa si desiderasse a Tmutarakan c’era.

Quando suo padre gli aveva passato il titolo di governatore, Davit si era sentito espressamente dire che quel titolo altro non era che un patetico paliativo che le casate dei Bagration e degli Orbeli usavano per tenersi buoni loro Abuletisdze, facendo loro credere di avere potere e onori quando in realtà questi venivano accumulati in quelle aree del regno dove di Abuletisdze non ce n’era nemmeno uno. Ma Davit era più che soddisfatto del proprio ruolo, amava dedicarsi alla gestione quotidiana della città, si sentiva nato per fare il governatore. Forse, si disse mentre lasciava vagare lo sguardo sul bailamme del mercato grande, non si sarebbe sentito così soddisfatto se fosse stato governatore di Ganja, che era decisamente più piccola e fuori dalle grandi tratte commerciali del regno. Ma quella era l’area di competenza degli Artuqid e che restasse loro.

Le guardie scattarono sull’attenti quando Davit scese nel cortile del palazzo del governatorato. Le salutò con un cenno del capo e si diresse verso le scuderie: voleva fare una cavalcata nelle piane che circondavano la città, lo aiutavano a pensare e a tenersi informato di quando accadeva. Ma era appena montato in sella quando vide un uomo entrare di corsa nel cortile e capì che cercava lui.

“Che succede?”, domandò cercando di nascondere il tono annoiato.

L’uomo si inchinò prima di rispondere. “Profughi alle porte, mio signore.”

Un’altra guerricciola nelle steppe, si disse Davit. Ma perché questi nomadi non se ne stavano calmi? “Quanti?”

“Non saranno più di una sessantina, mio signore.”

Davit annuì e ordinò di fargli strada. Dopotutto rientrava fra i suoi doveri di governatore quello di trattare personalmente simili questioni.


Erano effetti non più di sessanta persone, ridotte in uno stato pietoso. I fortunati indossavano pochi stracci laceri e sporchi, molti erano praticamente ignudi, alcuni chiaramente malati. Parecchi erano feriti, tutti apparivano sconvolti. Davit smontò da cavallo e si avvicinò. Non sembravano abitanti delle steppe, però.

“Da dove venite?”, domandò senza rivolgersi a qualcuno in particolare.

“Da Darbend”, rispose un uomo con un braccio solo e una fasciatura vistosa attorno alla testa.

Davit lo guardò perplesso. Darbend era all’altro lato del Caucaso, centinaia e centinaia di leghe distante. E era terra di Georgia da almeno trent’anni. Come era possibile? E la fortezza di Maghas, che dominava i passi del Caucaso? Perché non si erano diretti lì? Ma soprattutto, cosa era successo a Darbend?

“I Mongoli”, esalò l’uomo quando Davit ebbe posto la domanda. “Sono stati i Mongoli.”

Mongoli. Le ultime notizie che aveva ricevuto – vecchie di almeno sei mesi – li davano decisamente più a nord, intenti a combattere contro le popolazione della Volga Bulgaria. Ma a quanto pareva si erano mossi.

“Ma che è accaduto?”

“Sono arrivati dal nulla, mio signore”, rispose un altro uomo, con un passato da soldato a giudicare dal portamento. “Il giorno prima non c’erano e il giorno dopo occupavano leghe e leghe di territorio. Non ho mai visto un simile orda. Non sapendo che intenzioni avessero abbiamo inviato loro un’ambasceria. Un’ora dopo hanno attaccato con le teste degli ambasciatori come vessilli.” Rabbrividì e fece una pausa. Davit intuì che il seguito doveva essere decisamente spiacevole e attese. “Abbiamo lottato come potevamo, ma eravamo contadini, artigiani, mercanti. Loro erano furie demoniache. Hanno conquistato la città e l’hanno saccheggiata orribilmente. Gli uomini sono stati massacrati, le donne stuprate cento e cento volte fino a che non sono morte. Nemmeno i bambini sono state risparmiati. Poi hanno dato Darbend alle fiamme e hanno festeggiato sulle ceneri della città. Siamo vivi per miracolo.”

“E come mai siete qui? Maghas ha forse subito eguale sorte?”

“Il governatore ha ascoltato la nostra storia e poi ha fatto sigillare la fortezza, restando in attesa. Riteneva che le spesse mura di Maghas potessero arrestare la marea, ma non so dirvi se i Mongoli siano andati anche lì.”

“Anche?”

“Sarkel, mio signore. I Mongoli l’hanno conquistata due mesi fa”, intervenne un altro, dall’aspetto decisamente kipchaq. “Io c’ero e ho visto. Una volta macellato il nostro esercito e, conquistata la fortezza, hanno fatto preparare un grandioso banchetto di vittoria. Hanno costruito delle piattaforme usando pesanti tavole di legno unite fra loro e hanno allestito il banchetto sopra di esse. Ma prima hanno fatto sdraiare tutti i prigionieri sotto le piattaforme, a fungere da basi. Quindi si sono accomodati a mangiare e bere senza posa mentre, sotto di loro, i kipchaq morivano lentamente per soffocamento.”

Davit lo fissò orripilato. Non era infrequente che arrivassero notizie di questo o quel raid, con annessi saccheggi e uccisioni. Ma quella storia era orribilmente disumana. Come si poteva condannare un altro essere umano a una morte talmente orrenda? Ma il suo senso pratico lo portò a capire che non aveva tempo per rimuginare su ciò. Se i Mongoli avevano preso Sarkel voleva dire che erano in guerra coi Kipchaq. Forse avrebbero proseguito per la capitale Azaq. Ma poteva anche darsi che la “perla di Taman” attirasse i loro sguardi.

“Capitano, assicuratevi che questi uomini abbiano un alloggio, dei viveri e delle cure adeguate”, comandò. “Poi inviate esploratori a nord, che riferiscano continuamente delle mosse di questi Mongoli. E che un altro messo venga inviato alla capitale quanto prima: forse il mepe già è stato avvertito, ma un altro allarme non credo guasterà.”



Le tre settimane seguenti furono contrassegnate da un crescendo di ansia collettiva. La notizia del fato di Darbend e Sarkel si propagò come un incendio e con essa la paura iniziò a serpeggiare fra le vie. Da città vitale Tmutarakan si trasformò rapidamente in un luogo cupo, dove la gente cercava di svolgere i suoi affari il più in fretta possibile, con l’occhio sempre rivolto alle steppe, col timore di vedere comparire all’orizzonte i Mongoli.

Dei selvaggi cavalieri dell’est non si vide traccia; in compenso il rivolo di profughi divenne sempre più un fiume in piena. Centinaia e centinaia di persone cercavano disperato rifugio a Tmutarakan, portando con sé racconti atroci e i segni tangibili della veridicità delle loro parole. Tobu, Jebedei, Subotei, Hulegu: i nomi dei macellai mongoli venivano sussurrati e bastavano a evocare spettacoli di disumana spietatezza.

Poi, un mattino, nell’affollatissimo porto di Tmutarakan, dove chiunque avesse danaro cercava di assicurarsi una via di fuga, attraccò una nave della flotta reale, a bordo della quale c’era un messaggero del mepe. Immediatamente venne scortato al palazzo del governatore, alla presenza di Davit.


Al governatore di Tmutarakan

abbiamo ricevuto già notizia del terribile fato di Darbend. La fortezza di Maghas è stata pesantemente difesa e riteniamo sia più che preparata per sostenere un attacco in forze da parte di questo nemico. Abbiamo altresì già ordinato un reclutamento intensivo di truppe nelle aree della Georgia e dell’Armenia, nonché della Chaldia e dell’Abkhazeti. I forti del Caucaso sono presidiati e la via che conduce da Sokhumi a Tmutarakan è protetta dalla rocca di Tualpse.
Pur tuttavia, allo stato attuale non abbiamo modo di inviare rinforzi consistenti a Tmutarakan. Siamo perfettamente consapevoli di quanto la città sia importante per il regno e per la vostra casata. Ma cercare di difenderla sarebbe un suicidio, non siamo preparati a farlo. Pertanto vi chiedo di organizzare l’evacuazione di quanta più popolazione, civile e militare, sia possibile, ripiegando sull’Abkhazeti.
E’ un duro sacrificio che chiedo, ma sul sangue di Cristo vi giuro che ci riprenderemo la città non appena saremo pronti.

In fede

Guaram Bagration, mepe di Georgia, Armenia e Anatolia, protettore del Caucaso



Davit lesse per tre volte la lettera, per essere sicuro di aver compreso bene. Poi alzò lo sguardo sul messaggero. “Evacuazione?”, domandò in tono inquietantemente calmo.

“Sono gli ordini, mio signore”, rispose quello meccanicamente.

“E allora torna dal nostro mepe e, usando un po’ d’immaginazione, esplicagli dove diavolo può ficcarsi i suoi ordini!!!”, esplose Davit battendo entrambi i pugni sul tavolo. “Dovrei abbandonare Tmutarakan? Questa città l’ha conquistata mio nonno, è il frutto delle fatiche di tre generazioni della mia casata e dovrei abbandonarla di fronte al primo bastardo che viene a reclamarla?!? Per Dio, mai!!!”

“Ma…”, provò a protestare il messo. Ma Davit lo folgorò con lo sguardo.

“Il tuo mestiere è portare missive, per cui limitati a fare ciò. Ora sparisci dalla mia vista. Capitano!”, abbaiò poi. L’ufficiale, che attendeva fuori, si presentò immediatamente. “Sigilla immediatamente tutti gli accessi via terra alla città. Ogni profugo che dovesse arrivare da ora in avanti venga spedito verso sud-est, verso Tualpse. Poi voglio un resoconto dettagliato delle nostre forze militari e dello stato delle difese. Scattate!”

Entro notte Tmutarakan era completamente isolata, con il mare come unica via di comunicazione con il resto del mondo. Davit, nella sua stanza, stava leggendo il resoconto fattogli dal capitano. La situazione poteva essere decisamente peggiore, si disse. Secondo le stime aveva a sua disposizione quattro compagnie di trapeziuntoi, quattro di metsikhovne mshvildosani e un corpo di nakharar, mercenari armeni. Poi poteva contare su due compagnie di lancieri metsikhovne e due di kartlian, a cui si aggiungevano i suoi oikeioi e uno squadrone di shirvans.

Lo stato delle mura, d’altro canto, era invece meno incoraggiante: visto il perdurante stato di alleanza e amicizia col khanato dei Kipchaq, le difese di Tmutarakan non erano state particolarmente potenziate e risultavano vecchie e poco efficaci, soprattutto se paragonate a quelle di altre città. E i Mongoli avevano conquistato Sarkel, una fortezza a doppia cinta.

Inoltre tutte le voci erano concorde nell’affermare che l’armata media dei Mongoli era paragonabile a un’armata elitaria di uno qualunque dei regni che si affacciavano sul mar Nero. Erano migliaia, esperti in ogni genere di combattimento, con strane e micidiali macchine d’assedio orientali, terribilmente feroci e determinati.
Davit sapeva cosa voleva dire: non aveva abbastanza uomini e difese sufficientemente robuste per poter reggere, almeno apparentemente. Come minimo doveva incrementare la propria forza numerica. Per fortuna, se c’era una cosa che non mancava in quei giorni a Tmutarakan erano gli uomini. Avrebbe reclutato altri battaglioni di fanti, cercando il più possibile di suddividerli fra che aveva già una certa esperienza bellica e chi, invece, ne era del tutto privo.



Una settimana dopo rientrarono due esploratori, terrorizzati. Il motivo di tale paura si manifestò poche ore più tardi. Dall’alto delle mura Davit Abuletisdze osservò l’immensa orda mongola che ricopriva completamente la piana: erano uno spettacolo terribile, foriero di orrore e morte. Poi alcuni cavalieri si spinsero risolutamente fin presso le mura. Li comandava un uomo coi capelli raccolti in una lunga coda di cavallo, che gli scendeva lungo la schiena. Sfoggiava un paio di baffi spioventi che gli davano l’aria di un uccello da preda e il suo sguardo era scevro di ogni pietà.

“Chi comanda in questo letamaio?”, urlò. “Chi?”

“Io sono il governatore, Davit della casata Abuletisdze.”

“Io sono Tobu. Mi chiamano l’Iracondo, ma è un soprannome che non mi rende giustizia.” Ghignò. “Sarò breve: arrendetevi e inchinatevi al mio potere e vedrò di limitare i miei uomini.” Questa volta la risata fu più lunga e laida.

“Non so dalle tue parti, ma qui non siamo abituati a calarci le brache di fronte a un bamboccio che ride”, rispose Davit con determinazione. L’ira stravolse il volto del mongolo mentre quell’insulto lo colpiva.

“Georgiano”, sibilò velenosamente, “in molti hanno provato a insultarmi, ma nessuno è vissuto abbastanza a lungo da vantarsene. Dormi bene stanotte perché domani ridurrò questa città in cenere e voi tutti verrete sterminati!”

Volse il cavallo e tornò dai suoi. Davit espirò profondamente: sapeva bene che quello scambio di battute aveva annientato ogni minima possibilità di pietà da parte dei Mongoli. O si vinceva o i fortunati sarebbero stati quelli che si sarebbero risvegliati all’inferno. Si volse verso il suo secondo.

“Allora?”, domandò. “A che punto sono i nuovi battaglioni?”

“Non possono che essere pronti, mio signore”, rispose laconico il veterano.

“D’accordo. Voglio tutti gli uomini pronti e in posizione appena fa giorno.” Gli tese uno schema rozzamente vergato su un pezzo di pergamena. “Questo sarà lo schieramento.”



L’uomo lo studiò qualche istante. “Difendiamo così poco le mura, mio signore?”, chiese. “Non avremo nessuna possibilità di impedire loro di sfondare.”

“Lo so perfettamente. Ma non cambierò la mia decisione, questo sarà lo schieramento. Comunque”, sorrise appena, “non sono impazzito, so come cercare di difendere la città.”



La mattina seguente un bel sole caldo sorse a indorare le mura e gli edifici di Tmutarakan. Quasi a sfotterci, pensò Davit Abuletisdze mentre si affibbiava la spada al fianco e si assicurava l’elmo in testa. Nel cortile del palazzo del governatorato lo attendevano i suoi oikeioi, con le corazze che scintillavano e i mantelli che si agitavano pigramente sotto la brezza del mattino. Davit montò in sella senza dire una parola e si avviò verso le mura. Ad accoglierlo c’erano gli ufficiali dei battaglioni di stratiotai, i corpi che radunavano i volontari con bassa esperienza.

“Sono pronti?”

“Guardate voi stesso, mio signore.”

Davit salì sulle mura. La piana antistante era coperta di Mongoli urlanti. C’erano diverse torri d’assedio, scale in quantità e arieti. Oltre a degli strani carretti irti di spunzoni.



Il generale mongolo, Tobu detto l’Iracondo, stava arringando le sue truppe e a ogni pausa un boato sottolineava i suoi sanguinari richiami. Poi, d’improvviso, una serie di scoppi infernali risuonò nell’aria e i carretti con gli spunzoni parvero prendere fuoco; pochi istanti e le mura furono aggredite da una selva di scie infuocate, i cui colpi si ripercossero fino alle fondamenta.



Molti stratiotai si guardarono terrorizzati e non pochi volsero la testa verso il porto, con l’evidente tentazione della fuga.

“Lasciate perdere, non è di là che vi salverete”, li richiamò Davit senza nemmeno voltarsi. “Se stasera la città sarà ancora in piedi o meno dipende principalmente da voi, quindi restate al vostro posto e fate il vostro dovere.“ Si volse verso uno dei comandanti, un uomo imponente con un braccio solo. “E’ tutto pronto?”

“Come avete ordinato.”

“Perfetto. State al riparo dalle frecce e attendete il mio segnale.”
Mentre scendeva, Davit sentì distintamente le macchine d’assedio mettersi in movimento e le corde degli archi dei nakharar iniziare a fischiare. Il ballo era cominciato.





In meno di venti minuti la situazione sulle mura era diventata disperata. Dai continui rapporti risultava che la porta era sotto attacco e, sebbene un ariete fosse stato dato alle fiamme, altri erano sopraggiunti e ora i loro colpi battevano sordamente il tempo che restava a Tmutarakan.



Inoltre il bastione alla destra della porta era sotto pesante attacco, con fanti mongoli che duellavano con gli stratiotai e i nakharar che, esaurite le frecce, erano stati costretti a mettere mano alle asce.



Salvo peraltro essere in una situazione insostenibile, una delle torri d’assedio era stata portata alle loro spalle e ben presto sarebbero stati aggrediti.

“E il bastione di sinistra?”

“E’ anch’esso sotto attacco. Fanti corazzati mongoli, probabilmente arcieri. Ormai avranno già preso le mura.”

“Ma puntano alla porta?”

“Pare di no, mio signore. Pare che intendano aggirare le nostre linee di difesa sfruttando le vie.”

Cosa che non poteva essere loro permessa. Davit chiamò a sé il comandante degli shirvans, un giovane dal portamento fiero che rispondeva all’altisonante nome di Shaddad.

“Truppe appiedate mongole sono entrate in città dal bastione sinistro. Va a spiegare loro che non sono i benvenuti.”

Shaddad sorrise come un lupo davanti all’agnello. “Come comandi.”

Gli shirvans si allontanarono al trotto veloce e in breve disparvero alla vista. Davit tese l’orecchio: l’ariete batteva ancora, ma i gemiti delle porte erano ormai strazianti, mancava pochissimo al loro cedimento. Avanzò rapido fino a un punto dal quale aveva una buona prospettiva sulla porta e sul bastione soprastante. Gli stratiotai erano ancora là, li vedeva. Il loro numero si era pesantemente ridotto, ma gli arcieri mongoli non li avevano scacciati. La speranza era ancora viva, dunque.

Con uno schianto orrendo i battenti di Tmutarakan si arresero.



Urla belluine accolsero quella vittoria, ora la strada per le ricchezze della perla di Taman erano spalancate. Davit sentì la voce di Tobu l’Iracondo sovrastare tutte le altre con grida che di umano non avevano nulla. Del loro dialetto non capiva nulla, quelle poche frasi che si erano scambiati il giorno prima erano state pronunciate nella lingua della steppa; ciò nonostante capì benissimo quando il generale mongolo diede l’ordine di irrompere nella città.



“Ora!”, urlò con quanto fiato aveva in gola. “Ora!!! Ora!!!”

E gli stratiotai, che fino a quel momento erano rimasti in attesa sotto il costante tiro degli arcieri mongoli, risposero. Decine di asce si alzarono e calarono a staccare di netto corde e funi; non più bloccati nei loro loculi, decine e decine di pali lungi un metro e dalla punta indurita alla fiamma si rizzarono repentinamente, sia davanti alla porta che nelle vie laterali.
E i Mongoli ci finirono contro in pieno, trascinati dalla loro stessa sete di conquista e saccheggio.



Da una via laterale, Davit Abuletisdze assistette con un misto di gioia selvaggia e raccapriccio all’ecatombe che le sue trappole provocarono. Chi riusciva a passare la prima linea veniva inesorabilmente trascinato sulla seconda, dove non trovava scampo. I nitriti dei cavalli sventrati si univano alle urla disumane degli uomini morenti, mentre l’aria si colorava di sangue. Nel breve spazio di una decina di minuti metà dell’armata mongola si dissolse, ghermita dalle adunche mani della Morte.

Ma, contro ogni aspettativa, la cosa parve non intaccare né la determinazione né il morale dei sopravvissuti. Nonostante il loro generale giacesse col petto sfondato da un palo, i fanti mongoli si slanciarono lungo le vie di Tmutarakan, cercando con furore la mischia. Davit rimase impressionato, non sapendo se congratularsi per quella dimostrazione di coraggio e fermezza, o se invece deprecare quel disperato desiderio di sangue e violenza. Tornò rapidamente dai suoi oikeioi. Per via notò che gli arcieri corazzati mongoli erano stati impegnati in mischia dai cavalieri di Shaddad; ma vide altresì che stavano combattendo bravamente, senza la minima intenzione di cedere. Ma aveva altro a cui pensare.



Si portò fino alla piazza sulla quale si affacciava il palazzo del governatorato, dove c’era il quartier generale e dove venivano portati i feriti. Qua, con l’aria di essere appena passati attraverso l’inferno, c’erano poche decine di stratiotai, tutto ciò che restava dei difensori delle mura. Davit fece loro un cenno di saluto e di approvazione, quindi proseguì per la linea del fronte.

I kartlian stavano tenendo la posizione contro l’assalto dei lancieri corazzati mongoli, ai quali si erano uniti un paio di cavalieri sopravvissuti.



Alle loro spalle gli arcieri mongoli scaricavano le frecce con grande velocità. Ma a Davit bastò un istante per capire che, infine, anche i Mongoli stavano per cedere. L’intera via era sotto il tiro incessante dei suoi arcieri, otto compagnie fino a quel momento inutilizzate e pertanto fresche. Ormai era solo una questione di tempo prima che la vittoria fosse completa.





Ci volle un’altra ora prima che anche gli ultimi irriducibili fossero abbattuti. Praticamente nessuno si arrese, chi non riuscì o non volle fuggire combatté fino all’ultima stilla di sangue. Ma quando il sole iniziò a tramontare la battaglia era finita e i soldati georgiani stavano lavorando alacremente per cercare di riportare la città a un aspetto umano. In sella accanto alle mura che avevano sofferto maggiormente l’assalto mongolo, Davit Abuletisdze attendeva paziente che le trappole venissero levate e la viabilità riaperta. Lo spettacolo era terribile: l’angusto spazio fra la porta e gli edifici circostanti era un mattatoio, centinaia e centinaia di uomini e cavalli giacevano scompostamente al suolo, accatastati gli uni sugli altri, tutti uniti nel sonno mortale.





“Inutile che proviate pietà per loro, non ne sono degni.” Il giovane Shaddad era apparso quasi dal nulla al suo fianco. Portava una vistosa fasciatura al braccio destro, ma appariva estremamente soddisfatto.

“Vi capisco, so che la vostra famiglia era di Darbend”, replicò Davit. “Ma non posso fare a meno di pensare che è un modo orribile per morire. E ormai non posso fare altro che pregare per la loro anima.”

“E credete davvero che il vostro dio li accoglierà? Allah certamente non potrebbe commettere un errore simile, sono esseri maligni e hanno solamente avuto ciò che si meritavano.”

“Da quando Allah vi confida le sue intenzioni?”, replicò secco Davit. Shaddad si irrigidì per un istante. “Non volevo offendervi, come ho già detto vi comprendo”, continuò Davit in tono più calmo. “Tuttavia sento di non essere in grado di decidere io se questa gente meriti di finire all’Inferno o meno, le loro anime sono nelle mani di Cristo ormai. Però non fatevi ingannare: se torneranno sarò pronto a riceverli nuovamente.”





Due settimane dopo un messaggero raggiunse Guaram Bagration, mepe di Georgia, a Ikonion. Recava con sé uno stringato rapporto dell’accaduto, che iniziava in tal modo:

Io, Davit della casa Abuletisdze, governatore di Tmutarakan, ho volontariamente scelto di ignorare gli ordini ricevuti da voi, nonostante la loro chiarezza e la vostra superiore autorità. Mi sono arrogato questo diritto perfettamente consapevole di cosa questo mio gesto rappresentasse e del fatto che da quell’istante la mia vita era completamente nelle vostre mani. Solamente, prima di decidere se la mia testa dovrà restare al suo posto oppure no, vi prego di leggere quanto segue, il resoconto di come non io, ma il vostro popolo abbia respinto l’orda mongola e fatto sì che al tramonto Tmutarakan fosse ancora terra di Georgia.

19/06/2012 18:20
 
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Scudiero
bellissima cronaca e complimenti per gli screen :)
19/06/2012 19:22
 
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Principe
mmmmhh Saaaaangueeee [SM=g27980] [SM=g27980] [SM=g27980]

Guarda il lato positivo, in caso di un assedio da capitolazione avete un sacco di cibo per le strade. xD
19/06/2012 23:23
 
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Cavaliere
veramente complimenti! leggere la tua cronaca prima della maturità carica veramente tanto [SM=g27960] aspettiamo con ansia nuovi scontri!
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Bernhard Rothmann (Munster, 13 Gennaio 1534) :i vecchi credenti non vogliono permettere a nessuno di scegliere quale vita condurre, vogliono che voi lavoriate per loro e siate contenti della fede che vi consegnano i dottori. la loro è una fede di condanna, è la fede spacciataci dall'antiscristo! ma noi, fratelli, noi vogliamo redenzione! noi vogliamo libertà e giustizia per tutti! noi vogliamo leggere liberamente la parola del signore e liberamente scegliere chi deve parlarci dal pulpito e chi rappresentarci in consiglio! chi infatti decideva i destini della città prima che lo scacciassimo a pedate? il vescovo. e chi decide ora? i ricchi, i notabili borghigiani, illustri ammiratori di lutero solo perchè la sua dottrina consente loro di resistere al vescovo! e voi, fratelli e sorelle, voi che fate vivere questa città, non potete mettere parola nelle loro sentenze. voi dovete soltanto ubbidire, come sbraita lo stesso lutero dalla sua tana principesca.i vecchi credenti vengono a dirci che i buoni cristiani non possono occuparsi del mondo, che devono coltivare la loro fede in privato, seguitando a subire in silenzio i soprusi, perchè tutti siamo peccatori condannati a espiare. ma il tempo è giunto! i potenti della terra saranno spodestati, i loro scrani cadranno, per mano del signore. cristo non viene a portarci la pace, ma la spada. le porte sono ora aperte per coloro che sapranno osare. se penseranno di schiacciarci con un colpo di spada, con la spada pareremo quel colpo per restituirne cento!!!
21/06/2012 12:21
 
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ti rinnovo i miei complimenti, questa cronaca è veramente emozionante!! :D


"Per una scodella d'acqua, rendi un pasto abbondante; per un saluto gentile, prostrati a terra con zelo; per un semplice soldo, ripaga con oro; se ti salvano la vita, non risparmiare la tua. Così parole e azione del saggio riverisci; per ogni piccolo servizio, dà un compenso dieci volte maggiore: chi è davvero nobile, conosce tutti come uno solo e rende con gioia bene per male" - Mahatma Gandhi

"Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo." - Mahatma Gandhi

"You may say I'm a dreamer, but I'm not the only one" - Imagine, John Lennon

"ma é bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile a ogni morso. Bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro dev'essere la scure per il mare gelato dentro di noi." - Franz Kafka

"Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l'intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l'assenteismo e l'indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti." - Antonio Gramsci

http://www.youtube.com/watch?v=_M3dpL4nj3Q
https://www.youtube.com/watch?v=QcvjoWOwnn4
22/06/2012 13:43
 
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Anno 1237, Tmutarakan

Sevanch si grattò il mento. Certo che era una maledetta sfortuna, si disse. Ma proprio in una situazione di quel genere doveva finire? Giocherellò distrattamente con la propria spada, una vecchia lama che generalmente riposava nel fodero sdrucito che portava appeso alla schiena. Quanti scontri aveva visto quell’arma? Aveva perso il conto. Del resto era conscio di non essere più un bambino, aveva fatto la guardia del corpo o il mercenario per quasi trent’anni.

Il suo ultimo datore di lavoro era stato un mercante della Crimea, un tipo unticcio sempre intento a fare soldi sulla pelle degli altri. Un pessimo elemento, insomma. Ma a Sevanch servivano soldi – una costante della sua vita – e quindi aveva accettato di fargli da scorta nei suoi viaggi.
Anche se mai avrebbe pensato che quell’idiota intendesse andare a trattare nientemeno che col khan dei Mongoli. Se avesse avuto voce in capitolo gli avrebbe consigliato di trovare un altro obiettivo: il mar Nero era pieno di potenziali acquirenti per le sue merci. Ma la sua parola contava meno di zero e quindi erano partiti per Sarkel.

Sevanch era molto poco legato al suo popolo, tantomeno al khanato kipchaq; però le lunghe, infinite file di teste impalate che costeggiavano per miglia la via d’accesso a Sarkel avevano colpito perfino un vecchio mercenario come lui, rischiando di farlo vomitare. Il mercante, per contro, aveva rigettato tutto il rigettabile, e a Sevanch non era sfuggito che i Mongoli lo avevano guardato con profondo disprezzo. Su quelle basi le trattative non potevano andare bene e, infatti, si erano concluse in un nulla di fatto. E tutti i ricchi doni per ingraziarsi il khan erano ovviamente andati sprecati. Ben più povero di quando era arrivato, il mercante aveva lasciato Sarkel e si era diretto verso sud, puntando a Tmutarakan. Nonostante il fallimento, appariva stranamente sereno e Sevanch il sesto giorno di marcia aveva scoperto il perché: con un gesto di assoluta follia il mercante aveva letteralmente rapinato i Mongoli, caricando sui propri carri merce non sua, fra cui addirittura diverse schiave. Tutte giovani e belle. Quella sera il mercenario aveva detto chiaro e tondo che non intendeva morire perché lui si arricchisse facendo di quelle donne delle prostitute; ma il mercante aveva liquidato le proteste con un gesto annoiato e a Sevanch non era rimasto che ingoiare il rospo.
Almeno fino alla mattina seguente.

L’agguato era stato perfetto e almeno un terzo del seguito del mercante era morto prima di capire cosa stava succedendo. Sevanch aveva avuto la chiara visione di almeno un centinaia di cavalieri mongoli, di quelli che erano chiamati mangudai, avanzare al galoppo scagliando frecce a una velocità terribile. Tenendo fede alla sua parola aveva dato di sprone e, facendosi largo a colpi di spada, se n’era andato. Meglio la pelle e la povertà che una borsa d’oro e una fredda fossa, si era detto.

Ovviamente impossibilitato a tornare verso nord – Azaq era ormai stata conquistata dai Mongoli e anche la strada per Olese era sorvegliata – Sevanch si era diretto a sud, sperando di trovare a Tmutarakan una nave per un luogo qualunque dove poter vendere la propria spada.

Ma arrivato in città aveva avuto un’ironica sorpresa: i mangudai che avevano sterminato il mercante e il suo seguito non erano sulle loro tracce, erano l’avanguardia di un esercito colossale venuto a distruggere la perla di Taman. Li aveva sfuggiti solo per doverli affrontare.

Come se ciò non bastasse, non era nemmeno riuscito a trovare una stalla per il suo destriero sfinito che alcuni soldati l’avevano prelevato e condotto a forza alla presenza del governatore. Sevanch aveva, come tutti nelle steppe, sentito parlare di Davit Abuletisdze. Era una sorta di eroe, l’uomo che aveva sconfitto i Mongoli, ridicolizzando nientemeno che il possente Tobu. Le voci lo descrivevano come un gigante dallo sguardo di fuoco, la cui voce terrorizzava chi la udiva e la cui sola vista ispirava nei suoi soldati gesta eroiche. Esagerazioni ovviamente, ma Sevanch si era aspettato comunque un uomo diverso. Davit Abuletisdze era un burocrate, un uomo dall’aspetto piuttosto mite, non particolarmente alto e decisamente privo di un fisico scolpito da guerriero consumato. Benché indossasse abiti militari, era evidente che lo faceva perché i tempi lo richiedevano e non per una naturale propensione. Se ne stava seduto fra pile di pergamene e calamai pieni d’inchiostro quando Sevanch venne portato lì.

“Il mercenario kipchaq, mio signore.”

Davit aveva alzato lo sguardo dalla pergamena che stava consultando. “Sicuri di non aver sbagliato?”, aveva detto in tono calmo. “Quest’uomo avrà passato da tempo i cinquanta, dubito che sia ancora in grado di combattere.”

La cosa aveva ferito l’orgoglio di Sevanch molto più di quanto si aspettasse. “Ho quarantasette anni e sono ancora capacissimo di maneggiare una lama!”, aveva sbottato.

“Ha sentito capitano? Piazzatelo in una delle compagnie di straiotai e vediamo cosa sa fare.”

E così, per un crudele scherzo del fato, Sevanch si era ritrovato invischiato in uno scontro più grande di lui.


I Mongoli avevano impiegato una settimana prima di arrivare, e altri tre giorni per preparare tutto il parco d’assedio. Erano stati giorni febbrili, in cui i soldati georgiani avevano lavorato alacremente per preparare quelle trappole ormai diventate famose (o famigerate) in tutte le steppe. Sevanch aveva osservato con moderato interesse tutto quel faticare, intimamente convinto che i Mongoli non avrebbero commesso due volte lo stesso errore e che questa volta quei pali acuminati non avrebbero fermato l’orda. La cosa che l’aveva colpito di più della città era che gli abitanti non parevano per nulla impauriti: era come se l’idea di essere l’obbiettivo di un imponente esercito non li preoccupasse affatto. Era questa l’ispirazione che la presenza di Davit Abuletisdze dava? Che le leggende già fiorite a centinaia sull’eroico assedio di tre anni prima non fossero poi così leggende?

Ma quella mattina, mentre dalle mura osservava le ingenti schiere mongole dispiegarsi in tutta la loro potenza, Sevanch era convinto che ci sarebbe voluto ben più che una qualche fondamento di leggenda per portare a casa la pelle.



E la sua era più in pericolo di quella di molti. Era evidente che, dopo l’attacco di tre anni prima, le difese della città erano state sottoposte a un drastico rinnovamento; solo che i lavori erano lungi dall’essere finiti e c’era una netta sproporzione fra il bastione sinistro, ampliato e fortificato, e quello destro, ancora vecchio e cadente. Era lì che i Mongoli tre anni prima avevano massacrato i mercenari nakharar e parte degli stratiotai, impadronendosi delle mura. E ora lì c’era lui. Per di più con quell’ingombrante bandiera rossocrociata che, a sentire il governatore, doveva proteggere a costo della vita. Come se per lui, Sevanch, quel pezzo di stoffa avesse qualche significato.

“Si muovono”, borbottò qualcuno attorno a lui. Era vero: aguzzando lo sguardo si vedevano i fanti mongoli avanzare con scale e torri. Pessima vista, si disse Sevanch, qui le cose girano male fin da subito. Più si avvicinavano e più vedeva in quegli uomini dei soldati professionisti. A giudicare dall’armamento dovevano essere zuut, lancieri di secondo piano nelle armate mongole; solo che lì sulle mura c’erano contadini, artigiani, commercianti, non soldati. Probabilmente era l’unico uomo d’armi dell’intero bastione e a quarantasette anni si sentiva un po’ troppo datato per reggere da solo.



Poi le scale vennero appoggiate alle mura con tonfi sordi e i Mongoli cominciarono ad arrampicarsi come tanti piccoli ragni. Il primo che fece capolino venne abbattuto con un colpo di lancia nella gola, il secondo fu spinto nel vuoto da un colpo di scudo e un terzo finì trafitto da almeno cinque lance; ma in breve gli zuut formarono una testa di ponte e lo scontro si fece selvaggiamente feroce.

Sevanch estrasse la spada non appena il primo mongolo fece la sua comparsa e dopo meno di cinque minuti la vecchia lama aveva già bevuto il sangue di tre avversari. Combatteva con meccanica fluidità, per quanto si rendesse acutamente conto di essere decisamente più lento di qualche anno prima. Uccise un fante dalla faccia butterata con un singolo fendente di punta alla gola, quindi venne superato da un paio di stratiotai particolarmente ardimentosi.

Che vadano, si disse, mi potrò riposare qualche istante. Reggeva ancora la bandiera in mano, lo stendardo schizzato di goccioline rossastre che sventolava nella brezza del mattino. Si diede uno sguardo attorno: la situazione volgeva al peggio, nonostante gli sforzi gli zuut avevano ormai il controllo di parte del bastione e la tenebrosa siluette di una torre d’assedio incombeva alle loro spalle. Quanto mancava perché dal suo ventre oscuro venisse vomitata una torma di uomini assetati di sangue? Forse non li avrebbe mai visti, forse gli zuut avrebbero avuto ragione di loro prima.
Ormai era praticamente in prima linea, poteva vedere distintamente gli occhi piccoli e i baffi spioventi dei fanti mongoli impegnati nella mischia.



Si trovò rapidamente sotto attacco concentrato di tre avversari e dovette dar ricorso a tutta la sua esperienza per non finire infilzato. Accanto a lui uno stratiotos finì ucciso e un quarto zuut si unì alla festa. Deviò una, due, tre lance, ma la quarta riuscì a sorprenderlo, scavando un rosso solco nel suo fianco. La corazza attutì parzialmente l’urto, ma la ferita bruciava da farlo urlare. E infatti si ritrovò a urlare.

“Bastardo!”, gridò mentre sbaragliava le difese del lanciere che l’aveva colpito e gli infilava la spada fino all’elsa nel petto. Non perse tempo a recuperarla, afferrò al volo la lancia che l’uomo ormai morente lasciò cadere e si volse a fronteggiare gli altri tre. Questi andarono all’attacco e Sevanch li aspettò a pié fermo: deviò il primo colpo con l’asta della bandiera, infilzò ferocemente il secondo nemico e lo spinse contro il suo compagno, mandandolo a ruzzolare sul bastione vischioso di sangue. Recuperata con uno strattone la lancia, attaccò il primo nemico e in pochi colpi lo inchiodò alle mura, lasciandolo a crepare con una lancia nel ventre. Quindi snudò un pugnale e corse a finire il terzo, sgozzandolo con un singolo gesto. Solo a questo punto recuperò la spada.

Mentre compiva il suo personale massacro, la situazione era diventata critica: gli zuut erano ormai padroni del bastione, solo poche sacche di stratioatai reggevano ancora. Cosa accadesse nel resto della città non si sapeva, non c’era tempo per scoprirlo. Tuttavia le cose non dovevano essere così orribili: Sevanch scorse distintamente decine di arcieri trapezioutoi prendere posizione nelle strade sotto le mura e capì.

“Attenti!”, urlò per farsi sentire sopra il frastuono della battaglia. Ebbe appena il tempo di buttarsi a terra che una nube di frecce si abbatté sul bastione. Qualcuna cadde dove si trovavano gli stratioatai e una colpì in pieno la bandiera; ma il grosso era stato scagliato bene e centrò gli zuut, aprendo larghi vuoti nelle loro fila. I mongoli non si scomposero più di tanto e continuarono a combattere. Ma gli arcieri aggiustarono ulteriormente il tiro e in breve il prezzo da pagare divenne troppo alto per gli zuut: ormai ridotti a pochi gruppi iniziarono a ritirarsi disordinatamente lungo le scale. E non furono pochi gli stratiotai sopravvissuti che si slanciarono avanti per spingere queste ultime lontano dalle mura, facendo precipitare con esse anche gli odiati zuut.
E fu allora che arrivarono gli uurudai.

Vomitati infine dalla torre, i guerrieri mongoli si scagliarono come demoni sui già provati stratiotai e iniziarono a massacrarli senza pietà. Le loro lame si abbassava e alzavano ritmicamente, sollevando schizzi di sangue.



Sevanch si trovava all’altro lato dello schieramento, ma il nemico arrivò da lui fin troppo in fretta. Alla base delle mura gli arcieri continuavano a tirare, ma stavano rapidamente esaurendo le frecce e con esse la loro efficacia. Ormai era questione di minuti prima che l’intero bastione cadesse. E pensare, si disse Sevanch mentre duellava con un mongolo, che fino a quel momento avevano retto. Fece un salto indietro per evitare un fendente e contrattaccò con ferocia. Il suo colpo finì però deviato dallo scudo del nemico ed egli si trovò sbilanciato. Vide la spada calare ma l’unica cosa che poté fare fu alzare la bandiera a difesa. La lama mongola tranciò di netto l’asta e proseguì la sua corsa nel braccio sinistro di Sevanch fino all’osso. Vincendo le vampate di dolore che lo assalirono, il mercenario ne approfittò per colpire l’avversario con diversi colpi di punta, riuscendo infine a trovare una via attraverso la sua corazza. Continuò a colpire finché non sentì il nemico scivolare a terra privo di vita. Cadde a sua volta, il braccio completamente in fiamme; cercò di resistere, ma il dolore ebbe la meglio e Sevanc svenne.



Quando si riebbe era buio. I suoi occhi faticarono ad abituarsi e gli bastò un minimo movimento per sentire fitte lancinanti ovunque. Provò a tirarsi su comunque, ma non trovò appigli e si riabbatté su quello che, giudicò, doveva essere un pagliericcio. Rimase ansante per alcuni momenti, poi decise di guardarsi attorno. Era in un vasto ambiente, debolmente illuminato da torce e fuochi. Ovunque si vedevano altri pagliericci e gente stesa sopra di essi. Qua e là alcune figure indistinte giravano, fermandosi di tanto in tanto presso uno dei pagliericci.
Doveva essere uno dei luoghi adibiti a ospedale, capì Sevanch. Sembrava tutto calmo, che la città non fosse caduta dunque? Pareva improbabile che i Mongoli si fossero dimostrati umani, e proprio lì per di più.

“Sei ancora vivo, vedo.”

Sevanch alzò lo sguardo e riconobbe il governatore, Davit Abuletisdze. “Abbiamo vinto, allora.”

“Certo che abbiamo vinto, ne dubitavi forse?”

“Con tutto il rispetto dubitavo che i Mongoli cadessero due volte nella medesima trappola”, rispose Sevanch. Davit si inginocchiò accanto al pagliericcio.

“Magari sapevano, ma la via per entrare era comunque sempre e solo quella, per cui…” Sorrise. “Comunque un po’ hanno imparato, parte della cavalleria è riuscita a passare e perfino il generale ha avuto il buon gusto di non farsi impalare. Il problema è che ciò che hai pensato tu l’ho pensato anch’io e, pertanto, avevo già preparato la contromossa. Hai mai visto come può essere una strada cittadina dopo che un nemico l’ha attaccata e è stato accolto a colpi di proiettili incendiari?”

“Cerco il più possibile di tenermi lontano da certi luoghi.”

“E fai bene, è uno spettacolo piuttosto pesante. La cosa buona è che sono solo mongoli quelli finiti carbonizzati.”







Davit Abuletisdze si rialzò e andò a visitare altri soldati feriti, lasciando Sevanch ai suoi pensieri. E così i mongoli, pur essendo entrati, non erano riusciti a vincere nemmeno stavolta. Forse le voci di cui era piena la steppa erano vere, forse questo georgiano era sul serio un gigante, per quanto non nell’aspetto fisico. Fuoco. Ci voleva un dannato coraggio per scatenare per le vie di una città quasi tutta di legno un elemento così difficilmente controllabile. Però quel fuoco aveva salvato Tmutarakan e in pochi giorni l’eco di quella disfatta mongola sarebbe arrivato fino ai più remoti recessi delle terre conosciute. Vide arrivare un uomo, un monaco a giudicare dall’abito.

“Tu”, lo apostrofò. “Sì, tu. Aiutami ad alzarmi.”

“Dovresti riposare, fratello. Hai subito un duro colpo e…”

Sevanch lo folgorò con lo sguardo e il monaco, impaurito, si affrettò ad obbedire. Nel tirarsi su il mercenario si rese conto che non aveva più il braccio sinistro. Fissò la manica vuota per alcuni istanti. “Impossibile da salvare, vero?”, domandò calmo.

“Il cerusico ha detto che era messo troppo male.”

“Non importa, tanto sono troppo vecchio per continuare questo mestiere. E poi è già tanto che io sia vivo.” Si fece forza e andò a cercare il governatore, trovandolo infine intento a parlare con un altro ferito.

“E il bastione?”, gli domandò a bruciapelo, attirandosi più di un’occhiataccia dalle guardie per la sua mancanza di rispetto. Davit fermò le loro rimostranze con un gesto.

“Che vuoi sapere sul bastione?”

“Nessuno è sopravvissuto, vero?”

“Perché, pensi di essere morto?”, replicò Davit con un lieve sorriso. “Siete sopravvissuti in quattro, tu e tre straiotai. E i mongoli non sono riusciti a impadronirsi del bastione.”

“Ma…”

“In crisi al centro, gli uurudai sono stati richiamati. Avete retto, esattamente come dovevate fare.”

Se ne andò e Sevanch rimase in piedi, nell’oscurità dell’ospedale. Era stanco e lacero, aveva perso la spada e un braccio, sentiva tutti i suoi anni e anche qualcuno in più. Eppure non si era mai sentito così bene come allora. Aveva guidato dei contadini contro i mongoli. E avevano vinto i contadini.
22/06/2012 22:57
 
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Frederick, potresti postare gli assedi mongoli anche in Bellum Crucis Famous Battle, mi piacerebbe vedere questi 2 assedi sia dal punto di vista soggettivo dei protagonisti che dal punto di vista oggettivo.
28/06/2012 11:45
 
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Anno 1240, Ikonion

Il consiglio di guerra era stato convocato a Ikonion. Benché la città non avesse particolari status all’interno del regno, era da anni che il mepe l’aveva eletta a sua residenza. Si vociferava che il motivo di ciò fosse la passione di Guaram Bagration per le donne della regione; le lingue più maligne invece asserivano che non volesse tornare in Georgia per paura di dover, in qualità di mepe, andare ad affrontare i Mongoli. Perché, se le vittorie di Davit Abuletisdze erano gemme riconosciute da tutti, era altresì vero che erano arrivate alle regole della Georgia, non in battaglie campali allo stile mongolo.
Qualunque fosse la verità qualcosa bolliva in pentola a Ikonion e da più parti nobili e generali convergevano sulla città.

Krikor Abuletisdze era il cadetto di casa Abuletisdze, un uomo dal temperamento piuttosto ribelle cresciuto per diventare un uomo d’armi. Dopotutto, era suo fratello Davit quello destinato a ereditare il governatorato di Taman e il comando della casata. Il risultato era che ora Davit era un eroe sulla bocca di tutti e lui, Krikor, non aveva nulla. Aveva passato anni ad Attaleia, aspettando che la debolezza di Bisanzio inducesse gli abitanti di Cipro a liberarsi di quell’obsoleto dominio; ma ciò non era successo e la sua attesa era stata vana. Anche alcuni tentativi di provocare scontento in Cilicia contro i latini erano stati frustrati.

Mentre camminava per i corridoi del palazzo di Ikonion, Krikor si sentiva decisamente poco ben disposto verso il proprio signore, un uomo che riteneva un mepe debole e indeciso. Oh, certo, il regno prosperava e i due assedi vinti contro i Mongoli avevano dato grande rinomanza alle armi georgiane. Ma questo era il retaggio del grande Oshin da un lato, del coraggio e della determinazione di suo fratello dall’altro. Era noto al mondo che mentre si combatteva all’ultimo sangue sulle mura di Tmutarakan, Guaram Bagration si sollazzava con donne che definire di facili costumi era un eufemismo. Così come tutti sapevano che entrambi i rampolli di casa Bagration, Abirad e Vahram, erano figli della regina tanto quanto poteva esserlo un capo berbero.

Due guardie attendevano davanti alla sala ove si sarebbe svolta la riunione. Erano aznauri, l’elite stessa dell’esercito georgiano, di stanza a Ikonion in qualità di guardia reale. Krikor attese di essere annunciato, quindi entrò. Come capitale del sultanato selgiuchide di Rum, Ikonion aveva vissuto un periodo di splendore che si era ripercosso sulle dimensioni di buona parte del palazzo. Quando i bizantini avevano occupato la città una sessantina d’anni prima, il nuovo governatore aveva scelto di mantenere intatto il complesso del palazzo e così quest’ultimo era giunto ai georgiani già adeguatamente predisposto per ospitare una corte degna di tal nome. La sala del trono era un ambiente molto vasto, illuminato da ampi bracieri presso le pareti e da altri due di dimensioni colossali sospesi a quattro metri dal suolo. Krikor percorse tutta la lunghezza del salone, arrivando infine ai piedi dello scranno reale. Qui, vestito in modo piuttosto banale, quasi povero, sedeva Guaram Bagration, da quindici anni mepe di Georgia. Aveva parecchi fili bianchi fra i capelli castani e il suo volto mostrava ormai i segni dell’età. Anche il suo corpo risentiva del suo stile di vita e si era notevolmente appesantito. Krikor salutò con un deferente inchino e tributò medesimo onore anche agli altri tre uomini presenti, il p’rintsi reggente Boghos Orbeli e i due giovani Bagration, Abirad e Vahram.

Aveva chiaramente interrotto una conversazione, tant’è vero che il mepe subito tornò a rivolgere la propria attenzione a Boghos Orbeli. “Stavate dicendo?”

“Dicevo, mio signore, che ormai è ufficiale, i Mongoli hanno smesso di compiere razzie in Ossezia e si sono ritirati a nord, verso Sarkel. Le continue disfatte di Tmutarakan li hanno resi più prudenti.”

“Sicuramente è una cosa positiva, ma non sguarnite assolutamente le fortezze caucasiche. Come hanno mutato parere adesso potrebbero rifarlo e tornare. E Maghas deve continuare a essere il nostro primo baluardo.”

“Con tutti i soldi che succhia all’erario reale, quel bastardo di un Artuqid deve ormai essere affogato nell’oro”, commentò con acidità Abirad. Krikor era parzialmente d’accordo, ma si guardò bene dal farlo presente: dopotutto Konstantine Artuqid era cugino del mepe.

“Quei soldi, fratello mio, vengono spesi affinché tu possa continuare a fare la bella vita”, replicò con un sorriso Vahram, attirandosi immediatamente un’occhiataccia da parte di Abirad.

“Ha parlato l’asceta!”

“Piantatela entrambi, e subito!”, ruggì Guaram Bagration. “Nessuno di noi è qui per sentirvi litigare su delle scemenze! Siamo qui perché dobbiamo analizzare delle questioni di una notevole rilevanza.” Si alzò e si diresse verso un tavolo sul quale era stesa una cartina.

“Meglio una fanciulla turca o una della Cilicia stanotte? Ecco cosa dovremo decidere”, mormorò irato Abirad. Suo fratello ridacchiò e anche Krikor non riuscì a trattenere un sorriso. Per fortuna parve che quella battuta non avesse raggiunto le orecchie del mepe. Boghos Orbeli, decisamente più serio e posato, si era già concentrato sulla carta e il suo sguardo si riempì di preoccupazione.

“Sono arrivati fino in Serbia?”, domandò.

Guaram Bagration annuì gravemente. “Pare che Ras sia ancora in mano ai romei, ma le ultime notizie danno le armate del rex latinorum padrone di mezza Rascia.”

“Brutto affare.”

“Orrido. E ora sentiamo che fareste voi. Abirad.”

“Una guerra fra bizantini e latini non è cosa che ci riguardi”, replicò il giovane nobile. “Non abbiamo motivi di ostilità né verso l’uno né verso l’altro. E poi sono decenni che si scannano senza che nessuno dei due riesca ad avere il sopravvento. Io dico di restarcene dove siamo, abbiamo tutto quello che ci serve e, visto che il Caucaso richiede tanti soldi, inutile sperperarne per qualcosa di decisamente superfluo.”

“So che mio nonno a quindici anni ideò il piano per la conquista del sultanato di Rum”, esordì Vahram. “Io pure ho quindici anni, ma non penso proprio di avere idee sì brillanti. L’unica cosa che posso dire è che se i latini ottengono la vittoria finale ci troveremo fra il martello e l’incudine. Siamo forti, ma lo saremo abbastanza?”

“Io sono un soldato, l’unica cosa che posso consigliare è di entrare in guerra”, fece Krikor fissando la carta. “Ma contro chi non saprei. Bisanzio è decisamente più debole, i latini controllano le terre più ricche e hanno buona parte del loro potenziale in Grecia e Tracia, con le lande d’Oriente abbastanza sguarnite. Non saprei.”

“E voi Boghos? Non avete pareri a riguardo?”

“Per come la vedo io, mio signore, il rex ha esagerato. Siamo sicuri che sia in grado di gestire un simile impero? Molto probabilmente le sue conquiste crolleranno su sé stesse in breve tempo, probabilmente è meglio attendere gli eventi.”

Guaram Bagration lasciò scorrere lo sguardo sui quattro. Krikor Abuletisdze vide in quegli occhi una luce strana, un qualcosa che lo indusse improvvisamente a pensare che, forse, i giudizi sulla debolezza e l’incompetenza del mepe erano affrettati. E le parole che questi pronunciò poco dopo rafforzarono quel pensiero.

“Quando abbiamo attaccato i turchi i latini occupavano una stretta striscia di terra a ridosso del mare e tutti dicevano che la morsa di Fitimidi e Zenghidi li avrebbe rapidamente scacciati. Oggi dominano l’Oriente come nessuno è stato capace di fare negli ultimi trecento anni. Partendo da una singola città – Konstantinoupolis, d’accordo, ma pur sempre una singola città – hanno costituito un dominio che ora si espande per tutta la Tracia, la Macedonia e la Bulgaria, attentando seriamente alla Rascia e alla Dubrodza. E poche ore fa mi è giunta voce che un esercito latino è entrato a Athenai. E voi consigliate di restare a guardare. Tu, Abirad, hai parlato senza minimamente riflettere. Oggi può non interessarci, ma domani? E voi, Boghos, come potete pensare che l’attesa ci gioverà? I latini non sono degli idioti, sono anni che le mie spie seminano scontento e discordia, ma ciononostante sono ancora lì.
Vahram, la tua visione del futuro è prudente, ti sei reso conto che essere stritolati è pericoloso. Ma oltre non sai ancora andare. E se è vero che nessuno pretende da te geniali piani, è altresì vero che alla tua età dovresti essere in grado di dare consigli più profondi.
In quanto a te, Krikor, tu suggerisci la guerra più perché vuoi finalmente combattere che perché hai capito come funziona; tant’è vero che non sai chi attaccare. Però su una cosa hai visto giusto: una guerra è imminente.” Guaram si chinò sulla carta e, presi alcuni segnaposto, li dispose in punti strategici. “Attaccheremo qui!”

Chandax, Levkosia, Monemvassia, Konstantinoupolis. Erano questi i quattro punti che il mepe aveva evidenziato. Dunque sarebbe stato uno scontro con Bisanzio. Praticamente un omicidio, ragionò Krikor.

“Ma non ha senso!”, sbottò Abirad. “Dici di voler limitare i latini e li aiuti?!?”

“A volte la tua stupidità mi nausea”, replicò Guaram. “Nessuno di voi riesce a capire perché bisogna attaccare i romei e non i latini?”

“Perché sono deboli”, mormorò infine Vahram. Lo disse in tono così basso che, se non fosse stato a due passi, Krikor non avrebbe sentito.

“Parla più forte oppure taci!”, intimò il mepe. Vahram ripeté quanto aveva detto con un’espressione a metà fra l’impaurito e l’irato. Era orgoglioso, ragionò Krikor, quanto lo ero io alla sua età. Non a caso era il cadetto di casa Bagration e non v’era che l’esercito nel suo futuro. Siamo simili insomma.

“Esatto, perché sono più deboli. Ora ascolta e impara, Abirad, quando sarai re dovrai riuscire a capire queste cose.” Abirad sbuffò vistosamente, ma si avvicinò e si concentrò sulla carta. “Quanto sta accadendo nei Balcani va inserito in un quadro più grande. Alcune voci riferiscono che i magnati d’Ungheria stanno premendo per approfittare a loro volta dell’evidente debolezza dei romei. Noi abbiamo a che fare coi Mongoli e il fatto che ora abbiano lasciato l’Ossezia mi pare più una momentanea tregua che una vera ritirata. In questa situazione impegnarci in una guerra lunga e dal futuro incerto non è nelle nostre possibilità. Ecco perché attaccare i latini è fuori questione, benché siano ovviamente l’avversario da combattere in questi frangenti. Bisanzio ormai pare irrimediabilmente avviata sulla via del tramonto e non è impossibile che un giorno il basileus si mangi l’orgoglio e decida di piegare il ginocchio davanti al rex come hanno già fatto il sultano d’Egitto e quello di Baghdad. Prima di questo giorno noi dobbiamo aver occupato alcune posizioni chiave, sia strategicamente che economicamente parlando.
L’isola di Krete è una crocevia commerciale di notevole importanza, il suo possesso ci permetterà di diventare referenti primari delle repubbliche italiane per ogni traffico, sia verso l’Egeo e il mar Nero che verso il Mediterraneo orientale.
L’isola di Kypros è viepiù importante, la sua posizione la rende una base strategicamente fondamentale per eventuali operazioni contro la Terra Santa. Oltre ovviamente al valore commerciale.
La fortezza di Monemvassia è più una sorta di tentativo che altro. Non ho una precisissima idea di come sfruttarla, ma ritengo che avere una testa di ponte in Grecia ci possa aprire opportunità future interessanti.
Per quanto riguarda Konstantinoupolis...mio padre la conquistò e la cedette perché allora non eravamo in grado di tenerla. Ora siamo in grado.”

Krikor Abuletisdze fissò la carta. Se una settimana prima qualcuno gli avesse detto che di lì a breve avrebbe provato rispetto per il proprio signore gli avrebbe riso in faccia. Ora non era più così sicuro che ridere fosse la reazione più adeguata. Quello era un piano saggio, si rese conto, un piano che avrebbe permesso al regno di ottenere parecchio con uno sforzo molto limitato, Certo, Krikor aveva la sensazione che di gloria militare in quella guerra ce ne sarebbe stata poca; ma erano anni che aveva capito che soldati e gloria non sempre andavano a braccetto.

“Chi attaccherà dove, mio signore?”, domandò.

“Voi attaccherete Krete. Vi darò due squadroni di eristavi e quattro battaglioni di menavlatoi: secondo le nostre spie le difese dell’isola sono abbastanza numerose, ma qualitativamente scarse. Penso che sarete in grado di assolvere il compito con facilità”, rispose il mepe. “Ah, e ovviamente avrete genieri d’assedio e servienti alle catapulte.”

“Noi andremo a Konstantinoupolis, vero?” I due principi guardarono il padre con un misto di speranza, sicurezza e paura.

“Nemmeno per idea. Tu, Abirad, avrai lo stesso esercito che darò a Krikor e farai vela per Kypros. In quanto a te, Vahram, tu hai solamente quindici anni e prima dovrai finire l’addestramento e guadagnarti l’accesso all’esercito. Non pensate che solo per il fatto di essere miei figli tutto vi sia dovuto su un piatto d’argento.”

“Ma padre….!”, protestarono in coro i due principi. Guaram li folgorò con lo sguardo e ulteriori proteste morirono sul nascere.

“I ma stanno a zero. Verrà il vostro momento, quando prenderete il vostro posto nella storia del nostro regno. Ma ora siete troppo inesperti. In questa guerra il guadagno è inscindibilmente legato al successo delle singole operazioni. Konstantinoupolis si è appena ribellata ai latini e i suoi abitanti la difenderanno a costo della vita. Ma per quanto credete potranno farlo se il rex latinorum invierà le sue truppe a farli a pezzi? Abbiamo poco tempo e un’occasione sola. Per cui voi farete ciò che ho detto e io me la vedrò con Konstantinoupolis. In quanto a voi, Boghos, tornate a Trapezous e riprendete la gestione dell’area caucasica. Krikor, voi aspettate un attimo.”

I due principi mugugnarono un saluto ben poco deferente e se ne andarono. Boghos Orbeli fu invece più cerimonioso e salutò il mepe come si conveniva, prima di recarsi a fare i preparativi per il suo ritorno alla capitale. Quando gli aznauri di guardia ebbero richiuso le porte Krikor Abuletisdze rimase solo col mepe.

“Ho due figli fin troppo ansiosi di crescere, e per di più perfettamente consapevoli di essere il futuro di questo regno. Abirad, soprattutto, è orgoglioso e impaziente. Ecco perché ho preferito non spargere altro sale sulla ferita e non assegnarvi davanti a loro anche il comando dell’armata che attaccherà Monemvassia. Da quanto sappiamo le difese sono praticamente nulle qui; tuttavia per questo obbiettivo avrete un’armata completa: kontophoroi, skoutatoi e trapezountoi, più catapulte e una compagnia di metsikhovne mshvildosani.”

“Per la difesa seguente?”, domandò Krikor.

“Esattamente. Non ho idea di come il rex prenderà questa nostra mossa: potrebbe vederla come un aiuto fra alleati, come mi auguro; oppure potrebbe mangiare la foglia e rendersi conto che il vero scopo è impedirgli di diventare troppo potente. In questo secondo caso chi può dire come reagirà? Meglio essere pronti.”

Krikor salutò e si avviò verso le scuderie, per recuperare il proprio destriero e mettersi in marcia per Smyrna, da dove sarebbe salpato per Krete. La Georgia andava nuovamente in guerra e finalmente anch’egli avrebbe avuto modo di fare la propria parte.
28/06/2012 16:24
 
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L'attesa è stata lunga, spero che questo capitolo la ripaghi [SM=g27960]



Anno 1242, Konstantinoupolis

Probabilmente suo padre lo aveva sempre guardato con una certa disapprovazione dal Paradiso dove si trovava, ma Guaram Bagration, mepe di Georgia, aveva seguito il suo consiglio e non si confrontava più con la sua ombra. Era signore incontrastato da diciassette anni e, per quanto fosse conscio che c’erano frange della nobiltà che lo consideravano debole, nulla aveva mai minacciato il suo potere.
Ma ora tutto gli pareva diverso, ora più che mai avvertiva che quel confronto era stato unicamente rimandato, non evitato.

Il giorno dopo doveva guidare le sue truppe all’attacco degli imponenti bastioni di Konstantinoupolis. Chi non avrebbe fatto il confronto con l’impresa compiuta da suo padre? Nessuno, lo sapeva. Soprattutto perché era lui il primo a farlo. E già partiva in posizione svantaggiata. I Romei sapevano che stava arrivando, avevano avuto tempo per prepararsi e la città brulicava di armati. C’erano cavalieri provenienti da tutta la Tracia, milizie reclutate nella città, cavalieri mercenari latini, mercenari provenienti dalle lande serbe; un gran marasma, certo, e mal comandato – ma pur sempre un esercito.
Inoltre il grande Oshin aveva preso la città con pochi cavalieri, mentre Guaram aveva al suo comando due squadroni di eristavi, quattro di egriseli, due battaglioni di trapeziountoi, due battaglioni di lancieri metsikhovne, un parco d’assedio e tre reggimenti della guardia reale, gli aznauri. Più i suoi oikeioi. Vincendo avrebbe ovviamente potuto fregiarsi del titolo di Conquistatore di Konstantinoupolis, ma solo ottenendo un trionfo avrebbe potuto evitare di essere surclassato dal fantasma di suo padre.

Fin’ora la guerra era andata in maniera perfetta: Abirad era sbarcato a Kypros senza che nessuno sospettasse nulla e la capitale dell’isola, Levkosia, si era arresa praticamente senza combattere; e anche Monemvassia era stata una pura formalità, con pochi arcieri romei che avevano vanamente cercato di difendersi da un intero esercito georgiano, finendo per essere massacrati. Krete, di contro, si era rivelata un po’ più ostica: la presenza non prevista di un governatore e dei suoi oikeoi aveva costretto Krikor a ritardare l’attacco e a occuparsi in campo aperto delle molte milizie sparse per l’isola, compito non agevolato dall’avere solamente due corpi di cavalleria. Ma il nobile Abuletisdze si era dimostrato all’altezza e alla fine anche Krete era caduta.

In mano ai romei restava davvero poco, gli informatori riferivano che il basileus aveva ancora controllo sulla costa occidentale della penisola greca – castello di Naupaktos e città di Dyrrachion – nonché sulla rocca di Ras; e pareva che anche Konstanta fosse sua. Ma era certo che Arges, Asperon, Iaski Torg e Kiev fossero cadute in mano magiara.

I latini, presi un po’ alla sprovvista da quelle mosse, erano trincerati fra Sofia e Thessalonike, con scontri continui attorno ad Adrianoupolis; però si sapeva che stavano concentrando forze ad Athenai, probabilmente per un attacco a Naupaktos. Ecco perché Vahram Bagration, ormai promosso a comandante, stava veleggiando verso Monemvassia, per assumere il comando dell’esercito e chiudere quella possibilità ai latini.
Erano comunque tutti aspetti su cui Guaram avrebbe potuto concentrarsi solamente dopo aver risolto il nodo di Konstantinoupolis. Ed era una cosa che, nel profondo, temeva.



Il sole sorse fin troppo presto per i gusti del mepe, ma non poteva ritardare l’inevitabile. Aiutato dal proprio attendente indossò l’armatura, cinse la spada e uscì dalla tenda. L’accampamento ferveva di attività, ogni uomo andava a occupare la propria posizione mentre i sottufficiali berciavano ordini. In diverse zone, i pope stavano celebrando la messa. Cosa che probabilmente avveniva in tutte le chiese di Konstantinoupolis, ragionò Guaram.
Montò in sella e si diresse verso una delle linee di catapulte, quella più settentrionale. Da lì, oltre le mura, si scorgevano le guglie del palazzo di Blachernae, che sorgeva imponente accanto all’omonima porta. Chissà in che condizioni era, si domandò il mepe. Suo padre lo aveva descritto come qualcosa di veramente ragguardevole, per quanto l’avesse visto solo per poco. Ma da allora erano passati cinquant’anni, quasi tutti di dominazione latina. L’avrebbe comunque scoperto presto, dato che avrebbe personalmente guidato l’attacco alla porta di Blachernae.
Scambiò due frasi col capo della batteria di catapulte, quindi voltò il cavallo e si diresse verso la porta di Rhegion, anch’essa fronteggiata da catapulte. Qui lo aspettavano i comandanti dei vari reparti.



“E’ tutto pronto?”, domandò il mepe scrutando i torrioni della porta in lontananza.

“Mancano solamente i vostri ordini finali, maestà.”

“Vi sbagliate, manca solamente la conferma che a Melantias tutto sia andato come deve.”

“I nostri agenti riusciranno, maestà, sono abili ed esperti.”

Guaram borbottò qualcosa d’assenso e si guardò attorno. Lì, alla porta di Rhegion, sarebbe stato sferrato l’attacco decisivo, da lì gli aznauri sarebbero entrati in città. Ma bisognava prima far sì che il nemico distogliesse la propria attenzione quel tanto che bastava a rendere la presa della porta un’impresa non esageratamente costosa in termini umani. Ecco perché sarebbero stati prima lanciati una serie di attacchi diversivi, tutti portati da truppe a cavallo per una maggiore mobilità. Gli eristavi avrebbero attaccato la porta di Melantias, gli egriseli avrebbero sfondato la porta d’Oro e a Blachernae ci avrebbe pensato lui. Ma solo se gli agenti georgiani fossero riusciti nella loro impresa.

Il tempo scorreva lento, gli animi si innervosivano in quell’assenza di azione e perfino il cielo, fino a poco prima illuminato dal sole, ora si era decisamente ingrigito, con grosse nuvole temporalesche che avanzavano da oriente. Lo sguardo di Guaram saettava ogni pochi istanti verso Melantias, davanti alla quale gli eristavi erano in attesa. Era da lì che tutto doveva partire, senza avrebbe dovuto rivedere tutta la sua strategia. Ed era una cosa che preferiva non dover fare, si sentiva la testa vuota e priva di idee alternative.

La nota del corno spezzò il silenzio opprimente con la potenza di un tuono. Poi gli eristavi partirono al galoppo verso la città. La battaglia per Konstantinoupolis era cominciata.



Guaram Bagration irruppe dalla porta di Blachernae spalancata, diversi metri davanti a tutti i suoi oikeioi. E immediatamente da ogni parte sbucarono soldati smaniosi di farlo fuori e di ricacciare l’attacco. Il mepe calò la pesante lama d’acciaio sulla testa del più ardimentoso e vicino, fracassandogliela; quindi guidò il destriero a furia di ginocchia, cercando di tenersi lontano il più possibile dalle lance dei fanti avversari. Mercenari slavi, a giudicare dalle fisionomie e dall’armamento. Truppe di basso livello, lo sapeva; ma anche loro potevano riuscire a uccidere un re. Ne mandò all’altro mondo un secondo e un terzo, deviando al contempo un colpo di lancia con il bracciale dell’armatura. Poi gli oikeioi eruppero dalla porta e lo scontro si trasformò in un macello, con gli slavi che venivano abbattuti con irrisoria facilità. In meno di un quarto d’ora la porta di Blachernae era loro.



“Sorvegliate le strade”, comandò il mepe spronando il cavallo verso il palazzo. Era un complesso poderoso e imponente, anche se a prima vista non pareva proprio che fosse quello il luogo dal quale gli imperatori di Bisanzio avevano governato negli ultimi cento anni. Pareva più una fortezza che una dimora reale.

Ma una volta entrato Guaram si rese conto che quel luogo aveva una doppia natura, militare all’esterno, di rappresentanza all’interno. Quei pochi ambienti che vide erano splendidi e testimoniavano che i latini non avevano compiuto scempi. Ma non aveva tempo per soffermarsi sulle bellezze architettoniche, la battaglia era solo all’inizio ed egli doveva scoprire come andava. Salì sulla parte più alta del complesso e scrutò la situazione.

La porta di Rhegion fu il luogo ove ovviamente volò il suo sguardo. Tutta la sua strategia era imperniata attorno a ciò che era successo, che succedeva e che sarebbe successo lì. Nonostante la distanza, vide che nell’area si combatteva aspramente.
Tuttavia pareva che gli aznauri, spalleggiati dai metsikhovne, fossero riusciti a impadronirsi del piazzale antistante la porta. Cosa che ai bizantini non andava giù: infatti stavano cercando di ricacciare indietro gli avversari con tutto quello che avevano.



Poi un globo di fuoco solcò il cielo passando offuscando con la sua scia la visuale della grande cisterna di Mocio. Le catapulte erano entrate in azione e questo avrebbe indotto i romei a più miti consigli, si disse con un sorriso Guaram.





“Mio signore!” L’uomo accanto a lui, uno dei suoi più fidi luogotenenti, attirò il suo sguardo dalla parte opposta, verso la porta di Santa Teodosia. “Là!”

“Cavalleria nemica”, mormorò il mepe dopo alcuni istanti di studio. “Torniamo giù e andiamo ad accoglierli. Intanto mandate un messo al comandante degli eristavi, che si sposti rapidamente alla porta di San Romano e da lì avanzi verso il centro cittadino. Ma che non superi la Colonna di Nicea o si ritroverebbe tagliato fuori dalla nostra linea di avanzata.”



La cavalleria nemica si rivelò essere un corpo di mercenari europei, di quelli che i bizantini chiamavano genericamente “franchi”. Erano mediamente meglio protetti e armati dei prokursatores romei, ma non faceva alcuna differenza: Guaram abbassò la spada e gli oikeioi si scagliarono all’attacco, irrompendo fra le fila nemica come le onde furiose sugli scogli. Accompagnato dal proprio vessillifero, il mepe si fece strada a colpi di spada, abbattendo in rapida sequenza tre avversari. La situazione dei franchi stava rapidamente volgendo al brutto e la porta di Santa Teodosia – il luogo che essi difendevano – era sempre più vicina.

Ma a quel punto un’orda di prokursatores apparve dalle vie laterali, buttandosi nella mischia e roteando le proprie spade ricurve.
E la situazione cominciò a girare contro gli oikeioi.



Guaram si trovò costretto a far indietreggiare il proprio destriero, combattendo per ogni singolo braccio di terreno. Ognuno dei suoi uomini stava combattendo contro tre o quattro avversari e, per quanto meglio equipaggiati e più esperti, l’inferiorità numerica cominciava a farsi sentire. Un oikeios venne trafitto proprio davanti a lui e il sangue schizzò fino a imbrattare il mantello del mepe. Guaram attaccò il romeo e lo passò da parte a parte; ma ormai le speranze di prendere la porta erano decisamente poche e, anzi, cominciava a rendersi conto che era tempo di ritirarsi verso Blachernae, dove avrebbe potuto far convergere gli eristavi in supporto.

Stava per impartire l’ordine quando un grido si diffuse nelle file nemiche, un grido che indusse Guaram a trattenersi.

“Il Myraleion è caduto, il Myraleion è caduto!”



Poteva significare solo che l’attacco principale stava avendo pieno successo e che gli aznauri avevano vinto la prima resistenza e spinto indietro i nemici fino a quel punto. E questo implicava che i prokursatores avrebbe potuto essere colti alle spalle. Evidentemente se ne resero conto anche i nemici, giacché alcuni corni ordinarono la ritirata e la massa della cavalleria bizantina disparve nelle vie.

“Andiamo, miei prodi”, comandò il mepe. “Raggiungiamo i nostri commilitoni.”





Quando raggiunse il Myraleion, Guaram Bagration trovò i due battaglioni di metsikhovne a presidiare la zona. Il loro comandante gli riferì che gli aznauri stavano ulteriormente spingendo avanti il fronte e che ormai dovevano essere dalle parti del foro di Costantino. Anche i trapeziountoi erano con loro, così come le catapulte. I dintorni del palazzo mostravano come la sua conquista non fosse stata una cosa di poco conto e come i bizantini si fossero battuti con coraggio e ferocia prima di cedere. Non erano pochi i cadaveri di aznauri che giacevano al suolo, per quanto il grosso dei caduti fossero prokursatores o lancieri armati all’europea, mercenari con ogni probabilità.

“E la cavalleria?”

“Dalle ultime gli egriseli costeggiano le mura e si stanno spingendo verso la chiesa dei santi Sergio e Bacco”, rispose l’ufficiale. “Gli eristavi invece non so di preciso, forse alla colonna di Nicea.”
“Perfetto. Mandate un messo e ordinate loro si spingersi fino alla porta degli Ebrei e di assicurarne il controllo. Noi andremo a raggiungere gli egriseli.”



Raggiunsero gli egriseli poco dopo aver passato Kariyaki e li trovarono intenti a scagliare centinaia di frecce contro truppe bizantine, visibili lungo uno dei lati del gigantesco ippodromo della città. Guaram si spinse avanti e scrutò la situazione. Ormai era questione di tempo, i difensori erano rimasti in pochi e si erano asserragliati nell’area antistante la Magnaura e Hagia Sophia. Sarebbero state quelle costruzioni, monumenti alla grandezza della città e dell’Impero che essa aveva rappresentato per secoli, a essere silenziose testimoni dell’ultimo atto.



Bastò una singola carica dei suoi pur decimati oikeioi perché i prokursatores romei si ritirassero ulteriormente verso la piazza, abbandonando la pozione alle spalle dei bagni di Zeusippo.

Guaram trattenne i suoi uomini. Aveva una chiara visione d’insieme sulla piazza e vedeva bene la lunga linea degli aznauri in posizione di minacciosa difesa, pronti a un altro scontro. Chiamò a sé il vessillifero.



“Andate a offrire a quei valorosi la resa”, gli disse. “Ma fate loro presente che non ripeterò l’offerta, se la rifiutano hanno davanti ai loro occhi quel che sarà il loro destino.”

L’uomo spronò il destriero e si spinse verso i nemici. Un uomo, dal portamento il comandante, si fece avanti. I due parlarono brevemente, poi il romeo sputò per terra e tornò dai suoi. Guaram non ebbe bisogno di chiedere per conoscere la risposta. Alzò il braccio armato verso i comandanti degli aznauri e poi lo abbassò bruscamente.
Gli aznauri caricarono e Guaram seppe che, finalmente, aveva dimostrato di essere il degno figlio di suo padre.
Konstantinoupolis era caduta.

09/07/2012 18:03
 
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bella cronaca.potresti però mettere i tuoi attuali insediamenti che hai conquistato?tipo la mappa che avevi messo in un post precedente in cui constantinopoli era in mano a gerusalemme?
[Modificato da Max.92 09/07/2012 18:04]

;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;;

siete stato pesato..siete stato misurato...siete stato trovato mancante.

Conte Adhemar di Anjou

[Il Destino di un Cavaliere]




10/07/2012 17:41
 
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Anno 1243, Naupaktos

Vahram Bagration era arrivato in Grecia da meno di un anno è già la odiava profondamente. La conquista del Peloponneso era stata completata anche prima del suo arrivo a Monemvassia, ma ovunque il giovane principe cadetto sentiva che gli abitanti li tolleravano semplicemente perché non avevano altre possibilità. Più volte Vahram si era chiesto se quella gente pensasse mai a chiedere l’appoggio dei latini, che dominavano la vicina Athenai; per quanto di rivolte non vi fosse neppure l’ombra, la cosa non era da escludersi. Tanto più che il rex latinorum difficilmente aveva ben accolto la mossa georgiana.

Ma come se l’essere l’oggetto costante di occhiate astiose non fosse sufficiente, Vahram odiava il clima della Grecia. Chi ci abitava da sempre diceva che era una sorta di segno divino, che da secoli non vi era stato un inverno più atroce e una primavera più bagnata. Se il Creatore ce l’avesse coi Georgiani Vahram non lo sapeva; ma cominciava a credere che qualche diavolo si divertisse a innaffiarlo ogni volta che poteva.

Pioveva. Sempre. E se non pioveva era solo perché faceva talmente freddo da congelare la pioggia e far nevicare. E immancabilmente pioveva anche quel pomeriggio, facendo risuonare l’intera armata come un’orchestra, le gocce di pioggia che tintinnavano su scudi, armi e armature, ruscellando poi sulle lisce superfici di metallo fino a terra.

Vahram, che guidava l’avanguardia, aveva il mantello talmente zuppo che gli pareva di avere un’incudine appesa al collo, non della stoffa. La visuale era costantemente offuscata dal velo della pioggia, che si andava a unire alla foschia rendendo il panorama invisibile. Fortuna che questo valeva anche per ogni possibile avversario, perché altrimenti sarebbero caduti in una potenziale imboscata senza nemmeno rendersene conto.

Poi, finalmente, le mura di Naupaktos emersero spettrali dalla nebbia.



Era una fortezza che manteneva le vestigia di un glorioso passato e che esemplificava fin troppo bene le condizioni in cui versava chi la possedeva. Rispetto alle altre fortezze dominanti dell’area – Sofia a settentrione, Monemvassia a sud – Naupaktos era piccola e arretrata, con una sola cinta di mura, per quanto spessa. Le sue torri erano tozze e strette, ancora appartenenti a un’epoca in cui la guerra d’assedio non era così sviluppata. I vessilli romei pendevano dai loro pennoni, l’aquila dorata bifronte appena visibile su un drappo che da rosso pareva diventato nero a causa della pioggia. Sembra quasi che già sappiano e si siano preparati a lutto, pensò Vahram.

“Capitano!”

“Comandate.”

“Fra quanto le catapulte potranno iniziare a colpire quei bastioni?”

L’uomo corrugò la fronte, mentre compiva dei veloci calcoli mentali. “Non prima di quattro ore, signore”, rispose infine.

“Ve ne concedo tre”, replicò Vahram prima di allontanarsi.



Ci misero tre ora e dieci minuti, ma alla fine le catapulte dell’armata iniziarono a scagliare una pietra dopo l’altra contro le mura di Naupaktos.



Dei difensori nemmeno l’ombra, nessuna testa che aveva fatto capolino, nessun uomo che aveva lanciato grida d’allarme. Ma che ci fossero era certo. Man mano che i bastioni venivano dilaniati Vahram faceva avanzare i propri fanti, quattro battaglioni di skoutatoi deputati al primo assalto. Il cielo era sempre più plumbeo e pioveva a dirotto, limitando la visuale e appesantendo gli abiti, sempre che fosse possibile vista la quantità d’acqua che avevano già assorbito nei giorni precedenti.

In sella al proprio destriero Vahram Bagration osservava e attendeva, trattenendo l’impazienza giovanile e, soprattutto, il desiderio di trovare un riparo da quella fastidiosissima acqua. Boom, boom, boom: incessante e monotono, il suono delle pietre contro le mura era una cantilena continua, un suono snervante solo saltuariamente rotto da qualche scricchiolio più sinistro. Ma quando il bastione infine cedette lo fece di schianto: crollò su sé stesso con un rombo assordante, sollevando una nuvola di polvere e frammenti che oscurò ogni cosa.

Vahram ordinò immediatamente l’avanzata e gli skoutatoi si sollevarono finalmente dall’erba bagnata e cominciarono a salire il piccolo declivio che conduceva al luogo dove un tempo c’era il bastione e ora si apriva una voragine. Questa nuvola di polvere ci occulterà al nemico, dandoci modo di arrivare alla breccia indenni, pensò Vahram mentre spingeva avanti il cavallo. Era la sua prima battaglia e era posseduto da una sensazione strana, un misto di esaltazione e paura totale.



Le truppe georgiane arrivarono alla breccia senza effettivamente vedere nessun avversario; ma una volta dentro Vahram si rese conto che le cose stavano per cambiare rapidamente e che doveva agire in fretta. Fortunatamente aveva anni di addestramento alle spalle e il sangue freddo ebbe la meglio sulla paura. Berciò ordini ai capitani degli skoutatoi, quindi voltò il cavallo e comandò ai propri oikeioi di seguirlo. Perché se da una parte stavano avanzando gruppi di arcieri romei, dall’altra c’erano i temibili variaghi, soldati che avrebbero fatto polpette della fanteria georgiana. Ma, si augurava Vahram, non di lui e dei suoi oikeioi.


Ripensando allo scontro nella calda quiete di un letto, il primo che vedeva da settimane, Vahram non poté fare a meno di pensare che veramente tutto aveva congiurato contro Bisanzio negli ultimi tempi; e anche il suo scontro coi variaghi era stato indelebilmente segnato dall’evidente sfortuna che ammantava come una malattia i soldati del basileus. Perché l’impatto era avvenuto in un’area dove la strada andava a formare una sorta di piazza; e questo aveva permesso agli oikeioi di improvvisare una sorta di carica. Nulla a che vedere con una vera carica di cavalleria, coi corni ululanti e i vessilli che garrivano al vento; ma sufficiente per travolgere parte dei nemici e massacrarli sotto gli zoccoli dei destrieri da guerra. Ormai dimezzati, i variaghi avevano combattuto con coraggio e determinazione, ma senza speranze.



Erano morti fino all’ultimo uomo per difendere le terre del loro imperatore, una prova di fedeltà come raramente ne aveva viste Bisanzio negli ultimi tempi. Ma era stata comunque inutile, per quanto onorevole.

Il resto era stato poco più che una stupidaggine, con gli arcieri che avevano resistito si e no dieci minuti contro gli skoutatoi prima di darsi alla fuga e i pochi nemici rimasti che si erano asserragliati davanti alle caserme, dove erano stati trasformati in puntaspilli dagli arcieri georgiani.





Non era una gran gloria, ragionò Vahram, proprio non lo era. Di tutta quella guerra a lui era toccata la parte più brutta: suo padre era il conquistatore di Konstantinoupolis e aveva pareggiato il grande Oshin; suo fratello aveva preso una provincia ricca e potente e, probabilmente, in quel momento di stava sollazzando con qualche fanciulla disponibile; perfino Krikor Abuletsidze, notoriamente una testa calda dalla fedeltà dubbia, aveva avuto il suo momento di gloria a Chandax, sconfiggendo orde di romei (miliziani invero) con solo due squadroni di eristavi. E lui? Lui era stato mandato a uccidere un uomo morto. Sentiva distintamente una parte di sé che gli gridava di ribellarsi, di fare di tutto per ottenere quella gloria che, in quanto appartenente al casato dei Bagration, avrebbe dovuto spettargli di diritto; ma non si lasciò sopraffare.

“Aspetterò”, mormorò nell’oscurità. “Aspetterò fino a quando non verrà il mio momento. Perché verrà, lo so.”

Come richiesto ecco qua la situazione geopolitica all'anno 1243, ossia subito dopo questo capitolo. Non è che mi sia espanso tanto ad essere onesto, né l'ho fatto negli anni successivi. Ma al di là della guerra mongola, che sta per entrare in una fase caldissima, c'è da sottolineare come io sia alleato con praticamente tutti i miei vicini e, quindi, la mia libertà d'espansione non sia così tanta.

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