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I mari della Serenissima

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    ~ Cerbero ~
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    BC 6.3, campagna Feudal full Storica (D/D)



    I MARI DELLA SERENISSIMA



    [IMG]http://i50.tinypic.com/11tsnlc.gif[/IMG]


    PAX TIBI MARCE

    EVANGELISTA MEVS




    “Chi stira di notte il cielo che di giorno viene steso tra le vie di Venezia?”
















    Prologo
    Pax tibi Marce evangelista meus...




    Venezia, 21 settembre 1157.

    [IMG]http://i46.tinypic.com/15g2e03.jpg[/IMG]

    Le acque della laguna erano placide quella mattina. Un'alba cremisi, stagliata in un cielo limpido, le colorava di porpora ed intarsiava gli edifici della città di riflessi scarlatti. Un nuovo giorno stava sorgendo sul più industrioso porto del Mediterraneo.

    Domenico Morosini-Michiel, Doge della Repubblica, osservava attento il lento sciabordio dei flutti, mentre nell'aria cominciava a levarsi la cacofonia dei veneziani, che s'animavano e prendevano a condurre le proprie attività giornaliere per tutta la città. Si strinse nel proprio mantello, riparandosi dalla fredda brezza umida proveniente dalla laguna. I capelli grigi mossi dal vento e le mani appoggiate alla balaustra di legno del balcone del palazzo ducale, vecchio ormai più di un secolo. Era stato costruito a spese della città, quando Venezia s'era definitivamente svincolata dall'autorità dell'Imperatore bizantino, a celebrazione dell'evento.

    In quella fredda mattina ognuno dei suoi 57 anni si faceva sentire, e tuttavia dalla sua figura non emanava stanchezza, bensì serena soddisfazione. La Repubblica aveva cominciato ad intraprendere la strada della prosperità. E se egli era ancora là, nel palazzo ducale, con addosso i paramenti della massima magistratura di Venezia, poteva a buon diritto trarne motivo d'orgoglio: sarebbe morto stretto al suo titolo, nella pace che la solidità della sua posizione e del suo prestigio gli offrivano. Nel più recente passato della città, infatti, era stata cosa comune che i Dogi fossero costretti a decadere dalla loro carica – vuoi per malgoverno, vuoi per le lotte intestine tra le grandi famiglie aristocratiche veneziane – ben prima della loro dipartita naturale, se non addirittura che fossero uccisi dai loro stessi concittadini.

    Non solo, poteva anche riposare sull'ormai sicura consapevolezza che il suo congiunto, il Consigliere Vitale, gli sarebbe succeduto alla guida della Repubblica.

    Domenico Morosini, durante il suo lungo dogato, aveva offerto ai suoi cittadini pace e sicurezza, nonché le ricchezze di un commercio marittimo giorno dopo giorno più florido. E come apice del suo buon governo, aveva condotto una riuscita spedizione contro la Dalmazia e la fiorente città marinara di Ragusa, le quali erano state infine sottomesse, dopo modeste operazioni militari, al controllo di Venezia. La bilancia del potere, nel Mar Adriatico, era passata a pendere definitivamente a favore della Repubblica veneziana.

    "Coltivar el mar e lassar star la tera" diceva saggiamente l'antico adagio. E così egli aveva fatto. La Venezia, l'Istria, la Zeta e la Dalmazia: su tutte queste terre costiere a vocazione marinara si estendevano la legge della Repubblica e l'autorità del Doge.

    L'ultimo rilevante atto politico del suo dogato sarebbe stato quello di offrire alla città solide basi future da cui continuare nella strada della grandezza, strada che altri però, forse il suo parente, forse qualcun altro, avrebbe guidato la Repubblica a percorrere. Il Consigliere Vitale, proprio in quel momento, era già in viaggio sulle galeotte veneziane per portare a termine l'ultimo compito affidatogli dal nobile parente.

    Chissà dov'era la flotta in quel momento, si chiese il Doge scrutando il mare, i cui riflessi di luce si facevano via via più luminosi man mano che il sole saliva nel cielo. All'altezza di Durazzo? O già era in vista delle coste del Peloponneso? Solo il tempo gli avrebbe dato risposta sull'esito di quella missione, ma il placido volo dei gabbiani, che spensierati si libravano sulle acque, gli dava fiducia nel futuro. E il ritmico e sommesso rumore dello sciabordio del mare, così simile ad un respiro, così simile al respiro dei suoi stessi polmoni, faceva sorgere in lui uno strano senso di familiarità e di pace.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 22/10/2013 22:52]




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    ~ Cerbero ~
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    00 10/03/2013 15:49
    Capitolo I
    Un manoscritto bizantino




    Malvasia, 10 ottobre 1157.

    [IMG]http://i46.tinypic.com/2v2z8xs.jpg[/IMG]

    Le trattative con l'Imperatore ed i suoi cortigiani erano state estenuanti. Ed al contrario di come aveva fatto il Basileus Manuele I Comneno, il Consigliere Vitale II Morosini-Michiel non aveva potuto affidare tutte le negoziazioni meno importanti e più tediose ai suoi burocrati, ma aveva dovuto seguire l'intero processo diplomatico di persona, per assicurarsi che tutto si svolgesse come auspicava il Doge. E come auspicava d'altronde anche il Consiglio, l'ormai secolare Consilium Sapientes, con cui il Doge doveva condividere i massimi poteri della Repubblica.

    Non che non se l'aspettasse: i bizantini erano rinomati per la complessità della loro arte diplomatica. Ciò nonostante, aveva sperato che l'antico legame di amicizia ed i nuovi successi di Venezia (specie contro i pirati dell'Illiria, che costituivano una minaccia non solo per i traffici della Repubblica, ma anche per gli interessi della stessa Basileia) avrebbero disteso il clima e reso più facili le varie fasi della negoziazione. Invece aveva riscontrato la solita superba diffidenza da parte dei romei, venata inoltre da una nuova nota di rivalità e, forse, di risentimento. L'Impero, evidentemente, non aveva ancora del tutto digerito il nuovo ruolo di Venezia quale potenza marinara indipendente e prospera e quale potenziale rivale per il controllo delle terre balcaniche. Inoltre i romei si rendevano conto che la penetrazione commerciale veneziana aveva raggiunto livelli altissimi e che ai mercanti della Repubblica era stato concesso fin troppo, fin troppo essi erano riusciti ad ottenere per sé, e difficilmente ora Bisanzio poteva sperare di recuperare le prerogative commerciali cedute. Ma forse, più di tutto, i bizantini erano infastiditi dal fatto che la Repubblica poteva vantare un prestigio di fondamento storico capace forse di aspirare a rivaleggiare con il loro. Non era forse seppellito a Venezia il primo degli evangelisti di Cristo? Colui che guidato dallo Spirito Santo aveva vergato, in terra, per gli uomini, il celeste Verbo di Dio?

    Ma i bizantini, quale che potesse essere la loro disposizione d'animo verso quella che era diventata una vecchia amica fin troppo ingombrante, restavano per loro stessa natura assuefatti alla raffinatezza ed alla complessità retorica della loro arte politica e diplomatica, ed intraprendere una negoziazione con loro, che si fosse amici od avversari, era sempre cosa faticosa; condurne una a buon fine, poi, era un cosa assai ardua. Non era infatti un caso che Costantinopoli fosse sopravvissuta alla caduta di Roma sino a quel giorno. Quello bizantino era un Impero in decadenza, i segni di cedimento si mostravano qua e là in tutti i suoi sconfinati territori, ma restava pur sempre una compagine vasta e potente, la cui forza risiedeva nell'aver custodito l'antica eredità romana e con la quale bisognava sempre approcciarsi con cautela e rispetto.

    Quella primavera il Basileus s'era recato in visita nelle province greche e la Corte aveva preso momentaneamente dimora nel castello peloponnesiaco di Malvasia. Appresa la notizia di questo spostamento, il Doge aveva approfittato dell'occasione – la Corte bizantina, nella sua fastosa tana a Costantinopoli, infatti, poteva risultare assai più intimidente e scostante – ed aveva organizzato immediatamente quella spedizione diplomatica guidata dal suo congiunto il Consigliere, tra i tanti aristocratici veneziani quello, forse, più avvezzo agli usi romei. E Vitale non aveva deluso le aspettative, riuscendo a strappare all'Imperatore, dopo giorni e giorni di riti diplomatici e negoziati, un trattato che non solo rinnovava l'alleanza militare e commerciale tra Venezia e Bisanzio – ciò che più premeva al Consiglio –, ma che concedeva, inoltre, ai mercanti veneziani il monopolio dello sfruttamento dei preziosi traffici di seta e tappeti della Tessalonica, dell'Opsikion e dell'Optimaton – ciò che più importava invece alle ricche famiglie mercantili e patrizie.

    La partenza della galeotte e di Vitale, che sarebbe ritornato a Venezia per portare le buone notizie al Doge, era prevista per l'indomani. Quel giorno, dunque, conclusi gli affari politici, Vitale s'era potuto concedere una visita di cortesia presso un ricco ed importante mercante bizantino, suo ospite e amico di lunga data, la cui accogliente villa sorgeva su una dolce altura a poche ore di cammino dalle mura del castello di Malvasia. Se la diplomazia e la politica dei bizantini erano sofisticate e raffinate, lo stesso poteva dirsi della loro ospitalità, e per tutta la giornata il Consigliere s'era goduto l'affabilità, l'opulenza e le cortesi maniere del suo ospite. Cose, queste, che stavano prendendo piede, con i naturali accorgimenti di una cultura che rimaneva italica e cattolica, anche nei costumi veneziani, assai influenzati dai modi orientali.

    Scesa la sera, poco prima di rimontare in sella e tornare con la sua guardia al porto, Vitale era seduto nella bella stanza che il suo amico aveva adibito a studio e biblioteca, discorrendo con lui di storia e delle ultime novità politiche, nonché dei succulenti pettegolezzi che la Corte bizantina non smetteva mai di produrre. Aveva sempre avuto modo di apprezzare la grande cultura di cui erano custodi i bizantini, assaggi della quale gli erano spesso e volentieri stati dati proprio dal suo ricco – ed assai più giovane – amico mercante, che parlava correntemente, per le ragioni della propria attività, il veneziano. La lingua greca infatti, come per Vitale così anche per la maggior parte dei veneziani, s'era sempre rivelata un ostacolo di non poco conto.

    Quella sera egli era però rimasto particolarmente colpito: il suo amico gli aveva raccontato la storia di una potenza di tanti secoli addietro, che aveva fatto del mare la propria vocazione, della cultura il proprio vanto, e che, all'apice della suo potere, aveva tentato un'impresa militare grandiosa. Un presentimento s'era insinuato in lui all'udire quegli eventi del passato ed egli non aveva fatto mistero al suo ospite di quanto quel racconto l'avesse colpito.

    Al momento del congedo, Alessio – questo il nome del suo ricco amico bizantino – gli porse il manoscritto, rilegato in pelle scarlatta, dal quale aveva tratto la storia che gli aveva raccontato.

    «Ecco, prendi» disse. «Un modesto dono per ricordarti negli anni a venire di questa piacevole visita e dei tuoi successi diplomatici presso il Basileus, amico mio».

    Vitale ringraziò calorosamente l'amico Alessio, conscio del valore che, in un mondo in cui i libri erano cosa molto rara, quella copia manoscritta potesse avere, e, congedatosi, cavalcò alla volta delle sue navi, stringendo addosso quel piccolo tesoro letterario. Egli ancora non lo sapeva, sebbene lo presagisse vagamente in cuor suo, ma quel manoscritto avrebbe avuto un ruolo affatto trascurabile nel futuro della Repubblica di Venezia.

    [IMG]http://i47.tinypic.com/fm2qud.jpg[/IMG]
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 22/10/2013 22:59]




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    The Housekeeper
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    Principe

    00 10/03/2013 20:40

    ottima cronaca [SM=x1140522]








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    ~ Cerbero ~
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    00 11/03/2013 18:48
    Grazie! [SM=g27963]

    Vediamo se riesco a portarla, non dico sino in fondo, ma almeno un po' lontano. xD




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    ~ Cerbero ~
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    00 12/03/2013 19:48
    Capitolo II
    Cade la Superba




    Genova, 2 novembre 1161.

    [IMG]http://i48.tinypic.com/33y4bc6.jpg[/IMG]

    Era sbalordito. Un senso di inquietante vulnerabilità aveva preso possesso della sua mente. Andrea Tartaro era allucinato, allibito ed aveva paura. Ed era anche arrabbiato con se stesso, perché la paura non doveva appartenere ad una persona del suo rango e della sua fierezza.

    Andrea Tartaro era un giovane diciottenne, Visconte di Ventimiglia e cavaliere della Repubblica di Genova, figlio del Conte Giovanni Tartaro, uno dei maggiori aristocratici genovesi e degli Otto Nobili che governavano la città. Gli era stato insegnato a comportarsi come si conveniva al suo alto rango e a mantenere un contegno degno dei suoi nobili natali. L'addestramento militare e politico impartitogli dalla famiglia, le sue discrete abilità nel combattimento, la buona prestanza fisica di cui, nel pieno della giovinezza, godeva ed i successi che riscontrava con le donne l'avevano reso, se non arrogante, comunque orgoglioso. Era stato cresciuto nel mito del suo rango nobiliare, nel rude orgoglio dei bellatores feudali e nel fiero senso di appartenenza alla Repubblica di Genova, la Superba.

    Giunta l'alba di quel freddo mattino di novembre, tutte quelle cose che componevano il suo mondo apparivano improvvisamente destinate ad essere spazzate via. Ed il suo animo ne era sconvolto.

    La brezza proveniente dal Mar Ligure, lassù sugli spalti delle mura cittadine, aveva quasi la forza di un vero e proprio vento. Andrea si tolse l'elmo metallico per vedere meglio, scostando i ricci corvini che gli baluginavano davanti agli occhi.

    Una flotta di decine di galeotte armate occupava l'ingresso del porto e quella parte del golfo. Sugli alberi sventolavano i vessilli di Pisa.

    Pisa, l'acerrima nemica di Genova. Da lungo tempo ormai le due repubbliche marinare avevano intrapreso un sanguinoso e dispendioso conflitto, militare e commerciale, per ottenere l'egemonia nel Mar Tirreno e nel Mediterraneo occidentale. La Repubblica Pisana aveva però conquistato parecchie posizioni di vantaggio negli ultimi tempi. Aveva sottomesso entrambe le isole di Corsica e Sardegna, mentre sulla terra ferma aveva ampliato la sua influenza in tutta la Tuscia, schiacciando Firenze e Prato. Un vantaggio che ormai appariva quasi irrecuperabile agli Otto Nobili genovesi, i quali, pur rimanendo tenacemente fieri, avevano preso a coltivare lo sconforto.

    Ed ecco che infine Pisa era giunta in Liguria, dinanzi alle mura di Genova, a reclamare la disfatta finale della sua atavica nemica. Ed era giunta non soltanto con la propria flotta.

    Andrea Tartaro infatti, voltando la testa, poteva vedere l'intero esercito terrestre di Pisa che, proprio in quegli istanti, stava marciando per invadere i declivi attorno alle mura di Genova e cingere d'assedio la città; in testa sciamavano le compagnie di servientes della cavalleria leggera pisana, che galoppavano per chiudere le strade ed attaccare i profughi ritardatari non ancora rifugiatisi oltre i cancelli di pietra cittadini.

    [IMG]http://i45.tinypic.com/b7npsn.jpg[/IMG]

    [IMG]http://i47.tinypic.com/2rf7fur.jpg[/IMG]

    Un assedio, portato sia da terra sia dal mare, che che si preparava a risolversi in una morsa che avrebbe lasciato pochissime speranze ai genovesi.

    *


    La notte del cinquantatreesimo giorno d'assedio il giovane Tartaro non riusciva a prendere sonno. Troppi pensieri e troppe preoccupazioni si agitavano nella sua testa. E su tutti un crescente presentimento che i giochi si sarebbero presto conclusi, forse addirittura l'indomani.

    «Padre, – aveva chiesto due giorni prima al nobile genitore, il cui volto era ormai invecchiato di dieci anni in un mese – perché i nostri feudatari in tutta la Liguria non inviano i rinforzi che ci servono disperatamente?».

    «Non lo so, figlio. Ma temo ci sia lo zampino dei bastardi pisani... Se mai usciremo incolumi da questa situazione, farò impiccare chiunque ci abbia tradito! Lo giuro su Dio!» aveva sentenziato Giovanni Tartaro con ira.

    «Forse si potrebbe chiedere aiuto ai veneziani, padre. Anche se sono nostri avversari non siamo in guerra con loro e forse preferirebbero vedere Genova ancora libera, piuttosto che sottomessa a Pisa. I pisani sono anche loro nemici dopo tutto. Magari un paio di galeotte, nottetempo, potrebbero non viste aggirare il blocco del porto...».

    «Non essere sciocco! Nessun tentativo avrebbe speranze contro quell'ammasso di navi pisane laggiù! Neanche la nostra sortita ben organizzata è riuscita a spezzare l'assedio del loro esercito di terra, dieci giorni fa. I lombardi sono in buoni rapporti con Pisa e ci vedrebbero volentieri distrutti. Cercare aiuto presso i veneziani o altri sarebbe compito dei nostri feudatari liguri, visto che dovrebbero avere, al contrario di noi chiusi dietro queste mura, libertà di movimento. Ma se c'hanno traditi...». S'era allontanato quindi dagli spalti, ripetendo sottovoce e sconsolato quella parola. «Traditi...». E lasciando la desolazione nell'animo di suo figlio, che più di ogni altra cosa era abbattuto dall'arrendevolezza del padre, da sempre un uomo propositivo, combattivo e fiero.

    Il vecchio Conte Giovanni, tuttavia, non sbagliava. L'attacco era stato ben organizzato dai Consoli della Repubblica Pisana, i quali s'erano preoccupati, prima e durante l'offensiva, di corrompere parecchi nobili liguri, che erano passati dalla loro parte, non vedendo quale vantaggio poteva provenirgli dal restare fedeli ad una città destinata in ogni caso alla rovina. I pochi tra loro che non si erano lasciati comprare o che non si erano arresi all'evidenza, rimanendo neutrali ed accettando il corso degli eventi, erano stati trucidati o arrestati dalle truppe che i pisani avevano mandato nell'entroterra ligure per proteggere i fianchi dell'assedio a Genova.

    Pisa poteva disporre di parecchie centinaia di uomini per le sue operazioni militari, uomini attinti dai suoi ampi domini sulle isole tirreniche e nell'entroterra toscano. Genova, invece, poteva contare sulle sole forze cittadine, integrate da alcuni contingenti provenienti dai suoi feudi liguri. La disparità numerica era grande e solo il vantaggio costituito dalle mura aveva garantito sino a quel momento la sopravvivenza dei difensori.

    Andrea Tartaro sapeva che i pisani, all'apparenza decisi, dopo il fallimento di un primo e raccapezzato tentativo di assalto dei bastioni, ad aspettare la resa della città per fame, si erano nuovamente rimessi all'opera già da una decina di giorni. I loro fabbri e carpentieri erano intenti nelle loro attività, abbattevano gli alberi dei boschi vicini e fabbricavano scale, rampini, torri d'assedio ed arieti. In notevole quantità. I nemici, questa volta, erano dunque decisi a minimizzare il più possibile il vantaggio difensivo delle mura e a sfruttare sino in fondo la propria superiorità numerica.

    Egli dormì un sonno breve e inquieto, disturbato dai continui colpi dei martelli dei carpentieri che, nei suoi strani sogni, gli pareva di udire. E la mattina dell'indomani, poco dopo l'alba, rinvenne di soprassalto, bruscamente svegliato con uno strattone dal suo scudiero.

    «Svegliati, mio signore! I pisani... Stanno assaltando le mura!».

    *


    Il nero fumo di tanti piccoli incendi si levava dalla città di Genova. I soldati della Repubblica Pisana sciamavano per le vie e i vicoli cittadini, dandosi al saccheggio. Le milizie genovesi erano state annientate, il loro numero sopraffatto dalla moltitudine dei pisani che si erano riversati oltre le difese attraverso i cancelli divelti dagli arieti e grazie a scale e torri lignee. La Superba era caduta, annientata dall'atavica nemica.

    Andrea Tartaro cavalcava a perdifiato, disfatto nell'animo e con la desolazione in cuore. Il suo mondo, quello in cui era cresciuto ed in cui aveva sempre pensato sarebbe morto, era distrutto. La sua nobile famiglia sterminata: suo padre era morto davanti ai suoi occhi, trafitto da una lancia mentre combatteva i pisani che assaltavano gli spalti, le sue due sorelle probabilmente stuprate ed uccise nella barbara frenesia del saccheggio, che ancora seguitava in quel momento.

    Il giovane Andrea s'era salvato e nella concitazione del saccheggio era riuscito a fuggire a cavallo da uno dei cancelli divelti, lasciato incustodito; cinque comites di suo padre, il defunto Conte di Ventimiglia – titolo che ora spettava a lui – ed il suo scudiero erano con lui. Si erano allontanati al galoppo dalla città in rovina, per trovare scampo ed asilo dove la mano di Pisa non potesse raggiungerli. E proprio mentre le mura di Genova erano quasi scomparse alla vista ed essi pensavano di essere ormai riusciti a fuggire non visti, avevano scorto una compagnia di servientes pisani che, accortasi di loro, aveva preso ad inseguirli. Sarebbe stata una lunga e penosa cavalcata, pensò Andrea.

    L'inseguimento durò per qualche giorno, ma – a quanto pareva – i fuggitivi riuscirono infine a seminare gli inseguitori. Nutrendosi di quella poca selvaggina che riuscivano a cacciare tra una sosta e l'altra o del pane che comperavano per pochi soldi nei villaggi e nelle fattorie incontrati lungo la strada, giunsero ai confini con il Piemonte orientale. Le truppe lombarde, nemiche di Genova, si aggiravano in quei luoghi a causa delle guerre di Milano contro alcuni comuni del posto.

    Dovettero quindi prendere una decisione su dove cercare rifugio. Ma la decisione era già presa, poiché rimaneva un solo luogo dove chiedere asilo: Venezia. Sebbene la Repubblica fosse anch'essa un'antica rivale di Genova, era pur sempre nemica di Pisa: forse le loro misere condizioni di fuggiaschi ed il fatto che la Superba avesse combattuto sino all'ultimo contro il temibile avversario comune avrebbero procurato loro qualche simpatia presso i veneziani. Correva voce che il Doge Domenico Morosini fosse uomo mite e misurato, saggio e cauto, e che raramente lasciava che il risentimento offuscasse il suo giudizio.

    Venezia era la loro unica possibilità.

    Si decisero quindi a cavalcare vero est, seguendo il corso del Po in direzione del Mar Adriatico. Una volta entrati nei confini del feudo di Ferrara, sarebbero stati relativamente al sicuro sotto l'influenza di Venezia, le cui truppe si trovavano in quei luoghi per sottomettere il Veneto ed il grande castello di Verona. L'unico – notevole – ostacolo che si frapponeva tra loro e la salvezza era la Lega Lombarda di Milano: avrebbero dovuto attraversare non visti le sue terre meridionali, con l'intento di non essere catturati. Altrimenti li avrebbe attesi un futuro di prigionia. Sempre che poi i lombardi non decidessero di consegnarli, sotto riscatto, a Pisa, affinché quei bastardi invasori potessero mandarli a morte.

    Tuttavia la fortuna li assisté durante la fuga attraverso le terre lombarde; riuscirono ad arrivare incolumi sino al castello di Ferrara, dov'era di stanza l'esercito veneziano, cui si consegnarono.

    I sette fuggiaschi, una volta disarmati, furono portati davanti al generale dell'armata, il giovane e nobile Renier Dandolo, che, nonostante avesse solo un anno più di Andrea, per le sue abilità già comandava un esercito della Repubblica. Egli, ascoltata la loro storia e consultatosi con l'anziano ed esperto padre Enrico Dandolo, acconsentì a che fossero portati a Venezia ed avessero udienza davanti al Doge, il quale avrebbe disposto del loro futuro. Un cauto sollievo avvolse, a sentire la decisione del generale, il giovane Tartaro e le sue membra, stanche e affaticate da interminabili giorni di cavalcata, si rilassarono per la prima volta.

    Giunsero a Venezia a bordo di una nave addetta alle salmerie e all'approvvigionamento dell'esercito di Renier Dandolo. Scesero al porto a pomeriggio inoltrato, presso quella parte delle banchine e delle rimesse adibite alle operazioni della flotta. A fianco sorgevano le imponenti strutture dell'Arsenale, il cuore pulsante della potenza veneziana, da poco creato per ordine del Doge, il quale aveva voluto che tutte le attività collegate alla flotta dello Stato fossero concentrato in un unico grande centro nevralgico.

    Andrea Tartaro non aveva mai visto Venezia prima di allora. E rimase meravigliato.

    La città era quasi surreale, con i suoi edifici in pietra che si stagliavano sopra la superficie del mare ed affondavano le loro radici nelle acque scure, grazie a chissà quale arte. Sempre più le costruzioni, col passare degli anni, si arricchivano di finiture e di decori scultorei affascinanti: una strana commistione tra le suggestioni romaniche e gotiche dell'Europa e le armonie bizantine ed esotiche dell'Oriente aleggiava nell'aria, quasi impalpabile, eppure solidamente scolpita nella pietra. Venezia non aveva grandi strade di terra battuta, ma vicoli lastricati e, soprattutto, innumerevoli vie d'acqua. I flutti che la circondavano da ogni lato riflettevano i raggi del sole pomeridiano e conferivano all'intera, marmorea città una strana luminescenza, innaturale, quasi sinistra, ma al tempo stesso rasserenante, quanto minaccioso e ad un tempo pacifico appariva il Leone di San Marco, emblema della città. Le sottili e fitte linee di alberi, bompressi e remi affollavano innumerevoli gli spazi marittimi ed intarsiavano in una strana rete il panorama cittadino, movimentato dalla fervente attività quotidiana dei numerosi cittadini.

    Il giovane Tartaro s'accorse che anche i suoi sei compagni erano rimasti sbalorditi alla vista di tutto quanto era ed appariva ai loro occhi esser Venezia. Un'opulenza ed una industriosità tali non erano mai appartenute a Genova, men che meno nel suo ultimo periodo di declino.

    Ma essi non ebbero molto tempo per ammirare i mille volti della città, poiché i loro guardiani li portarono subito presso la piazza centrale, dove sorgevano il palazzo ducale e l'antica Cattedrale di San Marco, il sacro corpo del quale era sepolto proprio in quelle cripte. Entrati nel palazzo, dovettero attendere più di un'ora prima che il Doge, occupato a dare udienza alla rappresentanza di un importante gruppo di mercanti, potesse riceverli, un'ora passata a scambiarsi commenti ed occhiate preoccupate: il momento in cui sarebbe stato deciso il loro destino era arrivato.

    Furono infine portati nella sala delle udienze.

    Il Doge Domenico Morosini-Michiel sedeva sullo scranno ligneo centrale, riccamente intarsiato, ed era attorniato da sei consiglieri, tre per parte. Egli era anziano: il suo volto era solcato da rughe profonde, ma i capelli e la barba, seppur bianchi, erano ancora folti e, sopra ogni altra cosa, la mente era ancora acuta e lucida. Un'aria saggia e serena emanava da quella figura canuta e paludata nelle vesti ducali.

    Andrea ed i suoi compagni si inchinarono e, rimanendo in piedi, attesero; gli era stato detto di aspettare che fosse il Doge a parlare per primo e di rispondere solo se interrogati. Gli occhi del vecchio Morosini e dei suoi consiglieri li scrutarono per molti attimi di silenzio, che divennero quasi insopportabili per i sette uomini in attesa.

    «Ebbene – disse infine il Doge con voce calma e roca – chi siete voi, mandati qui dal nostro nobile generale Renier?».

    Andrea rispose, cercando di mantenere un contegno adeguato al suo rango, senza però risultare arrogante, bensì umile: «Mio signore, io sono Andrea Tartaro di Genova, Conte di Ventimiglia, e costoro che mi accompagnano sono il mio scudiero e i miei fidi comites».

    «Siate benvenuti dunque, tu e i tuoi uomini, Conte Tartaro. Ma vi vediamo laceri ed affaticati. Quali sono mai i motivi per cui giungete qui a Venezia, dinanzi a noi?».

    «Veniamo nella vostra città, dopo giorni e notti di cavalcata estenuante, umilmente a chiedere ospitalità ed asilo. Siamo raminghi e la nostra patria è distrutta».

    Il volto del Doge si rabbuiò, il folto sopracciglio grigio inarcato, mentre i consiglieri che lo attorniavano presero a scambiarsi commenti stupiti.

    «La vostra patria distrutta, dici? Come può essere ciò?».

    «Vedo che la sventura non solo mi ha reso fuggiasco, ma anche latore dell'orrida notizia... Genova è caduta, mio signore, per mano dei nemici pisani. Le armate di Pisa hanno invaso la Liguria e stretto d'assedio la nostra città sia per mare che per terra. Questo ai primissimi giorni di novembre, quasi due mesi or sono, ormai. Dopo cinquanta e più giorni d'assedio, la moltitudine dei pisani s'è riversata su di noi, ha preso le mura ed espugnato la nostra città. Genova è stata presa e barbaramente saccheggiata. Mio padre il Conte è... – la voce gli venne meno per un attimo – è stato ucciso combattendo per difendere le mura; del triste destino toccato al resto della mia famiglia non ho conoscenza. Noi siamo riusciti a fuggire al massacro da una delle porte lasciate incustodite dagli assalitori ed inseguiti abbiamo cavalcato raminghi sino a Ferrara, dove il vostro generale c'ha trovati. Ora siamo qui dinanzi a te, mio signore, senza una patria e con la morte in cuore, per chiedere umilmente asilo...». Detto ciò tacque ed il silenzio avvolse la sala.

    Il Doge s'agitava un poco sullo scranno, immerso nei pensieri che quelle notizie avevano generato nella sua mente acuta. I consiglieri presero a bisbigliare animatamente tra di loro.

    Ad un tratto, il capitano delle guardie che avevano scortato Andrea e i suoi sin lì interruppe i ragionamenti del Doge Domenico, informandolo: «Perdonami, mio signore, ma il generale Renier Dandolo mi ordina di riferirti che ha già mandato dei messi presso i nostri alleati di Milano per chiedere conferma della presenza pisana in Liguria».

    «Bene» assentì il Doge, per poi rivolgersi all'attendente della guardia che stava a fianco degli scranni: «Sia armata immediatamente una galeotta e che parta alla volta di Genova, per constatare di persona, cogli occhi dei nostri, se i pisani occupino la città ed i porti di quelle terre».

    «Sì, mio signore» disse pronto l'attendente, che lasciò subito la sala.

    «Quanto a te, Conte Tartaro... – disse il Doge – Le notizie che rechi sono infauste. Non è un mistero che vi fosse rivalità tra Genova e Venezia; tuttavia v'era la pace tra le nostre due repubbliche ed una grande inimicizia nei confronti di Pisa ci accomunava. La situazione è allarmante: gli avidi pisani stanno fagocitando sotto la loro influenza l'intero Mar Tirreno ed ora che il baluardo della vostra fiera città è caduto, essi avranno facile accesso al Piemonte e alla Pianura Padana... Ben pochi ostacoli rimangono a limitare la loro cupidigia. Non di meno, oltre le Alpi l'Imperatore germanico si scuote, compiacendosi dei successi dei suoi amici pisani. Il Santo Padre, come noi d'altronde, è molto allarmato, e a ben vedere! La situazione sta evolvendo verso una direzione preoccupante...». La voce si spense un attimo mentre qualche preoccupazione gli affollava per un attimo i pensieri.

    Riprese dopo pochi istanti: «Tuttavia, al momento, è prematuro fare di codeste valutazioni, senza avere una visione più chiara delle cose. Venendo a noi, puoi riposare le tue stanche membra, Conte: hai trovato qui presso di noi un asilo temporaneo. Tu e i tuoi uomini sarete ospitati a Venezia, con le limitazioni alla vostra libertà di movimento che – comprenderete – saremo costretti dalle circostanze ad imporvi. Tu, Conte Tartaro, cenerai con me stasera e risponderai alle mie domande, poiché abbiamo molto di cui parlare. E poi, dando tempo al tempo, deciderò su quale debba essere il vostro destino».
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 20:52]




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    00 12/03/2013 19:54
    Una bella cronaca provvista di immagini! Complimenti!






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    "Il termine capatosta (letteralmente, "testardi") è il soprannome che identifica i molesi almeno dal Settecento, quando, dopo una lunghissima battaglia legale, riuscirono ad emanciparsi dalla signoria dei Vaaz."

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    00 14/03/2013 07:01
    Bella bella, complimenti :)
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    00 18/03/2013 22:06
    Grazie! Di immagini per adesso non ce ne sono molte, visto che non ci sono ancora state vere battaglie. Ma i miei vicini si stanno facendo inquieti e bellicosi, quindi non credo ci sarà molto da aspettare. [SM=g27962]




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    ~ Cerbero ~
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    00 18/03/2013 22:34
    Capitolo III
    L'Ordine Marciano




    Zara, 14 maggio 1162.

    [IMG]http://i50.tinypic.com/3505g92.jpg[/IMG]

    La galeotta attraccò al porto della città dalmata di Zara nella tarda mattinata. Trasportava rifornimenti ed effettivi per la locale guarnigione sotto il comando del Provveditore Generale di Dalmazia Marino Morosini-Michiel. Dalla nave scese un messo che s'incamminò per le strade cittadine alla volta del palazzo del Provveditore.

    Zara era la più ricca colonia marittima della Repubblica e, sebbene fosse ben lungi dagli splendori di Venezia, il suo porto e la sua cittadinanza avevano poco da invidiare alla capitale in termini di traffici e fervore economico; da lì Venezia controllava l'intera Dalmazia, una prospera terra che s'estendeva in lunghezza per un vasto tratto della costa orientale del Mar Adriatico.

    Il messo giunse presso il palazzo del Provveditore, uno dei pochi edifici cittadini interamente costruito in pietra e situato sulla piazzetta centrale, di fianco alla Chiesa di Santa Maria del Mare. Le porte della chiesa erano aperte, tutti gli allestimenti sacri posseduti dalla parrocchia erano esposti; sul sagrato un drappello di ecclesiastici e chierici erano radunati, assieme a molti cittadini, e parlottavano con calma tra loro.

    L'Arcivescovo di Venezia, titolare della Cattedra di San Marco e Cardinale della Santa Romana Chiesa, era in visita presso la città di Zara. Da un mese aveva intrapreso un viaggio in tutte le terre orientali veneziane per visitare le parrocchie locali, appartenenti alla sua vasta diocesi, e dare impulso all'opera di evangelizzazione che ferveva in modo particolare in quei luoghi.

    "Bene" pensò il messaggero. Il Cardinale doveva essere ancora al palazzo a conferire con il Provveditore.

    Si presentò a rapporto a Marino Morosini mentre questi si stava congedando con l'Arcivescovo.

    «Mio signore, porto i saluti del Doge e dispacci per te da Venezia» disse, consegnandoli. Poi si inginocchio e baciò l'anello vescovile al dito del Cardinale.

    «Eminenza, porto anche a te gli omaggi del Doge ed una sua lettera personale che m'è stato comandato di consegnarti».

    Orio Mastropiero, Arcivescovo di San Marco, prese con la mano affilata la missiva. L'anello pastorale di rubino riluceva di sanguigna luce e spiccava sulle sue pallide dita. L'Arcivescovo Orio era abbastanza giovane – aveva quarant'anni – per la carica che ricopriva, ma le sue qualità erano ben note; e su tutte spiccava quel sereno fervore che in quel suo viaggio pastorale in Istria, Dalmazia e Zeta stava dimostrando una volta di più. Orio era sempre stato un uomo di autentica fede, seppur non certo estraneo ai giochi della mondanità e della politica; il suo spirito di dedizione alla missione apostolica veniva acuito ogni qual volta vedeva l'ordine e la pace che la religione riusciva a portare in luoghi magari un tempo barbari e pagani, come quelli in cui era. E riteneva che fosse uno scotto decisamente basso da pagare quello di doversi dedicare anche alla mondanità della politica, se veniva, com'era nei fatti, remunerato dell'enorme contributo dato all'evangelizzazione cristiana dalla politica coloniale della Repubblica. Secondo Orio, quella che intercorreva tra San Marco ed il suo Doge era un'ottima simbiosi, poiché, se da un lato portava allo Stato potere, ricchezza ed influenza, dall'altro garantiva alla Chiesa sicurezza, devoto rispetto e possibilità di diffusione. E, non di meno, portava cultura e civiltà là dove prima vigevano costumi ancestrali, arretrati e spesso crudeli. Tanti più erano i popoli che vivevano urbani ed in pace sotto il dominio di Venezia, tante più erano le anime che la Chiesa poteva ambire a salvare con il Verbo di Dio, egli ne era profondamente convinto. Il fatto poi che la Repubblica fosse alleata con il Papato e s'opponesse agli spregevoli intenti dell'Imperatore germanico di mortificare e soggiogare l'autorità universale di San Pietro gli riusciva particolarmente gradito e confortante. Poteva, in tutta coscienza e serenità d'animo, dedicarsi a servire fedelmente entrambi i padroni: la Repubblica di Venezia come la Santa Chiesa.

    La sua duplice posizione di Arcivescovo di Venezia, custode delle spoglie dell'evangelista di Cristo, e di Cardinale romano, oltre a dargli grande prestigio ed un pio orgoglio, gli conferiva un ruolo chiave nei rapporti tra la Repubblica e la Chiesa, nonché tra potere secolare ed autorità spirituale.

    L'Arcivescovo Orio diede un'occhiata curiosa alla lettera che il messo gli aveva consegnato: portava un sigillo di ceralacca con il timbro personale del Doge.

    «Che tu sappia, soldato, vi sono forse comunicazioni urgenti qui dentro?».

    «No, eccellenza. Il Doge ti manda a dire che non è urgente che tu legga la missiva, ma spera che l'aprirai non appena avrai tempo da dedicarci».

    «Molto bene. Porta i miei omaggi al nostro Doge, soldato, e la benedizione del Signore». E diede la lettera al proprio arcidiacono segretario, perché la custodisse.

    «Sarà fatto, eccellenza. Dio ti custodisca» disse il messo, inginocchiandosi a ribaciare l'anello pastorale.

    L'Arcivescovo Orio si congedò quindi dal Provveditore Morosini e uscì al tiepido sole di primavera che illuminava la piazzetta. Seguito dai suoi diaconi e da due armigeri di scorta, egli si diresse alla vicina Chiesa di Santa Maria del Mare, dove i chierici e la gente lo accolsero con calore e riverenza.

    *


    Scesa la sera, il Cardinale Orio si ritirò negli alloggi che gli erano stati messi a disposizione da Marino Morosini presso il palazzo del Provveditore Generale. Congedò l'arcidiacono e prese a leggere la missiva del Doge. Sua grazia lo salutava rispettosamente ed elogiava la sua dedizione all'opera cristiana in occasione del viaggio pastorale intrapreso, per poi ribadire il mutuo e proficuo beneficio che la Santa Chiesa e la Repubblica si portavano e potevano ulteriormente portarsi a vicenda. Il Doge veniva poi al punto: egli desiderava conferire, appena possibile, con sua eminenza in merito ad un progetto. I pochi accenni che faceva di questo progetto indicavano la sua intenzione di costituire un ordine di monaci e cavalieri, a metà tra il monastico ed il laico, sotto il patrocinio del Santo Padre e la guida del Consiglio veneziano. Scopo dell'ordine sarebbe stata una non meglio precisata opera di custodia della sapienza e della cultura, nonché di evangelizzazione delle genti e di cura delle terre. Maggiori dettagli gli sarebbero stati resi noti in occasione del loro auspicato colloquio. Il Doge individuava nel riverito Arciescovo di San Marco la figura ecclesiastica naturale e privilegiata per fungere e da guida spirituale del nuovo ordine e da intermediario presso il Pontefice.

    Tutto ciò era tipico del nuovo Doge, pensò Orio Mastropiero. Il saggio Domenico Michiel-Morosini era morto tre mesi prima, spegnendosi improvvisamente, ma serenamente nel proprio letto. I massimi nobili della Repubblica avevano subito acconsentito a che il Consigliere Vitale gli succedesse alla carica. Da tre mesi, dunque, Venezia era governata dal Doge Vitale II Morosini-Michiel, il quale sembrava aver mutuato dal proprio predecessore la capacità di giudizio, l'equità e una certa saggezza. Era risaputo, tra l'altro, che il nuovo Doge era uomo che apprezzava la cultura, in special modo quella antica e bizantina. E ciò suggeriva al Cardinale che il 'progetto' avesse qualche cosa a che fare con questa sua inclinazione.

    Orio mise via la lettera, intenzionato a rimandare le proprie valutazioni una volta che avesse incontrato il Doge. E tuttavia già vedeva di buon occhio quel progetto, che oltretutto sembrava voler nascere sotto l'autorità spirituale della Chiesa veneziana. Decise che avrebbe sì concluso il suo viaggio pastorale sulle coste adriatiche prima di tornare a Venezia, ma che l'avrebbe accorciato. Chiamato l'arcidiacono, concordò con lui i cambiamenti da apportare al programma di viaggio.

    *


    La gondola dell'Arcivescovo Orio Mastropietro passò a fianco dell'isola di Rialto. Sull'isola era in costruzione un grande edificio, provvisto di cappella. L'opera era a buon punto e già ne si potevano scorgere i profili nel nuovo stile gotico che si stava diffondendo sempre più in Europa, stile opportunamente ibridato dagli architetti veneziani con il gusto orientale in auge a Venezia. Là dove sarebbe sorta la grande biblioteca, già si ergevano i contrafforti e gli ampi archi a sesto acuto che avrebbero ospitato splendide vetrate istoriate.

    Il nuovo quartier generale del neonato Ordine Marciano – questo il nome per esso scelto dal Doge – avrebbe rappresentato in pieno l'elevatezza morale della sua missione.

    E quel giorno era infatti prevista la cerimonia di fondazione dell'Ordine presso la Cattedrale di San Marco, dove l'Arcivescovo si stava recando. Erano passati quasi sette mesi da che aveva ricevuto la lettera del Doge e tutto era poi stato fatto con grande celerità.

    I contorni della nuova entità erano ora ben definiti. L'Ordine Marciano sarebbe stato composto sia di laici che di ecclesiastici. Un Capitolo Generale sarebbe stato il suo organo di governo, presieduto da un Gran Maestro eletto dallo stesso Capitolo dietro consultazione del Consiglio della Repubblica e dietro l'approvazione dell'Arcivescovo di Venezia, guida spirituale dell'Ordine e membro del Capitolo Generale. Il Gran Maestro, carica che sarebbe durata a vita o sino alla rinuncia dello stesso, sarebbe stato scelto all'interno della cerchia dei maggiori aristocratici della Repubblica, fosse anche egli già un consigliere o addirittura il Doge. Del Capitolo Generale avrebbero fatto parte, oltre all'Arcivescovo e al Gran Maestro, le figure laiche dei Primi Cavalieri, del Cavaliere Generale e del Dottore Segretario, figura quest'ultima che poteva essere sia laica che ecclesiastica. Tra i membri religiosi del Capitolo, invece, vi sarebbero stati il Padre Bibliotecario, l'Abate Generale ed il Dottore Teologo. Era infatti stato deciso che l'ordine avrebbe presentato una componente laica, inclusiva dei cavalieri e degli armigeri, preposti alla sicurezza dei dell'Ordine e delle sue operazioni, e dei vari servitori; la componente religiosa sarebbe stata determinata invece dalle varie tipologie di monaci: amanuensi, bibliotecari, insegnanti e amministratori della terra. I laici avrebbero dovuto prendere il solo ordine d'obbedienza, mentre i religiosi, essendo monaci, tutti e tre gli ordini di castità, povertà ed obbedienza. Ogni membro dell'Ordine avrebbe poi dovuto giurare fedeltà alla Repubblica di Venezia.

    L'Arcivescovo Orio storse un poco la bocca al pensiero di come il Doge Vitale, dopo molte discussioni, era riuscito a spuntarla e a costituire l'intero Ordine sotto il diretto e sostanziale controllo del governo veneziano. L'Ordine diventava il braccio religioso-culturale, nonché armato, della Repubblica. I monaci avrebbero avuto l'alto compito di custodire tutte le opere di cultura di cui entravano in possesso, di condurre l'insegnamento, tenere scuole e di creare ampie biblioteche acquisendo i testi e i libri più svariati e facendone copie, nonché di mettere a frutto le terre amministrate. Di primaria importanza erano la lingua latina, ma soprattutto la lingua greca, che ogni monaco e alto funzionario dell'ordine era tenuto a conoscere e per l'insegnamento della quale erano stati incaricati diplomatici e interpreti che, nello svolgimento delle loro funzioni presso i bizantini, l'avevano appresa.

    Il braccio militare avrebbe garantito la difesa e la sicurezza delle sedi e delle terre dell'Ordine, nonché avrebbe appoggiato nell'ambito bellico e logistico le sue operazioni, in armonia con quelle più generali di Venezia. Tutti i Cavalieri e gli armigeri sarebbero provenuti dalle truppe della Repubblica ed in esse sarebbero stati inquadrati. Erano già state individuate ricche terre in Istria come in Dalmazia e in Veneto da assegnare all'Ordine: i membri laici, infatti, sarebbero stati stipendiati interamente dalla Repubblica, mentre la componente monastica avrebbe utilizzato per il proprio sostentamento i frutti e i proventi delle concessioni terriere e feudali dategli. Inoltre i monaci, improntati alla laboriosità dei loro fratelli benedettini e cistercensi, le avrebbero fatte fruttare, ben amministrandole, disboscandole e bonificandole. Ad ogni beneficio sarebbe corrisposta un'abbazia retta da un Abate, il quale avrebbe esercitato la maggior parte delle prerogative feudali, escluse quelle che per loro natura erano di competenza del Cavaliere Capitano, figura deputata al comando degli armati e alla custodia dell'Abbazia stessa.

    Una Regola Marciana disciplinava interamente e specificatamente i doveri, le funzioni e la fisionomia di entrambe le componenti dell'Ordine. La Regola, approvata sia dal Consiglio che dall'Arcidiocesi di Venezia, era già a Roma allo studio del Papa; c'erano tutte le certezze che anche il Santo Padre l'avrebbe rapidamente approvata e ratificata, vista l'amicizia e l'alleanza che lo legava alla Repubblica.

    Ormai tutto era disposto, ogni preparativo necessario fatto. Mancavano solo più i sigilli ufficiali e rituali.

    La gondola dell'Arcivescovo attraccò ai piloni di Piazza San Marco ed egli avanzò in processione, seguito dai diaconi e attorniato dalla folla, sino ai portali della Cattedrale. Là lo attendeva tronfio il Doge Vitale, circondato ad una certa distanza dai consiglieri e dai maggiori nobili veneziani: quasi tutta l'oligarchia aristocratica che governava la Repubblica era adunata davanti alla Cattedrale, quel giorno.

    L'Arcivescovo Orio si inchinò al Doge, poi questi si inginocchiò a sua volta e baciò l'anello pastorale. I due si girarono alla volta dell'ingresso della Cattedrale, le schiene illuminate dal sole del mattino.

    «Una splendida giornata illumina la nostra città, non trovi, eminenza?».

    «Oserei quasi dire che il Cielo mostra il suo apprezzamento per questa pia nostra opera, mio signore».

    «Decisamente. La nobiltà di questo nostro atto non può che riuscirgli gradita, ne sono certo. E dunque vieni con me, eminenza. Non attendiamo oltre: abbiamo un ordine da fondare».

    [IMG]http://i42.tinypic.com/25kot2u.jpg[/IMG]
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 20:57]




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    00 21/03/2013 16:36
    Capitolo IV
    Tradimento!




    Strada per Verona, 27 agosto 1171.

    [IMG]http://i39.tinypic.com/2w4zjah.jpg[/IMG]

    Il messo cavalcava a perdifiato. Sia lui che il proprio cavallo erano madidi di sudore; era in viaggio già da tre ore dall'ultima, veloce sosta alla stazione di posta più vicina. Il Consiglio gli aveva ordinato di non fermarsi fintantoché non avesse consegnato il messaggio. Per la propria esperienza di umile corriere, il messo sapeva che spesso e volentieri i potenti che lo comandavano esageravano gli ordini per il puro piacere d'esercitare la propria autorità o, semplicemente, per capriccio. Eppure, il giorno prima, nelle secche parole del consigliere Falier gli era davvero sembrato di percepire un'autentica nota di urgenza.

    Galoppò per un tempo che gli sembrò infinito, finché le alte mura del castello di Verona non furono in vista. Ancora uno sforzo...

    Verona era la principale fortezza del Veneto e controllava praticamente tutti i domini veneziani nell'entroterra padano, gli unici domini davvero terrestri e non marittimi che la Repubblica possedeva. Il castello sorgeva in un punto cruciale della Pianura Padana, non solo perché era il principale baluardo a difesa della Laguna e della stessa città di Venezia contro eventuali attacchi dall'occidentale Lombardia e dalla meridionale Emilia, ma anche perché costituiva l'unica grande roccaforte che si interponeva tra le Alpi e le terre padane orientali, e quindi tra il bellicoso Sacro Romano Impero e la Repubblica. Per questo i veneziani avevano nel tempo apportato diverse migliorie al castello ed irrobustito di molto la sua guarnigione: se laggiù in mezzo alla laguna la città non aveva spalti, ma solo acque a difenderla, là sulla terra ferma erano i bastioni di Verona ad essere le vere mura della Repubblica.

    Il Doge Vitale era in quei giorni in visita presso la fortezza, ospite dell'anziano Consigliere sessantaquattrenne Enrico Dandolo, Marchese di Verona, per prendere visione di persona delle difese e passare in rivista la guarnigione. E lì il messo doveva raggiungerlo per portargli l'urgente dispaccio.

    Arrivò finalmente nella corte del castello – le sentinelle del cancello, vedendo lo stemma della Repubblica e la casacca da corriere non l'avevano fermato –, lasciò, senza badarvi, che qualche stalliere subito accorso si prendesse cura della sua cavalcatura ansimante, e corse su per le scale che conducevano all'interno del maschio del castello.

    Il Doge stava discutendo con l'anziano Consigliere di alcuni movimenti sospetti delle truppe imperiali del Barbarossa al confine con il Trentino, quando sentì un gran vociare fuori dalla spessa porta di legno e poi i colpi della guardia che bussava.

    «Avanti» ebbe appena il tempo di dire prima che la porta si spalancasse ed il messo, che quasi aveva travolto la sentinella, si riversasse all'interno, ansimante, davanti allo sguardo interrogativo del Doge e del Marchese.

    «In nome del Cielo, soldato! Cos'è tutto questo trambusto!? Donde ti viene tutta questa fretta!?».

    «Perdonami, mio signore. È un giorno e una notte che cavalco... Ma il Consiglio...». Il messo farfugliava, cercando di raccogliere i pensieri e le parole tra un fiatone e l'altro. «I bizantini, mio signore... È accaduto qualche cosa a Bisanzio che... Il consigliere Falier, signore... M'ha ordinato di portarti in tutta fretta questo dispaccio» riuscì infine a dire, porgendo ad un Doge allibito una missiva con il timbro di ceralacca del Consilium Sapientes.

    Vitale Morosini aprì la lettera e lesse. Per un attimo il pallore avvolse il suo volto e si sedette d'istinto sullo scranno lì vicino. Poi riportò gli occhi sulla missiva e la lesse una seconda volta. Il volto si fece quindi scuro e rosso ed in un impeto di collera egli stracciò la lettera, prorompendo in un urlo: «Tradimento!».
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 20:59]




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    00 21/03/2013 16:44
    Capitolo V
    Venti di guerra




    Pola, 14 aprile 1172.

    [IMG]http://i45.tinypic.com/htxkyp.jpg[/IMG]

    Il pomeriggio era nuvoloso. Una sostenuta brezza spirava da nord-ovest, portando con sé grigie nubi che si dipanavano veloci nel cielo per assumere forme enormi ed inquiete, quasi a minacciare la terra sottostante. Il mare ondeggiava infastidito ed il grido dei gabbiani riempiva l'aria umida e primaverile. Altre navi stavano attraccando al porto del castello di Pola, la principale fortezza veneziana in Istria. Nella sommessa cacofonia generale di piedi in marcia, ordini di ufficiali, sciabordio del mare e richiami dei gabbiani, si poteva distinguere il ritmico rumore di centinaia di remi che muovevano all'unisono per infrangere le onde. Erano giorni che le galee andavano e venivano dallo scalo, sbarcando truppe ed approvvigionamenti che si univano a quelle già in attesa nei pressi del castello. Una flotta di notevole entità, radunatasi poco fuori il porto in una delle insenature naturali della costa, stava ora rientrando tra le banchine fortificate, per proteggersi dal mal tempo in arrivo. Tutto il paesaggio era animato da un fervore marziale, seppur misurato: cavalli, soldati, carri ed ufficiali si muovevano ordinatamente qua è là intenti nelle loro attività, le botteghe artigiane di fabbri, conciatori ed arcai erano all'opera per preparare armi, armature, selle, briglie, ferri per i cavalli, mentre i magazzinieri e i foraggieri spostavano le provviste sui carri delle salmerie o le stivavano nelle cambuse delle navi. Sotto l'esperta guida del Marchese d'Istria Enrico Polani, un'alacre attività ferveva per approntare tutti i preparativi necessari.

    La Serenissima scendeva in guerra.

    Dal Veneto, dall'Istria e dalla Dalmazia giungevano in quelle settimane uomini e cavalli, mentre altri si radunavano ai più lontani confini sud-orientali della Zeta. E l'Arsenale di Venezia era all'opera come non mai, poiché decine di nuove navi erano in costruzione ad un ritmo sorprendente. Presto le armi della Repubblica avrebbero portato la distruzione contro i suoi nemici.

    All'incirca otto mesi prima, infatti, il Doge Vitale II Morosini-Michiel aveva ricevuto a Verona, dove si trovava per un'ispezione, un urgente dispaccio inviatogli dal Consiglio veneziano. Incredibili notizie erano giunte dall'Oriente.

    L'insediamento di Galata, situato nelle strette vicinanze di Costantinopoli, era un vecchio emporio genovese che, con la caduta della Superba, avvenuta dieci anni prima ad opera dei pisani, s'era reso praticamente autonomo e s'era costituito in una piccola potenza marinara commerciale. Nell'estate del 1171 un incendio di grandi proporzioni e di cause ignote l'aveva devastata. Certo, la distruzione di Galata, la quale interferiva non poco nei traffici mercantili della Repubblica, era stata vantaggiosa per i veneziani e da loro salutata di buon grado. Ma non vi erano prove che fossero stati gli agenti di San Marco ad appiccare l'incendio che l'aveva rasa al suolo. E tuttavia l'Imperatore Manuele, non badando all'assenza di prove e cogliendo al volo l'occasione, spinto dai suoi infidi nobili, aveva addossato in tronco la responsabilità a Venezia.

    Fu ordinato che tutti i cittadini veneziani presenti sul territorio della Basileia fossero arrestati ed i loro beni confiscati. Più di diecimila cittadini della Repubblica erano stati gettati nelle prigioni romee e decine di migliaia di bisanti erano andate perdute per via dei sequestri fatti degli ufficiali del Basileus. Lo sconvolgimento fu grande a Venezia; l'indignazione ed il risentimento ancor di più.

    Bisanzio, infrangendo l'antica amicizia e molti degli accordi che intercorrevano con la Repubblica, aveva voluto ribaltare la situazione della penetrante invadenza commerciale veneziana, fatta di esenzioni da dazi e gabelle e di monopoli mercantili, ed assestare un durissimo colpo all'influenza veneziana in Oriente. In spregio ad un alleato legato ad essa da una lunga e atavica storia, il rancore della Basileia s'era infine mostrato. Quello che era cominciato secoli addietro come uno stretto rapporto di interdipendenza, protezione e collaborazione, sarebbe ora finito nel sangue. Ma il sangue versato sarebbe stato quello dei bizantini, così infatti aveva sbraitato il Doge su tutte le furie.

    Quella della vicenda di Galata era un'umiliazione, oltre che un vero e proprio attacco, che Venezia non poteva tollerare in alcun modo.

    Il punto di non ritorno s'era poi toccato nel gennaio dell'anno successivo, quando la Basileia aveva mosso guerra contro il Regno d'Ungheria, fedele alleato della Repubblica. L'Imperatore bizantino, vecchio, malfermo ed ormai prossimo alla morte, era facilmente controllato dal Synbasileus e dalle importanti casate romee, di fatto i mandanti di quella ottusa e bellicosa politica.

    Se già la gran parte dei trattati commerciali era stata stracciata a seguito dell'"onta di Galata" – così avevano preso a chiamarla i nobili –, dopo l'attacco bizantino contro i magiari anche l'alleanza con Bisanzio era ormai del tutto infranta. Il conflitto che s'annunciava poteva apparire impari, viste le reciproche dimensioni territoriali, ma la Repubblica era ricca, audace e piena di energie, mentre l'Impero Bizantino, seppur antico e sconfinato, era decadente, insidiato da molti nemici e con le casse esangui.

    Il rancore del Doge Vitale, come quello dell'aristocrazia, era cresciuto giorno dopo giorno, nutrito dal risentimento che egli provava per un popolo ed una cultura che aveva sempre considerati come vicini ed amici. Una gelida inimicizia era scesa nei rapporti tra le due fazioni ed il Doge aveva ordinato al suo ambasciatore presso Bisanzio – uno dei pochi veneziani che, in virtù dell'immunità accordata ai legati di principi e sovrani, era scampato alla valanga di arresti – di tornare seduta stante a Venezia. Come ultimo atto diplomatico, prima di lasciare Costantinopoli egli aveva consegnato alla Corte bizantina un ultimatum ufficiale di San Marco, che pretendeva l'immediato rilascio di tutti i cittadini veneziani e la riconsegna di tutte le ricchezze a loro confiscate. La risposta bizantina non era giunta.

    Venti carichi di guerra soffiavano ormai alla volta dell'Oriente e le navi veneziane si preparavano, armate, a tagliare i marosi con remi e vele per portare l'ira della Serenissima nei mari e nelle terre dei romei.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 22/10/2013 23:29]




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    00 23/03/2013 20:20
    Capitolo VI
    Sul campo




    Strada per Ras, 5 agosto 1172.

    [IMG]http://i47.tinypic.com/11qo49f.jpg[/IMG]

    Giovanni Polani, Conte della Zeta, ordinò di arrestare la marcia. Erano a meno di un giorno di cammino dal castello bizantino di Ras e quello sembrava un buon posto dove accamparsi per la notte. Le alture proteggevano la loro posizione su due lati, nascondendoli alla vista, mentre la strada di terra battuta, poco più in basso, era facilmente controllabile. Le sentinelle avrebbero avuto gioco facile, dalle rocce, ad avvistare eventuali nemici in avvicinamento e a tenere sott'occhio i dintorni, tanto più che la luna sarebbe stata quasi nel suo plenilunio quella notte.

    Nel mentre che le truppe montavano le tende ed approntavano il campo, Giovanni Polani si concesse una piccola battuta di caccia. Era da quando avevano lasciato Ragusa che non aveva goduto di un vero pasto a base di selvaggina. Sebbene avesse già cinquantatré anni, il Conte era ancora pieno di energie ed assai resistente nel fisico, che la sua passione per l'equitazione e l'arte venatoria avevano mantenuto allenato. Fu un piacere per lui abbandonare finalmente il tedioso passo cui per tutto il giorno l'aveva costretto la fanteria appiedata e lasciarsi andare al galoppo nelle selve lì attorno.

    Quando il Conte Giovanni tornò dalla battuta, seguito dai cavalieri della scorta, con due caprioli ed una pernice catturati, il campo era pronto. Cenò con i suoi luogotenenti e si coricò presto, poiché l'esercito avrebbe ripreso la marcia alle prime luci dell'alba, così da arrivare in vista di Ras all'incirca nel tardo pomeriggio dell'indomani. E poi ci sarebbe stato l'assedio, probabilmente lungo, sfiancante e niente affatto semplice. Dubitava che gli alleati ungheresi fossero al momento in quei luoghi o potessero inviare contingenti per aiutarli nell'impresa. Gli esploratori che aveva mandato in avanscoperta per informarlo sulla situazione non avevano ancora comunicato nulla. Così come era avvenuto nell'assedio di Durazzo, le truppe di Giovanni Polani avrebbero dovuto fare tutto da sole. Ma al contrario di quanto era successo laggiù, qui l'impresa appariva assai più ardua, dal momento che erano i bizantini ad essere superiori. Oltre – certo – alla protezione delle spesse mura di pietra del castello di Ras... Quelle maledette mura si sarebbero rivelate un sanguinosissimo ostacolo, il Conte Giovanni ne era purtroppo convinto.

    *


    La guerra tra la Repubblica di Venezia e l'Impero Bizantino era infine scoppiata due mesi prima. I romei erano stati troppo impegnati a combattere i magiari d'Ungheria a nord-ovest ed i cumani delle steppe ad est per respingere efficacemente i veneziani. Le truppe radunate presso Ragusa avevano sconfinato ed invaso le terre di Durazzo; la città stessa era caduta poco dopo, espugnata dal Conte della Zeta Giovanni Polani.

    Da allora la guerra era stata combattuta in periferiche schermaglie di frontiera e soprattutto nel Mar Ionio e nell'Egeo, dove le squadre veneziane avevano distrutto una gran parte della flotta bizantina e bloccato i principali porti mediterranei della Basileia.

    Nonostante i bizantini possedessero la segreta tecnologia del fuoco greco, la terribile arma non gli era valsa più di tanto: certo diverse navi veneziane erano affondate in spaventosi roghi, ma per ogni imbarcazione perduta l'industrioso Arsenale di Venezia ne varava un'altra, se non addirittura altre due. Inoltre, il fuoco greco era un'arma terribilmente costosa. Il Basileus, prosciugato di denaro dalle guerre che stavano coinvolgendo, tra un nemico ed un altro, l'intero confine settentrionale ed occidentale dell'Impero, dalle coste del Mar Ionio a quelle del Mar Nero, non poteva permettersi di armare tutte le sue navi con quell'arma, ma soltanto alcune. Ed i capitani veneziani, ben istruiti sulla pericolosità del fuoco greco, erano addestrati a manovrare ed attaccare le navi nemiche secondo tattiche che minimizzavano il rischio di venire bruciati. Il controllo bizantino sull'Egeo ed il Mediterraneo orientale stava venendo meno.

    Tuttavia i molteplici tentativi dell'Ammiraglio veneziano Lodovico di Caprio di impadronirsi del segreto del fuoco greco, custodito gelosamente dai bizantini, erano andati frustrati: se infatti quell'arma fosse caduta nelle mani di San Marco, la già acclarata superiorità navale di Venezia sarebbe diventata inoppugnabile in tutto il Mediterraneo. Ma così non era stato, e per il momento i veneziani dovevano accontentarsi di archi, frecce incendiarie e lame per vincere le battaglie navali.

    A minare ulteriormente la forza dell'Impero Bizantino, alla guerra s'era aggiunta la crisi dinastica dei Comneni. Manuele I era morto poco dopo l'onta di Galata ed il nuovo Imperatore a lui succeduto aveva un unico figlio senza discendenti diretti, il Synbasileus Giovanni Comneno. Questi però era morto in occasione della presa di Durazzo, ucciso nell'assalto proprio dai comites del Conte Polani. All'Imperatore era rimasto il solo nipote (il figlio del suo defunto fratello minore) quale erede del proprio nome e della propria dinastia. Come se non bastasse egli era consumato dalla malattia che l'aveva colpito poco dopo essere salito al trono ed aveva quindi nominato in fretta e furia il nipote ventenne Alessio Comneno quale Synbasileus.

    Tuttavia, le altre antiche famiglie aristocratiche romee, Angelo-Ducas e Paleologi in testa, si stavano ora scuotendo nel tentativo di insidiare il Basileus infermo ed impedire che il suo unico nipote, ultimo dei Comneni oltre allo zio, salisse sul trono. Essi infatti contestavano in modo più o meno mascherato la successione: gli Angelo-Ducas avevano un valido pretendente in Andronico, figlio del nipote del vecchio Imperatore Manuele I, per parte di sorella; i Paleologi, invece, ne avevano uno ancor più valido in Niceforo, figlio della sorella maggiore (ancora in vita) del Basileus morente e quindi anch'egli suo nipote, sebbene in linea femminile. Le grandi famiglie bizantine erano ormai intente a combattere fra loro una celata guerra sotterranea per accaparrarsi il trono.

    La situazione si stava rivelando particolarmente vantaggiosa per Venezia, che aveva quindi deciso di attaccare le province settentrionali della Basileia e di allentare la pressione nemica sugli alleati magiari. Mentre un'altra armata, preparata per una nuova grande operazione nell'Egeo, finiva di essere messa insieme nelle terre d'Istria, una spedizione era partita dalla Zeta per invadere la Serbia ed espugnare il castello di Ras. E chi meglio del conquistatore di Durazzo poteva guidare quell'esercito?

    *


    Il Conte Giovanni Polani fu svegliato tre ore prima dell'alba dalle sue guardie, che fecero entrare nella tenda due esploratori, tutti trafelati.

    «Mio signore, i bizantini muovono verso la nostra posizione. Da ciò che sappiamo sembra che vogliano evitare l'incognita di un lungo assedio ed impedire che i magiari abbiano il tempo per unirsi con dei soccorsi alle nostre forze dirette contro Ras».

    «Sono più numerosi?».

    «No, mio signore, anche se hanno catapulte e cavalleria pesante. Ma da come si muovono, lentamente e senza un'attenta ed estesa avanguardia, sembra che ci credano ancora ai confini con la Zeta. Evidentemente le nostre spie sono riuscite a trarli in inganno sui tempi. Pensiamo vogliano marciare fin quaggiù per attestarsi dove la strada è stretta tra le alture, nell'intento di bloccarci il passo e costringerci ad un attacco in salita. Una piccola schiera di supporto, quasi tutto quel che rimane della guarnigione di Ras, li segue a poca distanza. Di questo passo immagino che arriveranno all'altezza dell'accampamento nel pomeriggio» concluse l'esploratore.

    Il Conte Polani congedò i due. Poi, quasi parlando tra sé e sé, disse: «Restare o avanzare?».

    Uno dei suoi aiutanti di campo intervenne: «Qui la posizione ci è favorevole. I bizantini, a detta degli esploratori, non s'aspettano che siamo già noi ad occupare il passo. Erigendo difese ed attestandoci saldamente su queste alture, avremo un grande vantaggio difensivo, mio signore».

    «Vero. Eppure... I bizantini non sono barbari urlanti che si gettano a capofitto nella mischia senza badare ad altro. Sono convinto che vedendoci trincerati qui si ritirerebbero nuovamente a Ras. Perché mai dovrebbero attaccarci in condizioni di svantaggio quando possono costringere noi a fare altrettanto?».

    «Per il tempo, mio signore. Temono un aiuto da parte dei magiari...».

    «I magiari? – disse il Conte un poco divertito – I magiari sono distanti: prima che possano portarci aiuto saranno passati dei mesi, temo. Ed i bizantini lo sospettano pure. Hanno abbandonato la vantaggiosa posizione del castello solo perché si aspettano di attestarsi su un'altra vantaggiosa posizione. Quando ci vedranno qui, torneranno di sicuro indietro e noi difficilmente potremmo impedirgli la ritirata...» rifletté.

    «No, nobili signori, dobbiamo per forza avanzare. Andremo loro incontro, sorprendendoli con la nostra avanzata, e li costringeremo a dare battaglia nei pressi della strada, quando non se l'aspettano. Con un po' di fortuna, li sconfiggeremo prima dell'arrivo della seconda schiera. E poi potremo attaccare in tranquillità anche quell'altra e aprirci la strada fino a Ras, che non potrà più sostenere l'assedio così sguarnita» spiegò il Conte Giovanni.

    «Così ho deciso. Il tempo e la sorpresa sono dalla nostra. Tra un'ora sveglierete gli uomini e ci metteremo in marcia. Silenziosamente» aggiunse.

    *


    Molti dei soldati al comando del Conte Giovanni Polani erano veterani dell'assedio di Durazzo e quindi già avvezzi alla guerra. Ma un conto era stato vedere e combattere un guarnigione numericamente inferiore durante operazioni d'assedio, un altro era incontrare un esercito bizantino superiore in campo aperto.

    Il cielo era plumbeo e l'aria carica d'umidità; nonostante ciò, ancora non era piovuto ed il terreno rimaneva asciutto ed ideale per manovrare. I veneziani già avanzavano in formazione, fronteggiando l'esercito bizantino che, non ancora del tutto riavutosi dall'improvviso incontro con il nemico, si stava affrettando a schierarsi.

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    L'esercito agli ordini del Conte della Zeta non aveva truppe da tiro; era composto unicamente da quattro battaglioni di miliziani comunali ed altrettanti di servientes a cavallo, 500 uomini in tutto. I bizantini, dal canto loro, sebbene avessero all'incirca un centinaio di uomini in meno, potevano contare su truppe di cavalleria pesante – i loro cavalieri della pronoia – catapulte e unità da tiro – i rinomati arcieri di Trebisonda. I veneziani dovevano quindi rapidamente eliminare quei vantaggi o sarebbero stati sconfitti.

    Prima che i bizantini avessero il tempo di schierarsi completamente, il Conte caricò con i propri cavalieri il centro dello schieramento. La sua impetuosa carica travolse gli arcieri nemici e la fanteria leggera bizantina, portando lo scompiglio. Diversi furono i corpi dei militi nemici sbalzati per aria dalla forza dell'impatto e le lance in resta dei cavalieri veneziani trafissero la carne degli altri.

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    Mentre i bizantini erano concentrati sul loro centro travolto dalla carica del Conte, i servientes veneziani si mossero velocemente sulle ali ed attaccarono i due reggimenti di arcieri romei montati posti ai lati della formazione.

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    La mischia fu feroce, ma i servientes erano meglio armati ed indossavano armature più pesanti dei loro avversari: infine riuscirono ad averne ragione e a metterli in fuga. Chiudendo la manovra a tenaglia che avevano cominciato, galopparono poi sul retro dello schieramento nemico, per attaccare le catapulte ed i loro inservienti, che ancora non erano riusciti a lanciare un sol colpo.

    Nel frattempo, aggirando i comites del Conte che ancora combattevano furiosamente al centro contro gli arcieri ed i miliziani superstiti, i cavalieri della pronoia caricarono la linea della milizia comunale che lentamente avanzava per raggiungere il luogo dello scontro principale. I cavalieri bizantini furono incauti, perché non conoscevano la particolare tattica italica con cui quei lancieri erano abituati a combattere: ponendosi l'uno spalla a spalla con l'altro, i militi comunali erano soliti formare, grazie ai loro ampi scudi tavolari, una barriera inestricabile di lance.

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    La carica dei cavalieri della pronoia si infranse contro il solido baluardo del muro di scudi dei miliziani comunali. E lì essi furono attaccati alle spalle dalla guardia del Conte Polani: sull'incudine costituita dalla barriera acuminata della fanteria veneziana s'abbatté il colpo di maglio della cavalleria. I cavalieri della pronoia bizantini furono in breve tempo distrutti.

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    Giunse proprio in quell'istante, alle spalle della formazione veneziana, la seconda schiera bizantina, composta di poche unità di cavalleria che si affrettarono a portare un disperato soccorso alla compattezza del primo esercito, ormai irrimediabilmente spezzata.

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    Al contrario delle previsioni del Conte, i bizantini erano riusciti ad arrivare sul campo quando ancora infuriava lo scontro contro il primo gruppo, ma il tempo era stato comunque tiranno: erano giunti infatti troppo tardi per salvare i compagni e la giornata.

    La linea della fanteria comunale, ormai disimpegnata dal primo attacco, poté volgersi indietro e schierarsi a protezione del resto dell'esercito, ancora impegnato ad annientare la resistenza dei bizantini e delle loro catapulte.

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    Anche i cavalieri nemici arrivati in soccorso furono fermati dal muro di lance ed ingaggiati in un furioso combattimento scudo a scudo.

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    Dopo breve tempo, la compatta formazione dei miliziani comunali ebbe ragione degli assalitori e li volse in fuga.

    Quando ormai rimaneva ben poco delle forze bizantine, l'intera cavalleria veneziana, servientes e guardia comitale, si riorganizzò ed attaccò il generale nemico Giovanni Arbanteno e la sua unità, che ben presto cadde sotto le lame dei veneziani.

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    Con la morte del loro comandante, la giornata era irrevocabilmente perduta per i bizantini e quel poco che restava delle loro forze si diede alla fuga.

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    Tutte le forze bizantine presenti nei dintorni del castello di Ras furono così spazzate via quel giorno, aprendo la strada all'avanzata delle truppe della Repubblica. Cinque giorni dopo Ras, quasi completamente sguarnita, si arrese, non potendo in alcun modo sostenere anche solo un breve assedio. Il Conte Giovanni Polani prese possesso della fortezza, con grande soddisfazione da parte sua: la decisione di andare incontro al nemico s'era rivelata vincente ed aveva permesso a Venezia di assestare un duro colpo alla Basileia, senza peraltro dover pagare il sanguinoso prezzo di un lungo e difficile assedio.

    La sera del settimo giorno, il Conte Polani scrisse un rapporto da inviare velocemente al Doge, in cui annunciava che il fronte nord-orientale era ora saldamente tenuto da San Marco e dai suoi alleati d'Ungheria, e che si poteva dunque procedere alle audaci operazioni nel Mar Egeo pianificate dalla Corte.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 22/10/2013 23:38]




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    00 24/03/2013 15:40
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    00 07/06/2013 01:41
    Capitolo VII
    Il prezzo degli incensieri




    Nicosia, 12 febbraio 1174.

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    La ragazza ansimava sotto di lui. I mugolii che mandava erano un tutt'uno con le ritmiche spinte dei lombi di lui. E più i gemiti si facevano intensi, più lui serrava il ritmo.

    Fuori dalla finestra, il cielo era pesantemente plumbeo, irrorato della soffusa luce aranciata dei raggi dell'alba. V'era qualcosa di sinistro in quella coperta di nubi, quasi fosse un sudario steso per soffocare il respiro della città.

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    Un uomo in cotta di maglia e veste marchiata dal leone di San Marco bussò alla porta e, senza aspettare risposta, entrò nella stanza. Non si scompose minimamente alla vista dei due affaccendati nel rozzo letto di legno e paglia.

    Con fare famigliare ed un mezzo sorrisetto divertito, disse: «Quando hai finito, capitano, qui ci sono poi i dispacci che aspettavamo. Ed anche la richiesta delle navi dell'Ordine per lasciare Famagusta. L'ufficiale del porto aspetta il tuo nullaosta. Ma fai pure con comodo...».

    Equilio Niccoli, capitano dell'esercito veneziano e governatore pro tempore di Nicosia, eruppe in un ansimante grugnito pieno di soddisfazione. Dopo qualche secondo si staccò dal corpo di lei, i seni che ancora s'abbassavano e s'alzavano per il fiato grosso, e si portò nudo al tavolo dove il suo attendente aveva poggiato i dispacci.

    «Non si può più neanche scopare un attimo in santa pace senza che non arriva una qualche stramaledetta richiesta da quelli dello stramaledetto Ordine! Grazie a Dio se ne vanno!».

    «Sono sicuro che tua moglie è dello stesso parere, Capitano. Ricordi tua moglie, sì? Quella bionda... laggiù a Pola... ad aspettarti...» lo canzonò tutto divertito l'attendente.

    «Hah! Sono quasi due anni che non la vedo e un uomo che sia un uomo non può stare certo due anni lontano da una donna! E poi la mia Elena qui è molto più brava di mia moglie in certe cose...» disse ammiccando alla ragazza nel letto.

    «Lo sai che puoi avere il letto ed il palazzo del vecchio governatore bizantino invece di 'sto tugurio, se solo lo vuoi, vero?».

    Il capitano Equilio era sempre stato un tipo dalle pretese modeste, per quanto a donne e a lotte i suoi appetiti fossero abbastanza voraci. Originario dell'Istria e di umili natali, era stato scudiero fino a quando non si era distinto al servizio del Marchese Enrico Polani. Era stato allora fatto cavaliere. La guerra l'aveva abbastanza favorito, ed ora era lì a governare l'occupazione di Cipro, mentre i nobili e gli altri candidati migliori proseguivano i combattimenti in Attica.

    «Questo tugurio – disse egli – è già molto meglio di casa tua, tanto per cominciare. Ricordi la tua casa, vero? Quella catapecchia... laggiù in Dalmazia... ad aspettarti... E poi io sono un soldato. Tutte quelle sciccherie lasciamole ai bizantini ed ai nostri illustri nobili a Venezia... Bizantini travestiti da veneziani, ecco cosa sono i nostri patrizi! Che ci fanno combattere questa dannata guerra soltanto per rubare i dannatissimi incensieri ai loro simili, i veri bizantini!».

    «Capitano!» esclamò l'attendente un poco allarmato. «Non dovresti dire...».

    «Sì sì, lo so: anche i muri hanno orecchie, eccetera eccetera. Perché laggiù nelle grandi case di Venezia cagano oro e tutti sono pronti e raccoglierlo e a fare le spie per loro, eccetera eccetera...».

    Il silenzio calò un attimo fra i due. La ragazza era ancora nel letto vicino alla parete. Pareva addormentata. Equilio scacciò nervosamente il sospettoso pensiero che ella stessa potesse essere una di quelle spie delle grandi case di Venezia ed avvicinò il calamaio al foglio con finta noncuranza.

    «Li lasci partire, quindi?».

    «Perché, vuoi che restino qui con noi?».

    «No, ma... Sono un terzo degli uomini armati che abbiamo sull'isola...».

    «Un terzo che non è mai stato a nostra disposizione» affermò risoluto Equilio.

    Firmò il foglio del nullaosta per le navi dell'Ordine Marciano e lo ripiegò, dandolo al soldato. «Per più di un anno non ci sono stati di nessun aiuto! Non hanno fatto altro che perquisire tutta Cipro da cima a fondo, portando via libri, pergamene, reliquie, ori e argenti. Ho persino dovuto ordinare che i soldati li lasciassero frugare tra i loro bottini di guerra per vedere se c'era qualcosa che gli garbava a loro!». Scosse la testa. «Non c'è nulla di peggio per un capitano che lasciar portar via ai propri soldati il bottino duramente guadagnato. E noi sempre lì a dirgli di sì e ad accontentarli in tutto: perché così erano gli ordini da Venezia! E ora che finalmente se ne vanno, tu li vuoi fermare!?».

    Fece una pausa, una pausa che, a dispetto delle parole che aveva appena pronunciato, rivelava tutta la sua contrarietà al fatto di privarsi di un terzo dei soldati a sua disposizione.

    «Lo sai, poi, che non li posso trattenere! Da quando il nostro vecchio Doge Vitale ha rinunciato alla carica di Gran Maestro e l'ha lasciata a quell'altro nobile là... Non ricordo mai il nome! Che è pure riuscito a fargli fare quel decreto sull'autonomia dell'Ordine... Insomma, da allora quelli dell'Ordine fanno sempre più quello che vogliono e il Doge giù a lasciarglielo fare. Se gli nego il nullaosta, loro partono lo stesso e poi sta' a vedere che dopo un mese m'arriva la strigliata dal Conte Polani da Atene! Sempre che il Conte non sia morto nel frattempo... Comunque, tanto vale lasciarli partire e non rodersi più il fegato».

    L'attendente annuì. Prima di abbandonare la stanza informò Equilio: «Ah, Capitano! In piazza si sta ammassando un po' troppa gentaglia. Le persone accorrono anche dai quartieri delle mura. Si sta creando un po' troppa maretta, secondo me».

    «Va bene, raduna gli uomini. Andiamo a disperderli». E finalmente prese a vestirsi.

    *


    L'isola di Cipro, estremo dominio sud-orientale rimasto all'Impero Bizantino dai tempi in cui i selgiuchidi avevano invaso il cuore dell'Anatolia, era stata occupata dai veneziani agli inizi dell'anno precedente, il 1173. La seconda grande isola del Mediterraneo orientale, Creta, era stata strappata dalle mani della Basileia poco dopo e da lì la grande squadra navale e terrestre veneziana, che era partita dal castello di Pola successivamente alla presa di Ras, aveva proseguito in direzione della Grecia.

    La spedizione era invero possente: due terzi delle caserme della Repubblica erano state svuotate. E i veneziani avevano colpito là dove il nemico era più vulnerabile. Con la gran parte delle sue forze impegnate nell'area balcanica a contrastare la Serenissima, l'Ungheria ed il Khanato Cumano, il Basileus era stato costretto a sguarnire le coste e le terre più orientali. L'esercito bizantino era ancora poderoso e di gran lunga più numeroso di ognuna delle controparti avversarie. Ma tre nemici da combattere contemporaneamente su di un fronte così ampio potevano facilmente mettere a dura prova persino una forza come quella. E così infatti stavano facendo.

    Venezia aveva dunque attaccato all'estremo est dell'Impero, a Cipro, per poi ritornare verso ovest, a Creta, sbarcare nel Peloponneso, prendendo Malvasia, ed infine invadere l'Attica e la mitica Atene. Era là che ora si combatteva la guerra, con gli eserciti bizantini che finalmente erano stati mobilitati e riportati a sud del fronte balcanico, per affrontare il colpo di lama inferto dalla Repubblica in Grecia.

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    Ma lì sull'isola di Cipro, la modesta guarnigione rimasta di stanza doveva vedersela con un nemico differente: il malcontento. Non passava mese in cui non ci fossero disordini o piccole ribellioni ed in cui qualche sacca di guerriglieri e briganti si formasse nei selvatici dintorni di Nicosia o di Famagusta. La maggior parte dei disordini erano dovuti a fame e povertà: il pane era sempre meno e costava sempre più; tutte le vettovaglie possibili erano confiscate e mandate con le salmerie in Grecia; le tasse per sostenere lo sforzo bellico erano soffocanti non solo per i contadini, ma anche per artigiani, bottegai e signori. Per le strade non era raro udire cose come: "si stava meglio sotto il Basileus che sotto questi famelici leoni".

    Spesso e volentieri, però, quelle piccole rivolte si risolvevano senza provocare danni, e venivano facilmente sedate sotto qualche zoccolo di cavallo e qualche colpo di spada. "Sempre la solita storia" pensava infatti il capitano Equilio Niccoli mentre si avviava in sella alla piazza del mercato, seguito da una ventina di cavalieri e da una compagnia di lancieri pavesi.

    Quando sbucò nella piazza da una delle vie secondarie, s'accorse tuttavia che le cose non stavano effettivamente come aveva immaginato.

    Una grande calca ingombrava tutto il centro ed il lato opposto della piazza. Altra gente non smetteva di accorrere dalle stradine vicine. Gente lacera, affamata, con uno sguardo avido, iracondo e disperato ad un tempo. Al centro di quel marasma umano v'era un piccolo palco che altro non era che un macilento carro cui era stato slegato il bue. Sul carro stava in piedi un uomo esile, il fervore del cui volto però rendeva quasi imponente la sua figura.

    Dalle consunte vesti nere, Equilio capì subito che doveva trattarsi di un prete ortodosso... evidentemente uno di quei pochi che non erano fuggiti o si erano nascosti all'arrivo dell'Ordine Marciano.

    Il mare di gente si muoveva quasi all'unisono con le esclamazioni dell'uomo, il rumoreggiare della folla che ondeggiava ritmico e continuo in sintonia con il vento di parole emesso dal prete in nero. Un fiume di parole greche che teneva fissa l'attenzione del suo variegato e sussultante pubblico, che lo faceva zittire quando quasi si avvicinava al sussurro e lo faceva subito dopo gridare infervorato od acclamare con rabbia quando s'alzava quasi ai limiti di un urlo.

    Quanto gli sarebbe piaciuto capire che cosa diamine stava dicendo quel prete mingherlino... Dannato greco! E dannati interpreti dell'Ordine! Dove diavolo erano per una volta che si aveva bisogno di loro!? Già in alto mare, probabilmente.

    Il prete ortodosso arrivò ad un punto del suo comizio particolarmente infervorato, la faccia paonazza nello sforzo di mantenere un tono grave e forte che potesse arrivare a tutti gli astanti, gli occhi adombrati di un velo quasi mistico di sacro furore. Anche se il capitano Equilio non comprese che poche parole, non gli riuscì difficile immaginare il senso generale di quelle esclamazioni.

    «E i cani veneziani sono venuti dal mare a portarci via tutto. Hanno saccheggiato i nostri villaggi, hanno profanato le nostre case e le nostre mogli e le nostre figlie. Noi siamo stati remissivi, perché la remissione è gradita agli occhi di Dio nostro padre.

    «Ma loro, non contenti, insaziabili nella loro famelica avidità, hanno preteso oro e pane e tasse e il nostro raccolto e i nostri guadagni e di nuovo le nostre mogli e le nostre figlie. Io dico che, giunti a questo punto, la nostra remissione non compiace più Iddio onnipotente! Hanno affamato i nostri corpi, li hanno piegati e martoriati. E volevano anche prenderci le nostre anime immortali! Loro che sono traviati dall'eresia papista, che sono senza Dio, che hanno rigettato la vera via di Cristo nostro signore e che per questo verranno dannati per i secoli dei secoli... loro volevano traviare anche noi con le loro fedi distorte, volevano far dannare anche noi se solo gli avessimo dato retta!

    «La nostra fede è stata più forte, tuttavia. E noi dobbiamo avere fede. Sì, dobbiamo avere fede! In Dio misericordioso. E nel nostro Basileus, suo grande servo. Solo il nostro Basileus, unto dal santo Patriarca a Costantinopoli, ha il diritto di governarci! Poiché egli è giusto. Egli è retto e pio e combatte queste voraci locuste, immonde ed avide, che infestano il nostro mare e la nostra isola. Il nostro grande signore darà loro la morte per tutti i crimini di cui si sono insozzati. Perché i cani veneziani meritano di morire!

    «Viva il Basileus! A morte i veneziani!» concluse, all'apice del climax di invettive, il prete ortodosso. E tutta la folla, ruggente e feroce, rispose: «Viva il Basileus! A morte i veneziani! Viva il Basileus! A morte i veneziani!».

    Il boato delle urla spaventò alcuni dei cavalli, già innervositi, dei veneziani, che si impennarono e lanciarono striduli nitriti nell'aria. Al che, la massa di gente lì adunata, che ancora non aveva prestato attenzione ai soldati giunti alle sue spalle, si girò quasi fosse un unica creatura e si zittì un momento.

    Poi riprese a gridare le proprie invettive, ancora più forte e più decisa di prima: «Viva il Basileus! A morte i veneziani!». Qualcuno in mezzo alla calca prese a lanciare qualche sasso e qualche frutto marcio.

    "Ora basta!" si spazientì il capitano Equilio. «Ora basta!» disse ai suoi, dando voce ai propri pensieri. «Ne ho avuto abbastanza di questo teatrino! Disperdiamo questi zotici!».

    Estrasse la spada e diede di sprone. Gli altri cavalieri fecero lo stesso.

    «Carica!» urlò, spingendo il cavallo al galoppo contro il muro di persone assiepate nella pizza.

    Il piccolo manipolo di cavalieri s'abbatté contro la calca, spade e lance in pugno. Lo spazio ristretto, tuttavia, non permise loro di guadagnare grande slancio e l'impatto riuscì a travolgere solo qualche decina di persone, senza frantumare la compattezza della folla roboante. Equilio sentì il secco schianto di ossa che si rompevano e di toraci che venivano sfondati dagli zoccoli dei cavalli. In un attimo vennero arrestati e circondati da ogni lato. Piovevano pietre e colpi di bastone e zappe, ed anche fendenti di qualche forcone. Qua e là baluginavano sparuti pugnali e daghe.

    I cavalieri furono disarcionati e sopraffatti ed annegarono in quel mare umano che li attorniava da tutti i lati. L'ultima cosa che Equilio sentì fu la sensazione di essere artigliato da centinaia di mani che lo germivano e volevano strappargli via ogni cosa: le vesti, la cotta di maglia, l'elmo, la pelle, gli occhi, gli arti. Poi un grosso sasso gli sfondò il cranio, spargendo le sue cervella sul selciato della piazza.

    Ai lancieri pavesi, lasciati indietro dalla carica dei cavalieri, non rimase altro da fare se non stringersi in formazione per sbarrare il passo alla marea umana che ora, demoniaca e senza più freni, puntava caracollando nella loro direzione. E sperare di resistergli. Ma erano troppo pochi.

    [IMG]http://i43.tinypic.com/n1v6ti.jpg[/IMG]

    *


    In una grigia stanza di pietra, da qualche parte sulle coste del Mediterraneo, il rossore del crepuscolo riempiva l'ambiente di ombre. E dava sanguigna consistenza alle lievi spire di fumo profumato che emanavano dall'incensiere lì vicino. Era uno splendido pezzo di arte orafa bizantina, interamente d'argento e modellato nella forma del mostro mitologico della Chimera. I sentori dell'incenso fuoriscivano in eterei rivoli dalle fauci leonine spalancate e si disperdevano per la sala.

    Nella penombra sedevano due uomini. Tra loro v'era un alto tavolino su cui era poggiata una scacchiera, intagliata in chiaro legno di rovere. Le pedine, un poco tozze, erano scolpite in piccole figure di pietra. Il tavolino era illuminato da un fiotto di luce scarlatta che pioveva dalla piccola bifora nel muro accanto.

    L'uomo che muoveva i bianchi indossava una ricca veste di velluto scuro, mentre colui che muoveva i neri era ammantato in una pesante tunica candida, orlata con fili argentati e con impresso sul petto un marchio particolare: una croce greca rosso sangue con impresso sopra, al centro, il leone alato dell'evangelista.

    «Che magnifico turibolo è quello» commentò distrattamente l'uomo dalla veste di velluto, mentre teneva sollevato uno dei suoi pezzi, indeciso sulla mossa da fare.

    «Un regalo. Da parte di uno sciocco... amico. M'è stato detto che è opera di un mastro orafo che risiede a Tessalonica, assai famoso per la sua bravura».

    «Se questa è la considerazione che nutri per amici che ti fanno regali tanto magnifici, non oso immaginare cosa tu possa pensare di me» rispose l'altro con un mezzo sorriso, gli occhi fissi sulla scacchiera ed il pezzo finalmente posizionato su una delle caselle.

    «Oh, Ruggero, non ti devi preoccupare. Tu non sei affatto uno sciocco. Altrimenti non saresti qui oggi a giocare a scacchi con me...».

    «Mio signore». Un servitore era entrato dall'apertura a sesto acuto priva di porta della sala. «Ci sono giunte notizie: Nicosia si è ribellata. In tutta Cipro si stanno moltiplicando i tumulti».

    «Dunque, è cominciata» si limitò a constatare l'uomo dalle vesti bianche. La sua voce, fredda e al tempo stesso vellutata, era quasi un sussurro.

    «Cosa facciamo ora?» chiese l'altro.

    «Muoviamo le nostre pedine, amico mio». E, preso l'alfiere nero con le lunghe dita, lo posizionò vicino al re bianco. «Scacco».
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 22/10/2013 23:47]




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    00 08/06/2013 01:39
    Bravissimo ottima ed avvincente cronaca [SM=x1140522]
    Mi stai appassionando come nelle campagne di Frederick [SM=g27960]




    "Non condivido la tua idea, ma darei la vita affinché tu la possa esprimere" - Voltaire(?)
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    00 08/06/2013 13:42
    Ti ringrazio. [SM=g27963]

    Devo avvertire che ho modificato alcune date ed alcuni piccoli dettagli (tra tutti, la questione della successione bizantina) nei capitoli IV e VII per adattarli al cambio di corso che ha preso la storia.




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    00 11/06/2013 21:34
    Capitolo VIII
    Sed libera nos a malo




    Verona, 19 agosto 1174.

    [IMG]http://i44.tinypic.com/34gjyih.jpg[/IMG]

    «... per omnia sæcula sæculorum».

    «Amen» risposero in coro i presenti. I pochi astanti di rango più elevato si alzarono dai loro inginocchiatoi di legno, mentre il modesto assembramento di servitori e popolani più in fondo rimase in piedi, com'era costretto a fare per tutta la durata della funzione.

    «Oremus» esortò il sacerdote per poi dare le spalle ai convenuti e rivolgersi con la sua scorrevole litania latina all'altare. Per quanto esso non fosse di certo grande, ricchi ornamenti lo abbellivano, e su tutti spiccava un alto e sottile crocifisso in legno d'ebano intarsiato e fregi d'argento. «Præceptis salutaribus moniti et divina institutione formati, audemus dicere:

    «Pater noster, qui es in cælis, sanctificetur nomen tuum. Adveniat regnum tuum. Fiat voluntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum...».

    Renier Dandolo pregava in silenzio seguendo le parole del sacerdote, un uomo in carne con un volto gioviale, reso però quasi austero dalla tipica tonsura dei monaci. Essendo il Marchese di Verona, gli era riservato l'inginocchiatoio più prossimo al piccolo presbiterio della cappella, dal quale poteva avere una piena visuale dell'altare, illuminato dai fasci di luce che piovevano dalle tre affilate finestre a sesto acuto incise nella parete dell'abside.

    Era la mattina di domenica, il giorno di riposo cristiano, ed il castello di Verona era quieto. Il Marchese ed i suoi cortigiani erano riuniti nella cappella, assieme ai vari servitori, per assistere alla Messa. Il cielo, sebbene ingrigito dalle nuvole, appariva anch'esso tranquillo, il fumo di alcuni comignoli che si protendeva pigramente verso di esso.

    [IMG]http://i40.tinypic.com/2rpvep0.jpg[/IMG]

    Il nobile Renier era uomo di fede: suo padre, il Marchese Enrico Dandolo, scomparso anni prima, come l'aveva educato nel governo e nelle armi, così l'aveva educato anche nella religione. “Ricordati che dovremmo tutti rendere conto a Dio di come abbiamo vissuto. Tutti. E se le nostre mura e le nostre spade possono salvarci dagli uomini, solo lui, solo la nostra fede in lui può salvare le nostre anime. Ricordalo sempre”. Così gli aveva insegnato suo padre.

    Fin da quando era un fanciullo, Renier aveva sempre provato una certa reverenziale soggezione durante la celebrazione della Santa Messa.

    La solenne figura del celebrante ammantata dei paramenti sacri ed inondata dal sole che entra dalle vetrate del presbiterio, riservato a lui solo e a pochi altri. Le mistiche note dei canti gregoriani dei frati che si levano sempre più, seguendo le colonne della chiesa fin su nell'alto dei cieli. La schiena del sacerdote, le braccia spalancate davanti alla croce e l'aria impregnata della sua litania quasi incomprensibile. Le parole di quella strana lingua, ad un tempo così aliena e così familiare, quasi mistica. E poi le mani della figura, ora a capo chino, che si alzano stringendo il pane e mostrandolo a quella croce, immobile, silenziosa, eterna. Mentre tutti sono in ginocchio. Ed il vino. Che riverbera alla luce del sole. Così rosso. Rosso scarlatto. Rosso come il sangue. Il sangue di un dio. Bevuto da un uomo che invoca il suo nome.

    Quel rito, così pregno di simbolismo e così teatrale, aveva sempre esercitato su di lui un grande fascino nei suoi anni di bambino e ragazzo. E sebbene ora egli fosse un uomo fatto e finito, istruito anche nel latino, risoluto nello spirito ed avvezzo alla crudezza delle armi ed ai piaceri terreni della carne, quel particolare senso di riverenza e suggestione non cessava di farsi avvertire ogni domenica, quando la liturgia latina riprendeva a celebrare il Signore degli uomini.

    Renier era un uomo timorato, poteva dirsi. Al contrario di molti poi, non aveva remore nel mostrare la sua fede. Ciò gli era spesso valso ad aumentare la fiducia che i suoi uomini erano naturalmente portati a nutrire in lui, essendo egli una persona affabile e dallo spiccato spirito cameratesco, per quanto a volte potesse rivelarsi anche severo ed inflessibile. Gli uomini lo seguivano non tanto per rispetto o riverenza o timore, quanto più per questo suo singolare magnetismo umano; un legame, questo, che la maggior parte delle volte in cui veniva messo alla prova resisteva assai più degli altri. Era così che la sua gente guardava a lui: come un uomo che, sebbene fosse il loro signore, poteva anche essere loro amico, poiché era forte, buono e giusto. E quel suo lato devoto contribuiva solitamente a rafforzare la sua figura, nonostante in alcune occasioni si fosse dimostrato motivo di scherno da parte di alcuni. Ma a costoro era sempre riuscito a rispondere per le rime, poiché le loro battute non l'avevano mai toccato.

    Tranne nel caso di suo fratello. Non Marino, il secondogenito, ma il minore dei quattro figli di suo padre Enrico. Suo fratello minore. Con quelle sue freddure e battute, sottili, insinuanti, che sempre lo lasciavano a corto di risposte, disarmato. Perché non riusciva mai a comprendere se egli stesse canzonando lui o stesse ironizzando su se stesso. Così come non aveva mai capito davvero se suo fratello credesse o meno in Dio. Probabilmente sì, a suo modo. Forse nutriva più “fede” nei segni terreni della Sua maestà, che nella Sua natura di misericordioso salvatore. Era sempre stato un individuo criptico ed ambiguo, difficile per lui da comprendere appieno.

    In ogni caso, molte delle ironie di suo fratello sarebbero state additate da diverse persone come blasfeme. Il che era a sua volta ironico, visti la posizione che occupava ed il luogo dove loro padre, il Marchese Enrico, l'aveva mandato per essere “rettamente educato”.

    Forse era stato quell'allontanamento che aveva incrinato i loro rapporti fino allo stato attuale. C'era affetto tra di loro – avevano pur sempre lo stesso sangue – e rispetto. Ma il tutto aveva preso un piega anch'essa in qualche modo ambigua, incerta, e sotto covavano le braci mai sopite di fantasmi e torti passati. L'allontanamento di sicuro era stato il principio. E poi c'era anche quell'altra cosa, non poteva certamente negarlo.

    Le parole del sacerdote riscossero Renier Dandolo dalle sue riflessioni, lasciandolo sorpreso di quei suoi pensieri sul fratello, fatti in un momento in cui avrebbe dovuto concentrarsi nella preghiera.

    «... Et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris. Et ne nos inducas in temptationem» lasciò in sospeso il frate officiante.

    Gli astanti presero a rispondere all'unisono: «Sed libera no...».

    Don, don, don, don, don, don...

    Tutti i presenti si zittirono immediatamente, riconoscendo la particolare nota metallica d'urgenza di quella campana.

    Quando ancora la nuova cappella del castello, un poco più grande, ma soprattutto più bella e raffinata della precedente, non era stata costruita, sorgeva una piccola chiesa, assai modesta, che altro non era se non una larga stanza con un crocifisso ed un tavolo di pietra. La vecchia chiesetta era sprovvista di qualsiasi cosa che potesse dirsi campanile. Molti anni prima che Enrico Dandolo e la Serenissima giungessero sotto le mura di Verona, il Marchese d'allora, Ottocaro di Stiria, aveva quindi fatto installare una campana in una delle torri del maschio, cosicché si potessero scandire le ore della giornata, richiamare gli abitanti alla Messa, rimarcare le celebrazioni e, soprattutto, dare l'allarme in caso di pericolo.

    Successivamente, insediatosi nella roccaforte, il nobile Enrico aveva fatto ricostruire ex novo la cappella, provvedendo a che avesse finalmente un proprio piccolo campanile. Aveva però ordinato di lasciare la campana del maschio lì dov'era, affinché la si adibisse unicamente agli allarmi. La nota metallica, un poco isterica, che emetteva era infatti riconoscibile da tutti e facilmente distinguibile da quella tonda e piena propria della nuova campana della cappella.

    Ed erano proprio i rintocchi della campana del fortilizio che si spandevano in quel momento per l'abitato.

    Renier si mosse subito, gli occhi di tutti puntati su di lui. Si genuflesse velocemente davanti al presbiterio, facendosi il segno della croce, e corse fuori. Gli altri lo seguirono frettolosamente, compreso il sacerdote.

    *


    Era stato più semplice del previsto.

    Due settimane prima s'era intrufolato all'interno delle mura del castello, confuso in mezzo ad alcuni contadini che rientravano dai campi. Le guardie non avevano minimamente fatto caso a lui. In fondo notizie da Trento non ne erano ancora giunte allora e la fortezza non era in stato d'allerta.

    Una volta penetrato nel castello, si era quindi trovato con il suo contatto, la persona più banalmente indicata per un possibile tradimento, e forse, proprio per quello, la meno sorvegliata dai veneziani. “Ciò di cui gli uomini meno s'accorgono è ciò che più gli sta davanti agli occhi” gli aveva insegnato la persona che poteva definire come il suo maestro. E tutti quegli anni passati a fare la spia in Italia gliel'avevano confermato.

    Alfredo di Stiria, il suo contatto, era infatti il figlio bastardo del minore dei due fratelli di Ottocaro di Stiria, ultimo Marchese della sua casata. Il padre, poco dopo la morte di sua moglie, la quale aveva sempre preteso che il bastardo, testimonianza dell'infedeltà del proprio marito, rimanesse lontano dalla sua vista, aveva deciso di riconoscerlo e naturalizzarlo, dandogli il proprio nome di famiglia. Nessuno degli eredi del Marchese Ottocaro si era preoccupato della cosa, poiché Alfredo, già venticinquenne, era ben lontano dalle prime posizioni nella linea di successione del casato e la sua eventuale pretesa sarebbe stata viziata in partenza dai suoi natali bastardi.

    Tredici anni prima, però, la mano di Venezia era arrivata fino a Verona ed aveva piantato una spada nel petto degli Stiria e dei loro maggiori rampolli. Così Alfredo s'era ritrovato ad essere uno tra i pochi della famiglia ancora vivi ed un possibile candidato per la successione. Se non fosse stato che s'era anche ritrovato sottomesso ad un nuovo Marchese della stirpe degli invasori: Enrico Dandolo, cui aveva dovuto giurare fedeltà in cambio della vita. Ed i veneziani avevano ben presto smesso di preoccuparsi di lui che, per i suoi natali e per la sua irrilevante influenza, non rappresentava certo una minaccia.

    Negli ultimi tre anni e più, il Bastardo senza Terra – così aveva preso a chiamarlo la gente di Verona – aveva mandato lettere in Germania indirizzate alla Corte imperiale di Ratisbona. Lettere nelle quali implorava con struggimento il Sacro Romano Imperatore di discendere le Alpi, ripristinare la sua autorità nel Veneto e ridare alla casa di Stiria e a lui, che era il – non troppo – legittimo erede, la marca appartenentegli per diritto dinastico. In cambio gli avrebbe giurato eterna fedeltà e l'avrebbe servito in ogni suo ordine quale leale vassallo.

    Nessuna di quelle lettere era mai arrivata agli occhi del Barbarossa, ma qualcuna era giunta in possesso del Duca di Baviera. E quando erano arrivati a Salisburgo gli ordini dell'Imperatore di procedere all'invasione del Veneto per acquisire una stabile testa di ponte in vista di una futura campagna in Italia, il Duca s'era ricordato di Alfredo di Stiria ed aveva inviato a Verona la sua spia migliore, un astuto italiano che da anni era al soldo dell'Impero, per sfruttare quella “risorsa” in attesa, già posizionata al di là delle mura.

    “Povero sciocco” pensò la spia con un moto di scherno, mentre osservava Alfredo, piegato con i suoi tre miserevoli accoliti sul grande argano di legno, darsi da fare per sollevare la seconda, pesante grata di ferro del cancello settentrionale di Verona. Chissà dove gli aveva trovati quegli sgherri, il bastardo... Si erano rivelati molto utili comunque, doveva ammetterlo: far fuori le quattro sentinelle dell'ingresso e tirar su le due grevi inferiate che serravano la porta sarebbe stato un compito decisamente arduo per lui solo, altrimenti. “Vedrai come ti ricompenserà il Duca. Se credi davvero che ti darà questo castello, non hai propria la minima idea di quello che ti aspe...”.

    Don, don, don, don, don, don...

    “Dannazione! L'allarme!” s'agitò la spia. «Sbrigatevi voi!» disse al Bastardo senza Terra e ai suoi tre uomini, che si erano nel frattempo immobilizzati all'udire gli urgenti rintocchi della campana.

    «Ehi! Vieni tu a sollevare questa grata del cazzo se ci tieni tanto! Cristo, quanto pesa!» grugnì uno degli sgherri.

    «Muovetevi!» inveì lui in tutta risposta, per poi precipitarsi alla feritoia che guardava all'esterno del cancello, situata proprio sopra l'arco di roccia dell'ingresso. Da lì vide che già alcuni cavalieri e diversi fanti con l'aquila imperiale impressa sul petto delle armature stavano raggiungendo il cancello violato, mentre il grosso del corpo di spedizione non era lontano e già stava lasciando la macchia boschiva in cui era rimasto nascosto. Un torrente di giallo e nero e grigio che avanzava impetuoso verso le mura di Verona.

    “Bene. Con un po' di fortuna dovremmo farcela” pensò la spia.

    *


    Il Marchese Renier Dandolo attraversò le porte della cappella ed uscì nella piazza che sorgeva sull'altura dov'erano posizionati il fortilizio ed il suo unico ingresso. Suo cognato Riccardo Natale, marito di sua sorella Maria, lo raggiunse tutto trafelato, seguito da un attendente e da una mezza dozzina di soldati con le spade già sguainate.

    «Soldati germanici» lo informò sinteticamente. «Attaccano il cancello settentrionale. Qualcuno gli ha aperto le grate. Qualche spia, di certo».

    L'espressione vagamente smarrita dipinta sul volto del suo nobile cognato era l'ennesima conferma – conferma di cui in effetti Renier non aveva per niente bisogno – del fatto che egli non era versato nella tattica. Per non parlare poi della strategia. Riccardo Natale, un uomo prestante e dallo spiccato senso del dovere, era un ottimo combattente, dotato di un impeto istintivo e quasi ferale nella lotta; ma quando si trattava di ragionare ed approntare una linea d'azione, che fosse sul campo o sulle mappe, non era affatto a proprio agio. Preferiva di gran lunga che gli venisse detto che cosa fare.

    «Non faremo mai in tempo a correre per fermarli al cancello e a tentare di riconquistarlo. Perderemmo decine di uomini inutilmente...» prese a ragionare a voce alta Renier. «Li fermeremo qui sotto, nella via che porta alla piazza. Saranno costretti a passare di lì, se vogliono raggiungere il dongione. Lo spazio ristretto ed in salita ci aiuterà a fermarli» concluse. «Raduna tutti gli uomini, Riccardo. Crea uno sbarramento nella via. Lancieri davanti, arcieri dietro disposti a scaloni, così che possano sfruttare la pendenza per il tiro».

    «Vado!» si precipitò l'altro, lieto di avere ordini chiari da eseguire.

    Per parte sua, Renier corse al mastio del castello, accompagnato dagli armigeri: doveva assolutamente vedere com'era la situazione coi propri occhi. All'interno del fortilizio raccolse con sé alcuni dei suoi comites, il suo scudiero e tutti i soldati che riuscì a trovare. Quando giunse agli spalti più alti, si portava ormai appresso una ventina di armati. S'affacciò a scrutare il cancello settentrionale.

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    Il grosso della colonna imperiale era quasi giunto presso la porta, mentre già alcuni contingenti di fanti e cavalieri scomparivano di corsa sotto l'arco.

    “Com'è possibile che siano già qua!?” si chiese. “Abbiamo ricevuto la notizia dello scoppio della guerra e della caduta di Trento soltanto una settimana fa. Devono aver lasciato una buona parte delle loro forze – forse metà – laggiù a pacificare il castello, mentre questa avanguardia si spingeva fin quaggiù...”.

    L'aquila nera del Sacro Romano Impero campeggiava sugli stendardi dell'armata nemica, sventolando irata e minacciosa al di sopra di tutti quegli elmi germanici.

    “Devo chiudere quelle grate!” si risolse Renier. «Con me!» ordinò ai suoi.

    Gli sembrò di correre per miglia. Il frastuono che i suoi soldati producevano con le loro armature echeggiava per i corridoi di pietra.

    Percorrendo passaggi celati alla vista, giunsero infine all'ingresso del corpo di guardia costruito sopra il cancello. La porta che vi immetteva era sbarrata e davanti vi era un piccolo drappello di armigeri imperiali, che quasi furono sorpresi nel vedersi piombare addosso dei nemici. Ingaggiarono il combattimento e in pochi minuti ebbero ragione degli avversari, i cui corpi caddero riversi sul pavimento e sul sangue.

    Presero ad abbattere la spessa porta di legno a spallate. Dall'altro lato di essa, Alfredo di Stiria ed i suoi sgherri tentavano di puntellarla in tutti i modi. La spia – non sapevano bene come avesse fatto – li aveva abbandonati, con l'ammonimento di mantenere a tutti i costi quella porta chiusa: ne andava delle loro vite e del successo dell'attacco.

    Il Marchese Renier, tuttavia, conosceva bene il suo castello e s'era premunito di raccogliere nel mastio alcune grosse asce da boscaiolo ed alcune travi di legno di medie dimensioni. Ordinò di tirare fuori le accette e di usarle contro la porta. Dopo poco l'uscio cedette.

    Renier fu il primo ad entrare. In un impeto di furore calò poderosamente la spada contro l'uomo che gli si era parato davanti. Con quel solo colpo, gli recise la mano alzata che stringeva la daga e gli separò il collo dalla spalla destra, facendo arrivare la lama fin nel mezzo della cassa toracica, protetta da nient'altro che una povera stola, la quale s'imbevé di sangue e ben presto non riuscì a contenerne i fiotti.

    Gli altri, atterriti dalla sua furia e male armati com'erano, si arresero immediatamente, implorando pietà. Furono presi, legati e gettati in un anglo. Tra quei tre Renier riconobbe il Bastardo senza Terra.

    «Tu» constatò con una lama di odio nella voce. «Dunque questa è opera tua. Avrei dovuto dire a mio padre di impiccarti come tutti gli altri, anni fa!».

    «No, mio signore! Pietà, ti scongiuro! È stata la spia a dirci di fare questo... noi non sapevamo... Ti prego, è stata la spia!».

    «Taci, verme!» esclamò spazientito, rifilandogli un pestone nel ventre e rivolgendosi poi alle cose più urgenti.

    Assestando un violento calcio, tolse uno dei due grossi coni di legno posti sul pavimento per fermare l'argano ed impedirgli di ruotare, abbassando così l'inferriata che reggeva. I suoi comites lo imitarono e i due argani presero a girare vorticosamente.

    Con uno stridio metallico agghiacciante, una dopo l'altra le due saracinesche di ferro del cancello piombarono velocissime incontro al terreno. I rostri acuminati che spuntavano dal lato inferiore trafissero la carne dei soldati germanici che vi stavano passando sotto, ignari. Il peso di quelle reti di metallo era tale che le armature e le ossa dei malcapitati si frantumarono, le loro carni furono spappolate ed alcuni corpi vennero persino tranciati a metà. Nulla poté arrestare la corsa di tutto quel ferro fintantoché non si congiunse al terreno con due cavernosi tonfi.

    Le strazianti urla di coloro che erano rimasti schiacciati attraversarono il pavimento di pietra dell'arco e giunsero sino alle orecchie del Marchese e dei suoi uomini, indaffarati nel corpo di guardia che si trovava esattamente sopra.

    «Direi che il cancello ora è chiuso» disse sogghignando uno dei cavalieri veneziani.

    «Presto!» esortò Renier Dandolo, non badandogli. «Tu!» ordinò. «Corri da mio cognato e digli di quanto è successo qua. Digli di risalire con le truppe la strada fino al cancello e distruggere i germani che sono intrappolati tra lui e l'ingresso». Non poteva certo affidarsi all'intuito tattico ed allo spirito di iniziativa di suo cognato Riccardo in un momento delicato come quello. I suoi primi ordini erano di mantenere la posizione e lui sarebbe rimasto asserragliato là fino al Giorno del Giudizio, se qualcuno non gli avesse comandato altrimenti. «Vai!». Il soldato si dileguò.

    «Voi! Tirate su la porta e puntellatela con le assi» ordinò agli altri. «Non devono entrare qui dentro. Non devono riaprire il cancello. Dobbiamo resistere ad ogni costo!» disse, mentre le balestre imbracciate da due dei suoi armigeri, che s'erano messi a tirare dalle feritoie, emettevano il loro letale sibilo.

    *


    Gli uomini erano posizionati. Un assembramento di casacche bordeaux e oro ingombrava la via lastricata che scalava la piccola altura e dava accesso alla piazza e all'ingresso del dongione. Nello spazio ridotto, i lancieri pavesi avevano formato un muro di scudi e lance per sbarrare il passaggio là dove l'incrocio con un altra strada segnava l'inizio del pendio. Immediatamente dietro erano schierati i lancieri italici, i cui scudi tondi erano meno adatti a formare uno sbarramento compatto. Ancora più indietro, vi erano infine le unità di sagittari, posizionate a scaloni lungo la via in pendenza, cosicché il tiro di ciascuna compagine non fosse ostacolato dalle altre.

    “Bene. È una posizione difficile da scalzare. Moriranno come mosche assaltandoci qui” rifletté compiaciuto Riccardo Natale, mentre i suoi sergenti sbraitavano gli ultimi rabbiosi ordini ai pochi che ancora non erano in formazione.

    «Quei fottuti crucchi hanno solo da provarci a venir fin qua!» si galvanizzò uno di loro.

    «E tu lascia che vengano. Ho proprio voglia di menar le mani stamattina... Ma non ditelo al prete, ché sennò ci fa una predica che non finisce più!» esclamò Riccardo, suscitando l'ilarità dei suoi. Il sangue già cominciava a ribollirgli di quel ferale eccitamento che lo prendeva ad ogni combattimento. Fuori dalle lotte e dalle mischie non era un uomo violento né particolarmente bellicoso o attaccabrighe, e di solito non cercava immediatamente lo scontro; ma quando era la battaglia a venirgli incontro, non si tirava certo indietro e là veniva alla luce il suo lato più istintivo e letale. Il che, quasi sempre, lo portava a fare scempio del nemico.

    Per questo la gente lo definiva un gran combattente, e gli uomini erano sempre felici di averlo dal proprio lato nel momento cruciale. Vedere il proprio comandante gettarsi nella mischia con sprezzo del pericolo, abbattendo avversari di qua e dilaniandone altri di là, era sempre un toccasana per il morale della truppa.

    L'attesa del nobile Riccardo Natale non dovette comunque durare a lungo. «Signore, arrivano!» fu informato. Estrasse la spada e si portò nelle prime file, vicino ai lancieri pavesi, facendo cenno ai sergenti di dare i comandi ai sagittari.

    «Incoccate» sbraitarono.

    «Mirate».

    «Scagliate».

    E gli arcieri scoccarono. Un nugolo di frecce si parò davanti alla vista dei lancieri lotaringi imperiali che per primi stavano sciamando per la via.

    [IMG]http://i44.tinypic.com/2crvkzq.jpg[/IMG]

    I muri e l'argine scosceso dell'altura che delimitavano la via li costringevano ad avanzare più lentamente ed assiepati in colonna. I dardi si abbatterono su quella massa marciante di lance, scudi, elmi, volti e mani e vi aprirono grossi varchi, trapassando le armature ed infilzando le carni degli uomini.

    Se c'era una cosa che ogni arciere sapeva, era che non esisteva freccia più efficace di quella lanciata dall'alto su un mucchio compatto. E i veneziani avevano costretto gli assalitori germanici proprio in quella mortifera situazione: i soldati imperiali non potevano far altro che continuare ad avanzare il più velocemente possibile per tentare di ingaggiare il nemico in un furioso corpo a corpo.

    La densità del loro assembramento, tuttavia, era tale che ad ogni raffica di dardi, l'intera compagine pareva barcollare ed arrestarsi sotto la tagliente grandinata, per poi riprendere frastornata la corsa. I lancieri pavesi erano ancora in attesa che qualcuno dei nemici arrivasse alla loro linea di difesa.

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    Cosa che gli imperiali riuscirono finalmente a fare poco dopo, gli uomini titubanti delle prime linee sospinti in avanti dalla pressione di quelli che stavano più indietro.

    I lancieri lotaringi erano fanti pesanti ben disciplinati, protetti da un'armatura a scaglie e da un elmo di tipo spangenhelm, armati con un ampio scudo a goccia ed una robusta lancia; venivano reclutati nel cuore germanico del Sacro Romano Impero e solitamente componevano il nerbo dei suoi eserciti. Furono loro a caricare per primi la linea dei lancieri pavesi.

    La mischia avveniva scudo contro scudo, lancia contro lancia. Il sangue imbrattava pelle e metallo, le acuminate punte che cercavano di trafiggere il bersaglio, fosse esso un braccio, un volto, una gamba od un torace. Sebbene i fanti germanici fossero meglio e più pesantemente armati, i lancieri pavesi erano però avvantaggiati dalla posizione, chiusi nella loro formazione a muraglia, e cominciarono in breve ad avere la meglio. Tanto più che spesso gli spintoni dei propri compagni che accorrevano alle loro spalle finivano per sbattere i soldati germanici sbilanciati in prima fila direttamente contro le lance pavesi, risparmiando ai veneziani la fatica di infilzarli di propria mano.

    Riccardo Natale combatteva furiosamente. Attorno a lui giacevano tre cadaveri, ed in un attimo un quarto se ne aggiunse, con la testa mozzata da un poderoso fendente della sua lama. Stava riempiendo di calci e colpi di spada lo scudo di un lanciere che s'era accasciato a terra, riparandosi sotto di esso, quando due fragorosi tonfi, originati da qualcosa di metallico estremamente pesante che scontrava il terreno, e preceduti da un lacerante stridio, eruppero nell'aria, sovrastando la cacofonia del combattimento.

    “Sembravano le grate...” si disse. «Continuate a combattere!» sbraitò agli uomini vicini che si erano distratti, presi alla sprovvista da quel cavernoso rumore che era giunto dal fondo della via, in direzione del cancello settentrionale.

    Sebbene ancora non lo sapesse, il lungo serpente di uomini e cavalli nemici che si stava scavando la strada nel castello, attraverso il varco della porta violata, era stato decapitato. La colonna germanica, la quale continuava ad attraversare il cancello nord per riversarsi oltre le mura e nella strada dove i veneziani sbarravano il passo con lance, scudi e frecce, era stata tagliata in due tronconi dalle saracinesche che il Marchese Renier e i suoi erano riusciti finalmente ad abbassare. All'incirca un terzo delle forze imperiali si trovavano ora intrappolate tra lo schieramento veneziano nella via e la porta nord richiusa, mentre gli altri due terzi, privi di scale ed equipaggiamento d'assedio, sarebbero stati costretti a rimanere all'esterno delle mura, tagliati fuori dal combattimento, fintantoché le grate non fossero state rialzate.

    Riccardo Natale continuò a combattere e ad incitare i suoi a fare altrettanto. Attacco dopo attacco, i soldati imperiali si riversarono contro il muro di scudi dei lancieri pavesi, senza mai riuscire ad infrangerlo. A decine cadevano falcidiati dalle raffiche di dardi scoccati dai sagittari, per i quali, vista la posizione sopraelevata e la calca dei nemici, era difficile mancare il bersaglio.

    Le forze imperiali cominciavano a perdersi d'animo ed un certo malcelato panico cominciò a serpeggiare tra i soldati germanici e crebbe man mano che la notizia che erano intrappolati tra il cancello chiuso e la formazione veneziana correva verso le prime file impegnate nel corpo a corpo.

    Un armigero dall'aria trafelata e dal volto accaldato si fece strada tra i lancieri italici rossi e oro, cercando di raggiungere il nobile Riccardo. Era l'uomo che aveva mandato Renier. Quando vi riuscì, lo informò della presa del corpo di guardia e gli riferì gli ordini del Marchese suo cognato.

    «Sono in trappola!» urlò Riccardo ai suo, trionfante. «Distruggiamoli! Uomini, avanzare in formazione».

    Lentamente, con il ritmico tonfo di centinaia di piedi che si spostano all'unisono, il muro di lancieri pavesi prese a muoversi e a guadagnare terreno, coperto dal fitto tiro degli arcieri. I nemici presero ad arretrare, ma coloro che non lo facevano o non potevano farlo venivano schiacciati e trafitti dalla compatta formazione veneziana in avanzata.

    *


    Renier Dandolo osservò i suoi uomini mentre liberavano l'entrata del corpo di guardia dalle grosse schegge di legno ancora incardinate e dagli altri rimasugli rimasti attaccati alle borchie di ferro: tutto quello che rimaneva della massiccia porta di quercia. Li osservò anche quando sgomberarono il pavimento dai cadaveri di amici e nemici, trascinando i corpi sul pavimento viscido di interiora, cervella, sangue e altri fluidi corporei, per ammucchiarli ai lati della stanza e dividerli dai feriti. La soffocante aria di quell'ambiente chiuso era pregna dell'odore della morte e nauseabonda.

    Il Marchese Renier e la ventina di armati che erano con lui avevano tenuto il corpo di guardia a tutti i costi. Si erano trincerati là dentro, bloccando la porta, già in precedenza divelta, con le assi ed i puntelli che si erano portati dietro, e con tutto quello che erano riusciti a trovare. Sino alla fine dei combattimenti all'interno delle mura di Verona, non avevano fatto altro che resistere ad un nemico che tentava in tutti modi di fare irruzione all'interno della stanza degli argani: era infatti vitale per i soldati imperiali riaprire le saracinesche del cancello, così da sbloccare la trappola che si era creata e permettere al grosso del loro esercito, chiuso fuori dai bastioni, di riversarsi all'interno del castello.

    Dapprima avevano provato ad abbattere la porta con calci e spallate. Poi erano passati ad utilizzare qualsiasi ferro avessero sottomano per disfare il legno della porta: spade, lance, daghe ed asce. Quando le prime brecce s'erano aperte nelle assi di quercia dell'uscio, Renier e i suoi non avrebbero saputo dire quante mani e teste e corpi si stavano adoperando dall'altro lato contro quell'ingresso, ma avevano comunque preso a tirare di balestra e fendere di spada e di lancia tutta la carne che arrivava a portata dei fori.

    Ben presto, intere sezioni della porta erano state disfatte dalla furia con cui gli imperiali vi si erano accaniti contro. L'ingresso, ingombro di assi sbrecciate, travi spezzate e corpi dilaniati le cui armature grondavano di rosso, era ostruito di soldati che tentavano di irrompere nella stanza ed accoppare con la forza bruta i difensori. I veneziani avevano usato ogni mezzo per fermarli. Era stata una lotta ferale, sia gli uni che gli altri presi da una frenesia primordiale di violenza e morte, nella quale per tutti il prezzo della sconfitta era la vita.

    Erano andati avanti per quelle che a Ranier erano parse giornate intere. Assuefatti alla carneficina che riecheggiava amplificata dalle spesse ed anguste pareti di solida pietra, macchiate di sangue, gli arti ed i sensi avevano preso a ricercare la morte dell'uomo che si parava loro di fronte senza che alcun comando cosciente gli fosse dato.

    Quando finalmente l'avanzata della formazione agli ordini di Riccardo Natale era arrivata al cancello, lasciandosi dietro solo prigionieri o morti, e quando finalmente aveva preso possesso degli ingressi a fianco dell'arco del cancello, alla base dei bastioni, i soccorsi erano arrivati. Le compagnie di sagittari avevano invaso gli spalti delle mura per prendere a tirare contro la parte dell'esercito imperiale rimasta tagliata fuori, la quale già si era rassegnata a ritirarsi, non avendo i mezzi per prendere d'assalto le mura. Un nutrito manipolo di fanti veneziani, con in testa lo stesso Riccardo, aveva ucciso o catturato gli ultimi germanici che si assiepavano presso quell'uscio senza più porta maledetto da Dio. E infine avevano trovato il Marchese e cinque dei suoi comites, gli unici sopravvissuti, marci di sudore ed ansimanti in mezzo ad una claustrofobica e soffocante distesa di pietra, carne, ferro e sangue.

    «Abbiamo vinto!» urlò trionfante Riccardo all'indirizzo di Renier, la spada con la lama tinta di rosso ancora in pugno.

    Egli, riscossosi dalla catatonia che l'aveva preso per un momento, non gli rispose né gli badò. «Nelle segrete» si limitò ad ordinare, indicando con un gesto eloquente il bastardo Alfredo e i due sgherri, tremanti e pallidi come dei cenci, ancora tutti e tre legati e fermi nell'angolo dove li avevano inizialmente gettati. L'indomani li avrebbe costretti a dirgli tutto ciò che sapevano, anche per mezzo della tortura se necessario, e poi li avrebbe fatti impiccare come meritavano.

    Lasciò il corpo di guardia lentamente, in silenzio, seguito dal suo scudiero, il quale per tutto il tempo dei combattimenti era stato al suo fianco. Percorse la via dove aveva avuto luogo il grosso dello scontro con il solo intento di giungere al mastio, entrare nei suoi alloggi e lavarsi tutto quel sangue via di dosso.

    Il cielo livido, tumefatto come molti dei cadaveri lì attorno, aveva infine permesso alla pioggia di cadere. Piangeva, forse.

    Era vero: avevano vinto. E la vittoria era stata conquistata unicamente grazie alle azioni sue e del suo drappello di guerrieri, loro che avevano così valorosamente ripreso e tenuto il corpo di guardia del cancello.

    Ma Ranier non era per niente in vena di festeggiamenti. Al momento era a corto di qualsiasi tipo di energia o rimasuglio di umanità per avere la forza di gioire. Quella non era certo la prima battaglia o il primo massacro che vedeva e a cui aveva preso parte, s'intende. Tuttavia la giornata e la demoniaca violenza del combattimento nell'ambiente angusto del corpo di guardia l'avevano svuotato, prosciugandogli l'animo.

    Percorrendo a passi lenti e cauti la via lastricata di ardesia e sangue, osservò i corpi che giacevano tutt'attorno, qua e là, e la pioggia lieve che li toccava insistentemente ed impercettibilmente.

    [IMG]http://i39.tinypic.com/2wmqlgm.jpg[/IMG]

    Gli venne stranamente in mente la Messa della mattina, improvvisamente disturbata, e quel Pater noster incompiuto. Quel Pater noster che avevano interrotto proprio all'ultimo verso, a metà dell'invocazione a Dio misericordioso perché avesse pietà di loro e li liberasse dagli orrori del mondo.

    In mezzo a quella desolazione, come un bisogno che quasi affiorava dall'anima, gli venne spontaneo concluderlo. «Sed libera nos a malo» disse in un sussurro.

    «Amen» concordò lo scudiero accanto a lui.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 21:16]




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    Capitolo IX
    Uno sciocco amico




    Isola di Lesbo, 8 settembre 1174.

    [IMG]http://i39.tinypic.com/rtgtp0.jpg[/IMG]

    Niceforo Paleologo fu il primo a giungere là dove la spiaggia incontrava il sottobosco di arbusti ed aghi secchi all'ombra della piccola macchia di pini marittimi. Smontò da cavallo, mentre il suo seguito frugava i dintorni ed allestiva una modesto padiglione sotto cui vennero disposti un tavolo malfermo e due sedie da campo. I cavalli furono legati ai tronchi dei pini e lasciati a brucare quel poco di erba che riuscirono a trovare. La mezza dozzina di armati bizantini prese a montare la guardia qua e là in un raggio di poche decine di metri.

    «Ci sono tracce di pattuglie da Mitilene?» s'accertò Niceforo.

    «Nessuna, signore» gli rispose uno dei suoi armigeri. «Saranno tutti belli rintanati dietro le mura per paura di attacchi della flotta nemica».

    Il Paleologo assentì pensieroso col capo.

    Il cielo di quel sereno pomeriggio era di un azzurro intenso macchiato da grosse e soffici nuvole completamente bianche che si spandevano, pigramente stiracchiate dalla brezza, per leghe intere. L'aria era intensamente tiepida, di quel tepore tipico del Mar Egeo, venato dalla frescura della brezza, dall'acre sentore della salsedine e da quello penetrante dei pini marittimi. Il clima mite sembrava quasi esprimere la sua serena malinconia per l'estate ormai prossima a finire.

    Il lento sciabordio del mare faceva da sottofondo al frinire delle cicale che si levava tenue dagli arbusti. Dalla spiaggia dov'erano, i bizantini potevano spaziare con lo sguardo verso sud per un vasto tratto di mare e di orizzonte, limitato unicamente ad ovest dal rilievo fatto di scogli e rocce di un basso promontorio, poco distante dal quale, già addentro alla tenue insenatura della lunga spiaggia, stava placidamente ancorato il dromone con cui erano giunti.

    I due servitori coprirono con un telo purpureo la sedia da campo del loro signore, così come si addiceva al suo rango. Lo stesso fecero con l'altro sedile ed il tavolo, per ricevere degnamente l'ospite che attendevano e per impressionarlo: anche in un luogo sperduto ed in una situazione come quella avrebbero dimostrato la raffinatezza del mondo cui appartenevano. Niceforo, un uomo di trentun'anni, alto, affilato, la chioma bionda diradata dall'incipiente calvizie, era l'erede della antica e potente casata dei Paleologi, nonché secondo in linea di successione al trono della Basileia. Figlio primogenito di Costantino Paleologo e della sorella maggiore del Basileus morente, Elena Comnena, egli era quindi il primo dei nipoti in linea femminile dell'Imperatore suo zio, Andronico.

    La fortuna aveva in parte favorito i Paleologi negli accadimenti recenti. Manuele I, negli ultimi anni di vita, s'era dimostrato particolarmente malleabile alle manovre delle grandi famiglie romee, gravato com'era dalla senilità. Alla sua morte, gli era succeduto il secondogenito, il maggiore dei suoi due figli maschi e l'unico dei due ancora vivo, Andronico Comneno, il quale però si era gravemente ammalato di tifo poco dopo esser salito al trono. Nel frattempo la guerra con Venezia era già scoppiata e, a sorpresa di tutti, i veneziani si erano rivelati particolarmente aggressivi: in breve tempo Durazzo era stata attaccata ed espugnata in un bagno di sangue bizantino. A guidare i difensori della città conquistata era stato Giovanni Comneno, Synbasileus ed unico figlio dell'Imperatore Andronico, caduto anch'egli sotto i colpi delle lame veneziane. La notizia della morte del figlio aveva provocato in lui un grande dolore, il quale, assieme al morbo, l'aveva consumato e, in pochi mesi, ne aveva abbattuto le forze residue. Da allora, le condizioni vitali di Andronico Comneno erano sciamate in un lento declino verso la fine, segnato da fuggevoli giornate di lucidità della mente. Ormai la morte era prossima.

    Malauguratamente, il fratello minore già defunto del Basileus aveva avuto un figlio, Alessio Comneno, il quale poteva vantare più diritti al trono di Niceforo, poiché, sebbene fosse anche lui nipote del Basileus, lo era però in linea maschile ed era l'ultimo della discendenza diretta a portare il nome dei Comneni. Per questo, subito dopo la morte del figlio Giovanni, l'Imperatore Andronico aveva nominato Alessio suo legittimo erede e Synbasileus bizantino.

    Ed ecco che, man mano che Andronico Comneno s'avvicinava alla morte, la lotta sotterranea per accaparrarsi il trono era esplosa. Il Synbasileus Alessio aveva cominciato a governare già de facto, di fronte al progressivo aggravarsi delle condizioni dello zio. Ma i grandi nobili rimanevano insoddisfatti ed inquieti, aperti ad un possibile cambio di dinastia, ma diffidenti, indecisi: la guerra stava prosciugando le energie dell'intera Basileia; veneziani, magiari e cumani imperversavano ai fronti settentrionali; i selgiuchidi musulmani minacciavano l'oriente; e per finire la Repubblica aveva colpito il cuore dell'Impero, strappandogli diversi territori. Il popolo, così come l'aristocrazia, era preoccupato e profondamente insoddisfatto.

    Gli Angelo-Ducas, l'altra principale casata romea, potevano anch'essi vantare pretese al trono, sebbene più blande, con Andronico Angelo-Ducas, la cui nonna, Teodora Comnena, era stata la sorella del vecchio Basileus Manuele I. Tuttavia gli Angelo-Ducas sembravano aver rinunciato a far valere il loro candidato e ancora non avevano deciso con chi schierarsi per sostenerne la pretesa: se con il Synbasileus Alessio o con Niceforo Paleologo. Con tutta probabilità erano in attesa di capire da che parte spirasse il giusto vento, così da allearsi con chi ne sarebbe uscito vincitore e riuscire a guadagnare vantaggi per sé il più possibile.

    Gli Angelo-Ducas rappresentavano un'incognita di una certa rilevanza, Niceforo non poteva negarlo. Tuttavia, con l'aiuto dell'ospite che stava attendendo in quel luogo così insolito per un incontro, il giovane Paleologo sarebbe riuscito a far pendere la bilancia dalla sua parte. Ne era certo.

    *


    Arrivarono dopo poco meno di tre ore, dal lato orientale della spiaggia, spuntando dietro la macchia silvestre in lontananza. Il sole si stava già abbassando nel cielo, avanzando lentamente incontro all'orizzonte.

    Niceforo osservò la nuvola di polvere che le loro cavalcature al trotto sollevavano, infrangendo l'omogenea e levigata superficie della rena. Al di sopra del polverone, poteva scorgere lo svolazzare, lieve ma continuo, di vesti bianche. Erano sei uomini in tutto, riuscì a distinguere.

    Quando il drappello giunse vicino al piccolo accampamento, i sei smontarono, legando anch'essi i cavalli ai pini marittimi, e li raggiunsero. L'uomo in testa al gruppo aveva il capo scoperto ed era ammantato di un mantello dal lungo strascico, bianco come gli abiti che indossava sotto. Su tutte le vesti di quegli uomini era impressa una croce greca rosso sangue con al centro il leone dorato di San Marco.

    Il capo del candido drappello, dalle sembianze nobiliari, non appariva armato e non portava elmo né cotta di maglia. Le bianche sopravvesti degli altri cinque non celavano invece l'armatura che vi stava sotto né i foderi delle lunghe spade appese al fianco. Uno di loro sembrava essere lo scudiero o l'attendente dell'uomo alla testa del gruppo.

    Niceforo guardò un attimo il suo di attendente, per assicurarsi che avesse ancora il piccolo cofanetto ligneo che continuava a tenere stretto, con aria protettiva, sotto il braccio.

    «Spero che tu non abbia dovuto attendere molto, mio signore» si scusò con fare non curante il nobile in bianco, rivolgendosi al Paleologo in un greco fluente. Di sicuro non c'era la minima traccia di contrizione nell'espressione del suo volto. Tutt'altro.

    «Siamo giunti da poco anche noi, Gran Maestro» mentì Niceforo, intenzionato a non dare di certo all'altro la soddisfazione di averli fatti attendere.

    Giovanni Dandolo, Gran Maestro dell'Ordine Marciano, gli angoli della bocca piegati in un lieve sorriso, accolse le parole del Paleologo con quella ambigua espressione tipica di lui, la quale sempre dava l'impressione che ciò che aveva appena udito fosse per lui della massima importanza e ad un tempo non contasse assolutamente nulla, che ciò fosse per lui la più fulgida delle verità e ad un tempo la più evidente delle menzogne. Per quella sua espressione, Niceforo non aveva mai faticato ad immaginarselo perfettamente a proprio agio nella infida e opulenta Corte bizantina.

    Il Gran Maestro aveva ventinove anni; la sua figura, non particolarmente alta, appariva però slanciata e forte, in uno strano miscuglio di finezza e vigore. Folti riccioli castani gli affollavano il capo, tagliati molto corti sulle tempie e lasciati più lunghi sulla sommità. Enigmatici occhi verdi, increspati da venature color del rame, scrutavano il mondo, penetrando la superficie di ogni cosa, e sovrastavano il naso regolare e gli zigomi pronunciati. La dura mascella, leggermente allungata, era ricoperta da un ampio pizzetto, tenuto corto, alla stessa lunghezza dei baffi che gli ricoprivano il labbro superiore; il resto del volto era invece rasato. Il tutto gli dava un aspetto elegante e, a suo modo, fiero.

    Il nobile Enrico Dandolo, Marchese di Verona e Consigliere della Repubblica, ormai morto da cinque anni, aveva avuto quattro figli. Renier, il primogenito e maggiore dei maschi, erede del casato e del feudo; Maria, la figlia secondogenita, di un'intelligenza pari alla propria bellezza, la quale aveva sposato Riccardo della nobile famiglia veneta dei Natale, per consolidare il Marchesato da poco acquisito; Marino, il terzo e l'erede attuale di Renier, la cui sposa era Bianca dell'antica casa veneziana dei Falier; e Giovanni, il minore. Se per i suoi primi tre figli il Marchese Enrico s'era dimostrato un padre severo, ma anche affettuoso, orgoglioso in particolare del primogenito ed erede Renier, il suo rapporto con il minore invece era sempre stato più freddo.

    Venendo alla luce, Giovanni aveva infatti causato la morte della madre, la quale non era sopravvissuta al parto. Sebbene non lo avesse mai esplicitamente detto, Enrico Dandolo, che amava grandemente sua moglie, in cuor suo aveva addossato la colpa al figlio, prendendo a nutrire un celato risentimento nei suoi confronti. Al risentimento s'era poi aggiunto il disprezzo derivato da alcuni incresciosi episodi dell'adolescenza del ragazzo, e ciò l'aveva convinto ad allontanare il figlio minore. A diciassette anni, Giovanni era sta mandato a Venezia, sull'isola di Rialto, presso il quartier generale dell'Ordine Marciano, affinché prendesse l'ordine di obbedienza e vi entrasse quale membro laico, venendo là educato.

    La qual cosa si era rivelata, contro ogni iniziale aspettativa, la sua fortuna.

    Grazie alla sua acuta intelligenza, Giovanni aveva ampliato enormemente la sua cultura, imparando a parlare e scrivere fluentemente in latino, francese e, soprattutto, in greco; aveva appreso le basi e le sfumature del diritto, così anche quelle della retorica, della grammatica e della teologia. Essendo un aristocratico, era stato istruito inoltre nell'arte militare, nella strategia come nella tattica, nelle cose della politica e del denaro, ed in tutte le faccende della gestione dell'Ordine. La sua grande ambizione, poi, unita ad una mente che difficilmente si lasciava imbrigliare dagli schemi, gli aveva permesso con gli anni di scalare velocemente la gerarchia marciana.

    Aveva ventiquattro anni ed era Cavaliere Generale dell'Ordine, quando era riuscito, con un notevole esercizio di mascherata persuasione, a convincere il Doge, di cui era divenuto fido consigliere, a rinunciare alla carica di Gran Maestro. Il Doge Vitale II Morosini-Michiel era stato infatti sempre più preso ed oberato dalle questioni dello Stato. Poi era venuta la guerra, che l'aveva affaticato nell'animo come nelle forze, una guerra difficile e sanguinosa da condurre, la quale aveva travalicato le previsioni iniziali e aveva preso a consumare molte più risorse umane ed economiche di quanto si fosse pensato. Il fatto poi che non si prospettasse una fine prossima del conflitto acuiva la tensione in tutta la Repubblica, ed in special modo nel Consiglio, contro le lagnanze e gli intrighi politici del quale Vitale II era costretto quotidianamente a scontrarsi. Egli era un uomo mite, poco incline alla collera, diligente, riflessivo e niente affatto stolto, addirittura lungimirante, talvolta; ma era anche un uomo inadatto alla guerra. E questo Giovanni Dandolo l'aveva capito perfettamente.

    Nel 1169, il Doge aveva rinunciato alla sua carica di capo dell'Ordine e l'aveva rimessa al Capitolo Generale, che aveva quindi eletto Giovanni Dandolo secondo Gran Maestro nella breve storia dell'organizzazione monastica, facendo di lui uno degli uomini più potenti della Repubblica. Sotto la sua guida, l'Ordine era cresciuto velocemente in potere e ricchezza, aumentando il numero delle sue terre, delle abbazie e la forza del proprio braccio armato. Aveva incamerato beni, donazioni, diritti e, non ultime, tutte le ricchezze che aveva confiscato nei territori bizantini occupati. Tanti libri, pergamene e manoscritti erano confluiti nelle sue mani, che le biblioteche della sedi marciane abbondavano della cultura secolare di mezzo Mediterraneo.

    Nonostante fossero ormai passati cinque anni, ancora si raccontava talvolta di come, un po' stranamente, il Marchese Enrico Dandolo fosse morto poco dopo. C'era chi diceva che era spirato poiché consumato dal rancore verso quel figlio, praticamente esiliato, cui la Provvidenza aveva permesso di tornare così prepotentemente e beffardamente alla ribalta. Chi invece parlava di normali malanni dovuti alla vecchiaia. Chi ancora raccontava sottovoce di un calice avvelenato o di un sicario mandato dal figlio minore stesso, mosso da spirito vendicativo.

    In ogni caso, due anni più tardi, allo scoppio della guerra, sempre a seguito dell'infaticabile opera di persuasione delle parole sussurrategli dal suo fido consigliere, il Doge Vitale aveva emanato un decreto col quale accordava diverse libertà e prerogative all'Ordine Marciano, tra le altre slegando il suo braccio militare ed il relativo comando dall'esercito statale. Ciò gli era stato prospettato come la soluzione più opportuna affinché, visto l'incombere della guerra con l'Impero Bizantino, l'Ordine potesse muoversi al meglio per contribuire alla vittoria di Venezia.

    Ma nelle intenzioni di chi aveva ideato il progetto e convinto il Doge a farlo avverare, la nuova autonomia dell'Ordine aveva uno scopo diverso. Una volta divenuto Gran Maestro, Giovanni Dandolo aveva potuto dire conclusa la partita per la scalata all'Ordine. E aveva potuto darne inizio ad un'altra.

    «Prego, siedi» lo invitò Niceforo Paleologo, facendo cenno alla sedia da campo drappeggiata. Il Gran Maestro dell'Ordine Marciano rappresentava, nei piani di Niceforo, la chiave per riuscire a strappare il trono romeo al Synbasileus Alessio e per accaparrarselo. Tuttavia, quell'uomo non mencava di metterlo in soggezione, spingendolo spesso a tentare, come in una sorta di inconscia compensazione, di impressionarlo con manifestazioni di ricchezza o potere, una delle quali era stata regalargli uno splendido incensiere in puro argento, cesellato nella guisa di una Chimera. Ma se era stato impressionato, nulla era mai trapelato dal volto del Dandolo. In ogni caso, Niceforo era certo di esser ormai riuscito a legarlo alla sua causa.

    «Grazie» disse Giovanni Dandolo, con cortesia ma senza alcun calore. S'accomodò. «La tua ospitalità è sempre grande, persino in un luogo come questo».

    «Una brutta tenda e due sedie non fanno di me un grande ospite» si schermì il Paleologo.

    «Ma una sola grande sedia nel posto giusto farebbe di te un Basileus, dico bene?». Il Gran Maestro sorrise insinuante.

    «Vero» disse cauto Niceforo. V'era qualcosa in quel sorriso che non lo faceva sentire a proprio agio.

    «Hai portato la mappa, mio signore?» chiese il Gran Maestro.

    «Sì, eccola». L'attendente bizantino pose sul tavolo il piccolo e lungo scrigno che aveva vegliato fino a quel momento.

    «Sei certo che sia l'unica copia esistente?».

    «Assolutamente» rispose con convinzione Niceforo, mentre apriva il cofanetto ligneo.

    «Bene» approvò sottovoce Giovanni Dandolo, guardando l'altro che distendeva la pergamena sul tavolo. Su quella preziosa carta, l'unica riproduzione di un antica mappa risalente ai tempi dell'Imperatore Giustiniano ed aggiornata nel corso dei secoli da mani coscienziose, si basava il loro piano.

    *


    Finirono che il sole era ormai immerso per metà nella linea marina dell'orizzonte, per una parte nascosto alla vista dal piccolo promontorio occidentale alla fine della lunga insenatura. Il dromone bizantino, sempre fermo all'ancora, galleggiava placido sui flutti scarlatti alla stregua di un pigro uccello marino.

    «Bene. Direi che abbiamo terminato, qui». Niceforo Paleologo s'alzò dalla sedia, imitato dal suo ospite, ed arrotolò con cautela la delicata pergamena della mappa, riponendola nello scrigno. «Sono splendidi i tramonti del nostro mare, non è vero?» chiese, girando lo sguardo verso il sole rosso.

    Il Gran Maestro si astenne dal fargli notare che metà del “loro mare” era al momento sotto il controllo di Venezia. «Invero» convenne.

    Niceforo stava per voltarsi verso di lui, per aggiungere un altro ameno commento, quando qualcosa attirò il suo sguardo.

    La nera figura in controluce di un galea sottile, lunga e slanciata, era comparsa da dietro il piccolo promontorio e s'era avvicinata al dromone bizantino.

    L'imbarcazione era tipica della flotta veneziana: un affusolato scafo, basso sulla superficie marina, lungo circa una cinquantina di metri e largo cinque, senza quasi alcunché a proteggere l'equipaggio dall'aria aperta se non un modestissimo castello di poppa e la stiva. I venticinque banchi di rematori che si stendevano in lunghezza erano praticamente l'unica cosa che occupava il ponte, eccetto per gli spazi necessari agli armati e alle baliste. Per quanto la brezza che spirava non fosse certo sostenuta, la nave, viaggiando controvento, non montava l'albero di cui poteva disporre e s'affidava alla sola forza dei remi. Ma anche così filava velocemente sulla linea del mare, tagliando rapida i flutti. Era grazie alla velocità e alla manovrabilità di quelle “lame del mare” – come avevano prese a chiamarle i marinai bizantini – che la flotta della Serenissima era andata imponendosi, in quei quattro anni e più di guerra, su quella bizantina.

    Giovanni Dandolo seguì lo sguardo del suo compare romeo e, notata la galea veneziana, disse pacatamente, come se l'aspettasse: «Giusto in tempo».

    “Dev'essere la sua nave...” fece appena in tempo a pensare Niceforo, lo sguardo fisso sul mare, quand'ecco che dalla galea sottile partì una fitta selva di linee scarlatte contro il profilo ben più tozzo e alto del dromone.

    “Frecce incendiarie!”. Niceforo era basito e allarmato. Due linee rossastre e fiammeggianti, più grosse e pronunciate della miriade di quelle di prima, si allontanarono anch'esse velocissime verso la nave bizantina allorché le due grandi baliste prodiere della galea veneziana scagliarono i loro dardi incendiati.

    “Dannazione! Sono venuti da occidente. I nostri con il sole in faccia e con loro così bassi sul mare non devono essersi accorti di nulla. Ma se quella nave è sua, allora...” concluse tra sé con il panico che aumentava. Si voltò di scatto, sbraitando con tono incerto: «Gran Maestro, che cosa significa tutto que...».

    Gocce di sangue gli schizzarono il volto.

    Vide il suo attendente, lì appresso, stramazzare al suolo con le mani che si stringevano la gola nel vano tentativo di richiudere il rosso squarcio dal quale, assieme al sangue, gli fuoriusciva la vita. Dietro, in piedi, stava il Gran Maestro Giovanni, una sottile daga insanguinata stretta nella mano destra, mentre la sinistra teneva il cofanetto della preziosa mappa. Sul suo volto era dipinta l'espressione del gatto che tiene tra gli artigli il topo.

    Diversi dardi sibilarono nell'aria, scoccati dalle balestre di un gruppo di armigeri nascosto all'ombra dei pini marittimi. I corpi dei bizantini caddero sulla sabbia, che bevve avidamente il sangue sparso. Gli ultimi due soldati romei ancora in piedi furono uccisi dalle spade dei cavalieri dell'Ordine che accompagnavano il Gran Maestro. L'intero, fulmineo massacro era durato meno di dieci secondi.

    Niceforo Paleologo, tremante, tentò di arretrare da dove si trovava. Incespicò nella sedia da campo e cadde a terra, riverso sulla schiena. Lo scudiero del Dandolo gli pose un piede sul petto, trattenendolo al suolo, e gli punto la spada alla gola. «Ti arrendi?» chiese in tono ironico.

    I balestrieri dell'Ordine uscirono dai propri nascondigli e li raggiunsero, mentre Giovanni Dandolo scrutava il mare. Non una goccia di sudore gli imperlava il volto, nessun tremito lo scuoteva né il respiro rilassato dava la minima impressione che avesse appena sgozzato un uomo.

    La parte centrale del dromone aveva preso fuoco. L'incendio s'era avviluppato all'albero, alle sartie ed alla vela ammainata; più in basso, implacabile, avanzava lentamente, accingendosi a divorare sia la prua che la poppa dell'imbarcazione bizantina, fino a quel momento ancora illese. La galea veneziana, frattanto, i remi che si muovevano rapidi e all'unisono, stava effettuando una ampia curva che, oltrepassata la poppa bizantina, l'avrebbe portata fianco a fianco alla murata del dromone, alla portata del tiro dei balestrieri veneziani. Gli arcieri continuavano, dal canto loro, a lanciare frecce incendiarie contro la nave nemica, dalla quale, sempre più numerose, piccole figure nere si gettavano in mare, alcune avvolte dalle fiamme.

    «Prendete tutto: tavolo, sedie, tenda e drappi. Bruciateli e gettateli poi in acqua» ordinò il Gran Maestro.

    «E i loro cavalli, mio signore?».

    «Li portiamo con noi».

    Prese a camminare sulla sabbia per raggiungere le cavalcature. Gli armigeri dell'Ordine fecero bruscamente alzare Niceforo Paleologo, il quale ancora stentava a capacitarsi di essere vivo, per legargli le mani.

    «Tu mi hai tradito!» trovò la forza di gridare al candido strascico svolazzante del Gran Maestro, che s'allontanava dandogli la schiena. Una risata di scherno scosse Giovanni Dandolo, senza che egli arrestasse il cammino o si girasse. Gli arrivarono però le sue parole: «Credevi davvero che mi sarei lasciato coinvolgere nel tuo ingenuo e sconclusionato piano? Sciocco amico mio...». Il tono era quasi compassionevole.

    «Bastardo! – urlò Niceforo con la forza della disperazione – Che ne farai di me!?».

    La bianca figura allora si fermò, voltandosi lentamente. Gli imperscrutabili occhi verdi e rame che lo trafiggevano da parte a parte, le labbra chiuse in una smorfia indecifrabile. Brividi corsero lungo la schiena del Paleologo.

    «Non so, ancora non ho deciso» si limitò a dire Giovanni, lentamente, come se stesse emettendo una sentenza ineluttabile per pronunciare la quale ci si poteva prendere tutto il tempo necessario. Voltatosi nuovamente, riprese a camminare, celando un ghigno di soddisfazione.

    Sapeva esattamente che cosa ne avrebbe fatto di lui.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 21:24]




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