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Medieval Total War Italia

I mari della Serenissima

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    Danilo.92
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    00 24/06/2013 14:38
    Cerbero, l'intricatissimo intrigo alla corte bizantina, l'hai inventato, è successo nel gioco (se sì, come hai fatto a scoprirlo?) oppure è un fatto storico?
    Non ti rinnovo i complimenti perché non vorrei rischiare di farti montare la testa [SM=g27964] (ovviamente scherzo [SM=g27960] )




    "Non condivido la tua idea, ma darei la vita affinché tu la possa esprimere" - Voltaire(?)
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    Lord Spif
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    00 24/06/2013 17:45
    giuro che se smetti di scrivere e non termini questa aar ti troverò e ti chiuderò in una catacomba fino al completamento del raccontoXD
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    Danilo.92
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    00 25/06/2013 01:19
    Re:
    Lord Spif, 24/06/2013 17:45:

    giuro che se smetti di scrivere e non termini questa aar ti troverò e ti chiuderò in una catacomba fino al completamento del raccontoXD



    Quoto in pieno e mi propongo come aguzzino [SM=g27980]






    "Non condivido la tua idea, ma darei la vita affinché tu la possa esprimere" - Voltaire(?)
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    ~ Cerbero ~
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    00 25/06/2013 17:20
    Re:
    Danilo.92, 24/06/2013 14:38:

    Non ti rinnovo i complimenti perché non vorrei rischiare di farti montare la testa [SM=g27964] (ovviamente scherzo [SM=g27960] )


    [SM=x1140430], ma me la sono già montata! xD Tutta colpa di George Martin e delle sue Cronache, ché con tutti quegli intrighi e quei massacri mi stanno influenzando! [SM=g27962]


    Danilo.92, 24/06/2013 14:38:

    Cerbero, l'intricatissimo intrigo alla corte bizantina, l'hai inventato, è successo nel gioco (se sì, come hai fatto a scoprirlo?) oppure è un fatto storico?


    Dunque... Ne so pochissimo di storia romea - quasi nulla, a dire il vero -, ma da quello che ho superficialmente letto ci fu parecchia maretta in quegli anni e l'ultimo dei Comneni (1183-1185) a regnare su Bisanzio (tralasciando poi l'Impero di Trebisonda) fu Andronico I, che spodestò con le armi il fratello Alessio II. Quindi, se vuoi, di storico c'è che più o meno in quel periodo la dinastia era in crisi, che un Alessio Comneno è esistito davvero e che lotte (anche armate) per il trono ci furono.

    Il resto è quasi pura invenzione, diciamo che cerco sempre di ricamare sugli spunti e sulle occasioni che mi dà la campagna, magari in accordo a qualche vero episodio o tendenza storici. Nel gioco, durante la guerra ho in effetti ucciso il Synbasileus Giovanni a Durazzo. E poco dopo ho ucciso il Basileus Andronico e anche l'ultimo Comneno che rimaneva, Alessio. Il turno dopo mi è stato annunciato dal messaggio che la dinastia regnante bizantina s'era estinta e che un sovrintendete era stato scelto per regnare. Guardo ed era il Basileus Niceforo Paleologo! [SM=g27964] Da lì m'è venuta l'idea, che si accordava perfettamente all'idea generale della trama che avevo più o meno in testa, e sono tornato al save prima che uccidessi l'ultimo Comneno.

    La genealogia bizantina, però, me la sono abbastanza inventata. Anche perché ho incominciato una campagna con i romei giusto per accedere al loro albero genealogico e vedere un po' se potevo restargli fedele, ma era talmente intricato che c'ho rinunciato quasi subito! xD


    Lord Spif, 24/06/2013 17:45:

    giuro che se smetti di scrivere e non termini questa aar ti troverò e ti chiuderò in una catacomba fino al completamento del raccontoXD


    Pietà, vi prego! xD (Mmm... catacombe... potrebbe essere un'idea da inserire nell'AAR... xD).

    Chiedo venia, ma tra esami universitari ed incombenze varie sto andando parecchio a rilento, a giocare come a scrivere. Spero comunque di riuscire a postare al più presto.




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    Francesco Forel
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    00 25/06/2013 18:07
    Re:
    ~ Cerbero ~, 12/03/2013 19:48:





    I flutti che la circondavano da ogni lato riflettevano i raggi del sole pomeridiano e conferivano all'intera, marmorea città una strana luminescenza, innaturale, quasi sinistra, ma al tempo stesso rasserenante.




    Come direbbe Corto Maltese: Quando, Venexia mia, sora i tetti de le tue case, una gloria de sol xe sparpagnada, lassime dir, se il paragon te piase, che ti me par una bela tosa spensierada....

    Complimenti.


    [Modificato da Francesco Forel 25/06/2013 18:08]
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    Danilo.92
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    00 26/06/2013 13:07
    Grazie per avermi tolto questo dubbio [SM=g27963] dunque oltre a saper scrivere hai anche un'ottima fantasia! Stai iniziando a farmi paura [SM=g27964]




    "Non condivido la tua idea, ma darei la vita affinché tu la possa esprimere" - Voltaire(?)
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    Lord Spif
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    00 13/07/2013 02:55
    Sono in piena astinenza preso Danilo prepara le lame perche ora a cerbero se non continua lo scortichiamo vivo [SM=x1140442]
    [SM=g27964]
    [Modificato da Lord Spif 13/07/2013 02:56]
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    ~ Cerbero ~
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    00 13/07/2013 15:55
    Eccomi, eccomi! Mi salvo in estremo! [SM=g27975]



    Francesco Forel, 25/06/2013 18:07:


    Come direbbe Corto Maltese: Quando, Venexia mia, sora i tetti de le tue case, una gloria de sol xe sparpagnada, lassime dir, se il paragon te piase, che ti me par una bela tosa spensierada....

    Complimenti.


    [SM=x1140430]
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 13/07/2013 16:13]




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    ~ Cerbero ~
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    00 13/07/2013 16:12
    Capitolo X
    La notte è oscura




    Strada per Tessalonica, 11 settembre 1174.

    [IMG]http://i42.tinypic.com/52c0uw.jpg[/IMG]

    Era calata la sera. L'alone rossastro che il sole ormai tramontato aveva lasciato dietro di sé, ultima sanguigna traccia di un giorno già morto, era ancora visibile sopra lo scuro profilo occidentale delle alture intorno. Nel campo bizantino prendevano sempre più numerose ad accendersi le luci, l'allegro fuoco delle torce e dei falò che scoppiettava amichevole nel crepuscolo che si infittiva.

    Il Synbasileus Alessio Comneno scostò il pesante tendaggio che ricopriva l'uscio del suo padiglione da campo ed uscì all'esterno. Respirò a pieni polmoni l'aria fresca della sera. Non badò alle quattro guardie scelte schierate a fianco dell'ingresso, che si erano irrigidite sull'attenti alla sua comparsa.

    Guardò un attimo il cielo. Sebbene non minacciasse pioggia, le nubi si spandevano in ogni direzione, lasciando al cielo soprastante pochi varchi da cui fare capolino, quasi che il pesante velo steso sulla terra fosse vecchio e lacero, cosparso qua e là da piccoli e stiracchiati squarci. Il nero dell'oscurità tingeva lentamente le nuvole, i cui profili ancora rilucevano di flebili riflessi scarlatti. “Sarà una notte senza luna né stelle. Una notte buia” constatò tra sé.

    Prese a camminare tra le tende dell'accampamento, facendo visita ai soldati radunati attorno ai fuochi e scambiando con loro alcune parole. Il morale era alto e vino, canti, aneddoti e storielle stavano prendendo ad animare il campo. I soldati erano sempre parsi apprezzare che il loro comandante, nonché erede al trono, si comportasse come un loro camerata, scambiando battute e sedendo un attimo davanti al falò, senza disdegnare la compagnia della soldataglia, al contrario di quel che facevano molti dei nobili bizantini, sprezzanti e altezzosi. Perciò essi non mostrarono remore nel rivolgere la parola con fare amichevole al Synbasileus.

    Dal canto suo, Alessio era sempre stato a suo agio tra i propri uomini. Lo spirito cameratesco che si instaurava nell'esercito era il suo elemento: fin da quando era un fanciullo il padre lo aveva portato con sé nelle campagne militari perché potesse – come era solito dire – “respirare l'aria della guerra e diventare un vero uomo”. E quando aveva raggiunto i quindici anni e suo padre era morto, egli era passato sotto la tutela dello zio Andronico Comneno, che ora era il Basileus, infermo e morente, e del cugino Giovanni, caduto per difendere Durazzo dai veneziani.

    Non a caso anch'egli era un Comneno ed i Comneni erano sempre stati una stirpe di generali e combattenti, durante i regni dei quali mai né loro né i loro eserciti erano stati in ozio. Di solito i Comneni l'ozio, decadente e raffinato, lo lasciavano agli altri grandi aristocratici romei. Ciò li aveva resi duri e forti, ammirati dal popolo, stimati ed ubbiditi dalla chiesa e, soprattutto, temuti dai nobili. Li aveva però anche resi refrattari alle manovre di palazzo e vulnerabili alle insidie politiche ed alle trame dei maggiorenti della corte di Bisanzio. Quella guerra ne era un esempio: dopo l'incendio di Galata, Manuele I, allorché le sue forze e la sua lucidità stavano venendo meno, era stato indotto dai suoi nobili consiglieri e burocrati ad arrestare più di diecimila cittadini veneziani, a confiscarne i beni per migliaia di bisanti e a infrangere i monopoli e gli accordi commerciali con l'antica alleata. Ben pochi di loro s'aspettavano che Venezia potesse rappresentare un grosso problema, privata della linfa vitale dei suoi traffici in Oriente. Ed invece la Repubblica era scesa in guerra ed il conflitto, sanguinoso e sfiancante, era ancora in bilico, lungi da una conclusione. La guerra non era stata combattuta sui territori veneziani, ma su quelli bizantini; non erano state le case, i villaggi e le città dei veneziani a bruciare, ma quelli dei bizantini; non erano state le terre veneziane ad essere invase, ma quelle bizantine.

    Quella era una guerra che l'Impero non avrebbe mai dovuto permettersi di combattere, ma i burocrati laggiù, dietro le maestose mura di Costantinopoli, al sicuro nei palazzi della corte, non l'avevano capito. Presi dai loro giochi e forti dell'influenza che avevano acquisito sull'Imperatore Manuele, essi avevano aizzato un leone che, sebbene erano riusciti anche a ferire, non erano stati in grado di uccidere o domare. E gli artigli e le fauci di quel leone avevano fatto sanguinare ben di più l'aquila romea.

    Se fosse dipeso da lui, si sarebbero fatti tutti i tentativi possibili per far cessare il conflitto: stava diventando impellente che tutte le risorse che venivano profuse contro Venezia, venissero invece dirottate sul fronte bulgaro e su quello anatolico. La Repubblica, sebbene si fosse dimostrata un avversario davvero temibile e coriaceo, non minacciava l'esistenza stessa della Basileia. I turchi musulmani e i barbari cumani invece sì. Ma era altrettanto importante che la corte venisse indotta in quella direzione e che i territori invasi dai veneziani fossero liberati e recuperati. Due ostacoli non di poco conto affatto. A cui s'aggiungeva, tra l'altro, l'ostacolo dell'enorme ed acrimonioso astio che la guida di Venezia, il Doge Vitale II, aveva preso a nutrire nei confronti dei bizantini dopo gli eventi di Galata. Si diceva che egli non perdesse occasione per additare iracondo al tradimento di Bisanzio e che, all'epoca, avesse giurato di farne scontare il prezzo a Costantinopoli in un mare di sangue romeo.

    Era per quelle ragioni che Alessio si trovava in quel luogo, percorrendo la lunga strada di Tracia in direzione di Tessalonica e poi della capitale. Sotto la sua guida l'esercito bizantino aveva dapprima arrestato le incursioni avversarie provenienti dalla Serbia e dall'Epiro, e successivamente, alle porte di Corinto, aveva sbaragliato l'armata del Conte Giovanni Polani, che contava il grosso delle forze veneziane che avevano invaso la Grecia. Era stata una grande vittoria, specie perché era la prima vera sconfitta di grande importanza inflitta alla Repubblica dall'inizio della guerra, e perché ad essere sconfitto era stato il Conte Giovanni Polani, la cui nomea di abile comandante era andata crescendo di pari passo con i suoi successi militari contro Durazzo, Ras e Malvasia. Con ciò che rimaneva dell'esercito veneziano messo in fuga, Atene era ora stretta d'assedio dalla corposa armata che Alessio aveva lasciato in Attica, la quale – secondo ciò che si prevedeva – avrebbe avuto velocemente ragione dei difensori, espugnando la città, ed avrebbe poi proseguito a sud, riprendendo il Peloponneso e la roccaforte di Malvasia.

    Lui, nel frattempo, stava ritornando alla capitale, forte del suo trionfo militare, per assistere lo zio morente e tentare di imporsi su quell'intrico di infide serpi che era l'aristocrazia di corte.

    *


    L'uomo si mosse quando la notte era già invecchiata e la luna non era che una supposizione dietro lo spesso manto nuvoloso che ne soffocava la flebile luce. Soltanto l'alone tremolante e rossastro di alcune torce permetteva a tratti di intuire i profili delle cose, immobili sul suolo. Il silenzio era denso quasi quanto le nubi in cielo.

    Le sentinelle di guardia – non molte, per la verità – erano lontane a montare la ronda ai confini del campo, mentre il resto dei soldati dormiva nelle tende o giaceva ubriaco e sfinito nei pressi dei falò consumati, luminescenti lividi di braci sulla buia pelle della terra.

    Quella rilassatezza quasi priva di alcun tipo di precauzione non lo sorprese. Com'erano sciocchi gli uomini! Sempre, dopo una vittoria, li prendeva un ingenuo ed inconscio senso di sicurezza, un senso di invincibilità che li rendeva, proprio all'apice del trionfo, di gran lunga più vulnerabili di quanto non fossero in mezzo al letale infuriare del combattimento.

    Il padiglione del Synbasileus era una delle poche tende dietro alle quali riluceva ancora la flebile luce di una lampada ad olio. L'uomo si accostò allo spesso tendaggio senza fare il minimo rumore. Rimase immobile per alcuni minuti, fintantoché non si fu accertato che il sommesso, regolare respiro che poteva a stento udirsi attraverso il telo era rivelatore di un occupante addormentato. Fece mezzo giro attorno alla tenda per constatare che gli armati a guardia del padiglione fossero effettivamente fuori gioco. Chi riverso per terra, chi seduto su un rozzo sgabello od appoggiato ad un barile, i quattro erano profondamente storditi dal vino drogato che, ore prima, travestito da camerata, gli aveva portato per festeggiare la vittoria di Corinto.

    Ritornò sui suoi passi, costeggiando la grande tenda, di nuovo lontano dall'ingresso. Nel punto che, all'incerta luce proveniente dall'interno, gli parve agevole e nascosto, silenzioso aprì lentamente con il pugnale affilato uno squarcio abbastanza grande da consentirgli di intrufolarsi. Entrò.

    Alessio Comneno sedeva ad un piccolo tavolo ingombro di pergamene e mappe, il braccio destro abbandonato sul piano, la testa reclinata sulla spalla. Il piccolo lume della lampada ad olio gli illuminava a stento i contorni del volto; la bocca e le palpebre erano chiuse, il petto si alzava ed abbassava con placida regolarità. Pareva addormentato. Il resto del padiglione era immerso nel buio, a mala pena si riusciva a scorgere la raffinata branda da campo, che in molti avrebbero considerato ben più di un semplice letto. L'aria lì dentro era immobile.

    L'uomo si avvicinò a passi lenti, cauti e pazienti, l'acuminato pugnale stretto nella mano. Si prese tutto il tempo necessario per non emettere il minimo suono. Ecco che ora gli era davanti, quasi alla distanza di un respiro. Il petto della sua vittima continuava ad alzarsi e abbassarsi, calmo, inconsapevole, ricoperto della soffice coltre del sonno. Come aveva potuto constatare in quelle settimane in cui si era infiltrato e mescolato all'esercito bizantino, il Synbasileus Alessio era un tipo energico ed instancabile, che si concedeva poche ore di riposo al giorno e, quando lo faceva, godeva di un sonno leggero. Tuttavia i suoi movimenti erano stati talmente silenti che nemmeno il fragile sonno del Comneno era stato intaccato.

    La testa reclinata del romeo addormentato gli lasciava la gola esposta e vulnerabile, la pelle liscia e leggermente chiazzata dalla barba là dove ricopriva il pomo d'Adamo. Un colpo rapido e profondo e il sangue avrebbe invaso la trachea della vittima, impedendogli anche solo di gridare ed annegandolo prima ancora di dissanguarlo.

    “Fin troppo facile” pensò l'uomo. E vibrò il fendente. Il freddo riflesso della lama luccicò letale per un istante nella rossa oscurità.

    *


    Lo attendeva. Lo attendeva da quando aveva osservato quel soldato bizantino portare un otre di vino ai quattro compagni di guardia al padiglione: circa due ore dopo, aveva visto quegli stessi compagni accasciarsi privi di sensi. E allora aveva capito che finalmente avrebbe fatto la sua mossa quella notte. L'aveva visto tagliare col pugnale la spessa stoffa della tenda, all'altro capo del padiglione. Celato in un tutt'uno con l'ombra dell'angolo drappeggiato in cui era appostato, l'aveva visto entrare e muoversi cautamente all'interno. Il sicario non l'aveva scorto. E come avrebbe potuto, d'altronde, con gli occhi che, abituati sino ad un attimo prima al buio esterno, erano stati offuscati dalla luce della lampada?

    Doveva ammettere che era un discreto professionista: i suoi movimenti erano particolarmente silenti e vellutati. Ma i suoi lo erano di più.

    Allorché l'uomo si avvicinò lentamente al Synbasileus addormentato, anche lui si mosse, impercettibile, nient'altro che un ombra in mezzo alle altre ombre che abitavano il padiglione. Il sicario arrivò appresso la sua vittima, e l'ombra, i cui passi ed il cui respiro, già di per sé inudibili, erano in perfetta sincronia con quelli dell'altro, gli tenne dietro.

    L'intruso studiò per un attimo il Synbasileus che dormiva ignaro. Poi levò piano il braccio, stringendo il pugnale. Vibrò il colpo, puntando alla gola del romeo.

    Lo scintillio di due occhi rilucette per un battito di ciglia in mezzo alla buia massa del capo della nera figura che gli stava alle spalle e anch'essa agì. Fulminea, così come prima era stata quasi immobile nei suoi cauti movimenti, con la grande mano sinistra l'ombra fermò il fendente ghermendo la stessa mano dell'altro, mentre con il possente braccio destro cinse in una morsa di ferro la gola del sicario che gli dava la schiena. Gonfiò il bicipite e fece maggior forza per soffocarlo velocemente, ma l'altro era tenace, i muscoli del collo resistenti e tesi nel disperato tentativo di resistere allo strangolamento. Il sicario prese ad agitarsi convulsamente, senza peraltro far rumore, e tentò di liberarsi dalla stretta rifilando alle reni dell'ombra, con il braccio che ancora aveva libero, tutte le gomitate di cui era capace.

    Quando smise di dargli gomitate ed utilizzò quell'unica mano agibile per cercare vanamente di allentare la morsa del braccio nero, l'uomo oscuro constatò che era solo questione di secondi per la sua vittima: il soffocamento era quasi completo.

    Fu allora che il sicario, vicinissimo a perdere conoscenza, fece una mossa che l'ombra non aveva messo in conto, un mossa che un uomo normale avrebbe considerato come spontanea in un frangente come quello, ma che rivelava invece un grande autocontrollo persino nel momento prossimo all'incoscienza e alla morte. Il sicario assestò con tutte le forze che gli rimanevano un calcio alla sedia da campo su cui dormiva il Synbasileus, mandandola all'aria. Alessio Comneno rinvenne di soprassalto, cadendo per terra.

    La mossa non riuscì tuttavia a far perdere la presa all'ombra, che, per quanto colta di sorpresa, era preparata sempre a qualsiasi evenienza. Anzi, sortì l'effetto contrario di sbilanciare lo stesso sicario, facendogli venire meno la forza nell'arto ancora alzato ed immobilizzato con cui brandiva il pugnale. Come nel gioco del braccio di ferro, quando la resistenza dell'avversario si spezza per un attimo e si coglie la vittoria abbattendone in un baleno il braccio sul piano, così l'ombra abbatté la mano che stringeva il pugnale contro il ventre del suo stesso proprietario. Sotto lo sguardo sbigottito di un Alessio riverso per terra, che ancora non comprendeva se stesse o meno sognando, l'ombra guidò con un colpo secco la mano armata del sicario a squarciare il suo stesso addome, da cui fecero capolino le viscere. Lasciò che il corpo finalmente senza vita si afflosciasse a terra.

    «All...» tentò di gridare il Synbasileus, ma subito l'ombra gli fu addosso, imprigionandogli la gola nella sua presa micidiale e premendogli la punta del pugnale sotto la mandibola.

    Nel volto oscurato dell'uomo, ricoperto da un cappuccio, nero come le vesti che indossava, gli unici tratti che risultavano un poco illuminati e riuscivano a distinguersi erano una parte del naso e la bocca, le labbra in qualche modo carnose strette in una linea serrata ed attorniate da una scura barba da poco rasata.

    L'ombra gli avvicinò la testa all'orecchio. «Non lo farei, fossi in te» disse lentamente. La voce era un sussurro basso e pieno, i cui spigoli tuttavia erano come levigati, le asperità del tono come retratte e pronte per essere snudate all'occorrenza.

    «Ora...» continuò, in un greco totalmente privo di alcun accento straniero, ma anche totalmente neutro e scevro del colore di qualsiasi inflessione locale o dialettale. «Tu non griderai né darai l'allarme ed io non ti ucciderò. Quando leverò le mie mani dal tuo collo, ci alzeremo e tu siederai di nuovo su quella sedia. E lascerete che io me ne vada. Se farete un passo falso, qualunque passo falso, io ti ucciderò. E non farai nemmeno in tempo ad accorgertene, te lo assicuro». Silenzio.

    «Siamo d'accordo?» chiese con fare calmo, così come perfettamente calmo sembrava il suo corpo, assolutamente intoccato dallo sforzo di soffocare un uomo.

    Alessio Comneno, malgrado la possente mano che gli serrava la gola e la punta del pugnale che gli sfiorava la guancia, tentò disperatamente di muovere il capo per annuire. La forza del suo aggressore gli rendeva praticamente impossibile provare a scrollarselo di dosso. L'aria gli stava venendo meno ed un panico che non aveva mai provato si stava impadronendo di lui, istintivo e forte quanto prepotente ed inconscio era lo spirito di sopravvivenza di ogni tessuto del suo corpo.

    L'ombra comprese il suo goffo gesto e lentamente allentò la presa, per poi allontanare la mano ed alzarsi.

    Il Comneno giacque a terra ancora per un momento, la bocca spalancata nell'intento di incamerare più aria possibile ed il corpo scosso da piccoli spasmi nel sollievo viscerale dell'ossigeno che tornava ad affluire. Ripresosi, si alzò e si sedette sfiancato sulla sedia, rimettendola a posto. Fitte di dolore gli ghermivano la gola, là dove il pulsante segno rossastro lasciato dallo strangolamento era dipinto sulla pelle del collo.

    L'uomo oscuro s'accorse che vi era inoltre un lieve tremore a scuotere il romeo seduto, il tremore della paura. L'aveva notato spesso: uomini coraggiosi, feroci come belve in battaglia e mai timorosi di fronte al combattimento, così fieri ed invincibili con l'armatura indosso e le armi in pugno ed il sole scintillante su tutto, uomini che, invece, se colti dalle insidie della notte, dalle ombre che sussurrano e strisciano nell'oscurità e ghermiscono nel letto e nelle stanze, quando loro non vestono gli elmi e non sono attorniati dai loro alfieri, quando vengono colti impreparati dai pericoli del buio e dalle incertezze dell'inganno, diventavano bestie spaventate e tremanti, dimentiche del proprio valore e della propria forza. Diventavano così vulnerabili. Bastava semplicemente colpirli nell'oscurità della notte e le loro difese si disfacevano. E non era forse il buio, infatti, il luogo in cui Dio aveva relegato Lucifero, perché solo nelle tenebre potesse muoversi?

    Conosceva un solo uomo che, come lui, non aveva davvero paura del buio. E che forse, però, aveva invece paura della luce.

    Fece per andarsene, pronto come sempre a scattare al minimo segnale di necessità, voltando la schiena al Synbasileus, che lentamente si riprendeva sulla sedia.

    «Chi sei?». La voce flebile di Alessio Comneno gli arrivò da dietro le spalle.

    Si voltò, fissandolo per qualche momento. Dallo sguardo del romeo, che non sapeva dove posarsi né tanto meno se abbassarsi intimorito o rimanere fisso, ma s'aggirava agitato e inquieto sull'area che corrispondeva al suo volto, l'ombra poteva intuire che l'altro non riuscisse a scorgergli gli occhi e buona parte del volto, celati com'erano dal cappuccio. Un sorriso pericoloso gli attraversò il volto per un attimo e vide il Comneno deglutire e contrarsi a disagio sulla sedia.

    «Sei incauto a proferir parola, visti gli avvertimenti che ti ho dato...». Lasciò che la nota minacciosa del suo tono aleggiasse sospesa per un attimo. «E sarei assai incauto io stesso – riprese – se ti dicessi chi sono».

    «Chi era... lui, allora?» disse il Synbasileus volgendo lo sguardo al cadavere del sicario riverso sui tappeti che ricoprivano il terreno, in una pozza di sangue e visceri.

    “Perché nascondergli tutto? Alcune cose può anche conoscerle”. L'ombra sorrise di nuovo, quasi compassionevole. «Costui era Adelmo Fabri, uno dei più... rinomati assassini che girano per i vicoli oscuri di Venezia. Ah, pover'uomo! Mi ripeteva sempre che il momento del trionfo è il momento in cui gli uomini sono più vulnerabili. Ed ecco che, quando già pregustava il trionfo della sua missione, io l'ho ucciso».

    «Lo conoscevi!?» chiese Alessio, sbalordito dal fatto che parlasse in quel modo dell'uomo che aveva appena eviscerato.

    L'altro non rispose, limitandosi a un'espressione a metà tra il noncurante e il divertito.

    «Che cosa voleva da me?».

    «Direi ucciderti, non credi?».

    «Sì certo, ma chi lo mandava?».

    «E chi mai potrebbe mandare un assassino veneziano per uccidere te, che sei il successore di un moribondo e l'unico legittimo erede al trono di tutta la Basileia?» chiese sarcastico l'uomo oscuro. «Il Doge, ovviamente. Sembri più abile come guerriero che accorto come politico, sai?».

    «Il Doge?» sussurrò tra sé il Synbasileus in un tono un poco sorpreso. Fin dall'inizio aveva pensato che il sicario fosse mandato da qualcuno dei grandi nobili bizantini che gli contendevano sempre meno celatamente il trono. Era ovvio che anche il Doge potesse volerlo morto: la sua prematura dipartita, alla luce della situazione generale in cui versava la Basileia, avrebbe innescato una lotta dilaniante per il cambio di dinastia e avrebbe enormemente aiutato Venezia nella guerra. Combattendo però sui campi di battaglia ellenici un nemico che si era mostrato alla luce del sole con cavalieri ed eserciti e non aveva rifuggito lo scontro aperto, non s'era abituato a tenere in conto che quello stesso nemico potesse anche muoversi e colpire nell'ombra. Una lezione che avrebbe sempre dovuto tenere bene in mente da quel momento in avanti.

    Mentre faceva di quei pensieri, la mano che aveva appoggiato sulle pergamene che occupavano il tavolo da campo incontrò l'asperità di una longilinea massa sottostante. Un brivido gli corse lungo la schiena, sebbene tentò di non darlo a vedere. Se ne era completamente scordato, preso da tutto ciò che era successo. La sera, mentre studiava quelle carte, le aveva stese sul piano sopra alla daga che vi aveva appoggiato. La sua daga, che attendeva pronta per essere utilizzata. Doveva trovare il modo di afferrarla e scagliarsi contro quel misterioso e letale sconosciuto.

    «E dunque, chi manda te?» chiese ancora.

    L'ombra rimase in silenzio un attimo, incerta su cosa e se dovesse rispondere. «Un amico...» disse infine, lasciando aleggiare misteri e sottintesi ingombranti come lo stesso padiglione.

    «Chi è questo amico che...».

    «Basta» troncò l'altro la conversazione. «La tua curiosità sta superando i limiti della mia pazienza» disse con una strana pacatezza nella voce che adombrava la freddezza di un'ostilità crescente e minacciosa.

    «Va bene» disse subito Alessio Comneno. «Come farai ad andartene con le mie guardie all'ingresso?» indicò con un vago gesto. In effetti si era domandato perché i suoi uomini non avessero ancora fatto irruzione nella tenda. In ogni caso doveva fare quell'ultimo tentativo per distrarre un attimo l'assassino quel tanto che bastava per afferrare la daga.

    L'altro volse lo sguardo all'indirizzo dell'uscio. Nello stesso istante, più rapido che poté, egli si girò di lato per afferrare con la sinistra – era purtroppo mancino – l'arma che giaceva sotto le pergamene sul tavolino alla sua destra. Afferratala, in un batter d'occhio si rivolse nuovamente all'intruso con sguardo feroce ed i nervi tesissimi e pronti a scattare.

    Ma solo il buio occupava il resto della tenda e il luogo dove un attimo prima stava quella misteriosa figura. Di lei, nessuna traccia. Era scomparsa.

    Alessio Comneno, incredulo, si precipitò fuori dalla tenda, il cuore che era tornato a battergli insistentemente nel petto.

    Quando gli allarmi presero a risuonare per il campo e a svegliarne gli abitanti, l'ombra era già lontana, presso la cavalcatura che aveva lasciato in attesa, nascosta nella macchia che ricopriva uno dei pendii a fianco dell'accampamento. Quando poi i primi drappelli bizantini, alla luce delle torce, presero concitatamente ad uscire dall'assembramento di tende per dare la caccia al misterioso sicario, lui aveva già guadagnato non visto la nera strada per Tessalonica e spingeva il cavallo al galoppo.

    Diede un ultimo sguardo alle sue spalle, per poi dare di talloni all'animale. Doveva fare in fretta. Aveva un altro lavoro urgente da sbrigare a Costantinopoli.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 21:32]




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    Lord Spif
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    Scudiero
    00 15/07/2013 12:13
    [SM=x1140522] bellissima come sempre...
    Vabbe mi tocca tener chiuso la sala delle torture pe un altro mese [SM=x1140476]
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    Danilo.92
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    00 20/07/2013 16:06
    Re:
    Lord Spif, 13/07/2013 02:55:

    Sono in piena astinenza preso Danilo prepara le lame perche ora a cerbero se non continua lo scortichiamo vivo [SM=x1140442]
    [SM=g27964]




    Sono già pronte in attesa del prossimo ritardo [SM=g27980] [SM=g27963]




    "Non condivido la tua idea, ma darei la vita affinché tu la possa esprimere" - Voltaire(?)
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    ~ Cerbero ~
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    00 18/08/2013 12:47
    Capitolo XI
    Lame nella nebbia




    Strada per Trento, 24 marzo 1175.

    [IMG]http://i42.tinypic.com/nlv3ew.jpg[/IMG]

    Mancavano pressapoco venti miglia per scorgere i cancelli di Trento. La strada correva davanti a loro verso nord, seguendo la salita dei prati e delle alture e schivando i boschi di pini, abeti e caducifoglie che qua e là si avvicinavano alla via, allontanandosi di molto dalle radici delle montagne, dov'erano più fitti e scuri. I profili delle cose, nitidi e delineati da vicino, sfumavano man mano che si spaziava con la vista in lontananza, fin quando anche le stesse masse di rocce e alberi e terra svanivano inghiottite nella fitta foschia. Era circa mezzogiorno e il sole era nascosto dalle nubi e dalla nebbia, che davano un'impalpabile sfumatura plumbea ad ogni cosa.

    Non potevano vederli, ma più in là, sulla strada che proseguiva inconsapevole e noncurante il suo cammino, vi erano i nemici, pronti a sbarrare loro il passo.

    Sebbene il Marchese Renier Dandolo avesse già dato inizio ai preparativi della spedizione per conto proprio, conscio com'era dell'importanza di riprendere la roccaforte di Trento agli imperiali del Duca di Baviera, gli ordini del Doge erano comunque arrivati due mesi prima da Venezia.

    "… È vitale, perciò, che Trento venga riconquistata e i germanici vengano cacciati dai passi. Non possiamo permetterci, in un momento nel quale la Repubblica è fatalmente impegnata con tutta se stessa nella guerra contro Bisanzio e nelle colonie d'Oriente, vulnerabile com'è il suo centro, che le difese alpine vengano penetrate dal nemico germanico. I valici devono essere riconquistati e gli imperiali tenuti al di là delle Alpi e lontani dal Veneto.

    Milano, dal canto proprio, saprà fare buona guardia ai suoi di valici. Nonostante i nostri alleati non siano in guerra con l'Impero, il Barbarossa è un sovrano infido ed ambizioso e tutta l'Italia deve stare allerta, perché l'aquila è sempre in agguato.

    A voi dunque, nostro fido Marchese di Verona, l'arduo compito. Marciate appena pronto a nord, riprendete Trento e assicurate le strade, a qualunque costo".


    La settimana precedente, ultimati gli allestimenti ed i preparativi, durante una rossa alba, Renier Dandolo e Riccardo Natale si erano messi in marcia alla testa delle loro forze. Sotto lo sguardo del castellano provvisoriamente nominato da Ranier, di sua sorella, la bellissima e altera Maria, moglie del nobile Riccardo, e delle poche sentinelle lasciate a custodire il castello, quasi ottocento soldati veneziani erano fuoriusciti dai cancelli di Verona, lasciandola svuotata.

    [IMG]http://i42.tinypic.com/2a0f5ac.jpg[/IMG]

    Avevano percorso la lunga strada che si inerpicava a settentrione con cautela, in formazione densa e chiusa, preceduta da una prudente avanguardia e da guardinghi esploratori. Sapevano che il nemico era a conoscenza della loro avanzata e che avrebbe potuto attaccarli in qualunque momento o tendere loro qualche sanguinosa imboscata.

    In effetti qualche sparuta schermaglia sui fianchi c'era stata, condotta da piccoli e guizzanti manipoli di cavalieri germanici. I nemici avevano sperato di trovare una colonna veneziana frammentata in piccole compagini che avanzavano in disordine, facili e grasse prede per loro. S'erano invece trovati di fronte ad una solida massa di centinaia di fanti, protetta da arcieri e pavesi, che marciava compatta, ed erano stati scacciati con facilità.

    Renier Dandolo conosceva la fama di uomo impaziente e spregiudicato che caratterizzava il Duca di Baviera. Aveva perciò confidato nel fatto che gli imperiali, forse sotto la personale guida dello stesso Duca o semplicemente condotti dai capitani ai suoi ordini, avrebbero evitato di essere stretti in un lungo ed incerto assedio e si sarebbero mossi per incontrarli in campo aperto e risolvere la faccenda in un unico scontro. Non poteva negare che, se fosse stato sconfitto, una succulenta opportunità si sarebbe presentata ai nemici: Verona, Padova, Ferrara e il resto del Veneto completamente sguarniti.

    I tedeschi, sebbene inferiori nei numeri di più di un centinaio di uomini, avevano il vantaggio strategico di costringerli sul campo che preferivano, a seconda di dove avrebbero sbarrato loro il passo sulla strada, ed avevano il vantaggio tattico della cavalleria pesante. Un enorme vantaggio che – Renier se ne era persuaso – il Duca di Baviera non avrebbe esitato a sfruttare per aprirsi con un solo colpo di maglio le porte della Pianura Padana. Le forze veneziane, infatti, erano quasi unicamente composte da fanteria – solida ed affidabile com'era quella italiana, questo era vero, ma pur sempre fanteria.

    Poche ore prima, nel mezzo della mattinata, gli esploratori l'avevano infine informato che il nemico era poco avanti, schierato a battaglia, in attesa.

    Il momento era giunto, ed una determinata tensione si stava impadronendo di lui.

    La situazione sarebbe stata davvero a loro sfavore, se non fosse che il Cielo aveva voluto diversamente, mandando loro quella provvidenziale nebbia. La foschia poteva rivelarsi un arma a doppio taglio; ma, se utilizzata opportunamente, poteva rivelarsi la chiave della vittoria.

    Renier ringraziò Dio con una brevissima preghiera silenziosa. «Chiamate a consiglio i miei capitani. Dobbiamo sfruttare a dovere questa nebbia che ci ha mandato la Provvidenza» ordinò ai suoi attendenti.

    *


    Il capitano Heinrich da Innsbruck imprecò tra i denti. “Maledetta nebbia! Proprio nel momento peggiore! Basterebbe un briciolo di sole per vederci qualche cosa e spazzare via quei cani con una carica... Dobbiamo stare attenti. Quel Dandolo non è uno sciocco. Se fallisco il Duca mi strapperà la pelle mentre ancora sono lì che gli balbetto le mie scuse”. Il castello di Salisburgo non era famoso per i suoi ospitali ambienti e la sua cortesia, piuttosto lo era per le sue segrete.

    «Tu!» chiamò in tono perentorio. «Gli esploratori sono tornati?».

    «No, capitano» rispose il sergente. «Per lo meno, non che io sappia».

    «Cosa aspetti, allora!? Muoviti, vai a controllare! E se non sono arrivati, mandane giù degli altri. Dobbiamo assolutamente sapere dove si trovano i bastardi veneziani».

    Il soldato corse via ad eseguire i nervosi ordini di Heinrich.

    “Idiota!” si concesse di pensare. “Se perderò questa battaglia sarà perché sono circondato da perfetti idioti”. Guardò le possenti cavalcature dei suoi cavalieri in armatura, che erano in attesa lì intorno, emettendo qualche nitrito ogni tanto e brucando un po' d'erba. Si rincuorò. Sebbene non fossero i temibili destrieri da guerra dei nobili e dei loro seguiti, quei cavalli erano comunque alti, forti e resistenti. E con sopra un buon uomo in cotta di maglia, scudo a goccia e lunga lancia di legno, potevano rivelarsi altrettanto micidiali.

    Ripeté a se stesso per l'ennesima volta: “I veneziani in pratica hanno solo fanteria, non possono vincere. Nessuno vince in campo aperto senza cavalleria pesante. Nessuno”. Quasi gli si aprì in bocca un timido sorriso di soddisfazione, pregustando già il probabile trionfo.

    Verso le tre del pomeriggio ancora nessun esploratore aveva fatto ritorno. I soldati germanici erano pronti da parecchio tempo, le cotte di maglia e gli elmi già indossati, i cavalieri in sella sui propri animali. Un certo nervosismo cominciava a serpeggiare in quell'attesa, sospesa ed indefinita come il velo di nebbia che ricopriva ogni cosa.

    Il capitano Heinrich scrutava apprensivo l'insondabile orizzonte. Era lì lì per mandare un intero battaglione in avanti, cosicché almeno qualcuno potesse tornare a dargli notizie del nemico, quando il suono lontano di un corno si fece strada attraverso la foschia. E sottili, scuri profili di lance, stendardi e uomini presero a balenare incerti, appena visibili agli occhi degli imperiali, qualche centinaio di metri in avanti.

    Un'eccitata frenesia, sottolineata dallo scalpitare degli zoccoli e dai nitriti dei cavalli, prese Heinrich ed i suoi uomini. Finalmente il nemico! Finalmente quegli sfuggenti bastardi si decidevano a mostrare le loro brutte facce. Avanzando in formazione per un attacco frontale, per giunta. Semplici fanti contro quattro compagnie di cavalieri in armatura.

    “Poveri sciocchi” si galvanizzò il capitano, preso da un brivido di esaltazione. Come spesso accade agli uomini, il sollievo e l'eccitazione di poter finalmente vedere e conoscere ciò che prima era celato nel dubbio, e di sapere che non vi era più inquieta attesa tra loro ed il momento fatidico, rese i soldati del Duca di Baviera audaci. Ma altrettanto ciechi, e – se possibile – ancor più di quanto non fossero stati prima. E chi doveva essere il più accorto tra di loro, il loro comandante, finì per essere il primo degli imprudenti.

    «Fanteria, prepararsi ad avanzare. Cavalleria, avanti!» gridò Heinrich ai suoi, dando di speroni al proprio cavallo.

    I cavalieri germanici si mossero in avanti rapidamente, passando da un affrettato trotto ad un galoppo contenuto. Le confuse forme di qualche lancia apparivano e scomparivano ancora là dove si trovava il nemico. I corni imperiali suonarono la carica e i cavalieri in armatura mollarono tutti i freni alle loro cavalcature. Heinrich si muoveva e respirava in un tutt'uno con il caracollare del proprio animale.

    Ancora uno, due, tre secondi e dalla nebbia sarebbe emersa la faccia atterrita di qualche fante veneziano, il fianco di un altro, lo scudo di un altro ancora e dopo avrebbe lacerato i loro corpi e visto il loro sangue scorrere. Questione di secondi. Mise la lancia in posizione, imitato dai suoi uomini.

    Ecco che i cavalieri germanici galopparono inarrestabili con le aste acuminate spianate davanti a sé. Solo per fendere la nebbia.

    Continuarono ad avanzare per qualche decina di metri, ma non trovarono un nemico da caricare. Rallentarono interdetti, in molti voltando lo sguardo verso il loro capitano, anch'egli confuso e indeciso. «Signore, dove sono...».

    Una freccia si piantò fulminea e potente nel corpo del soldato che aveva aperto bocca, sbalzandolo dalla sella. Un nugolo di altri dardi la seguì, generato dalla foschia grigiastra, e si abbatté sulle compagnie imperiali in un clangore di ferro contro ferro. Molti gridarono di dolore, alcuni non ne ebbero neanche il tempo.

    Preso alla sprovvista e nella concitazione del momento, Heinrich spronò il cavallo e gli uomini a riprendere la carica nella direzione da cui era provenuta la raffica, mentre le ultime frecce si conficcavano nel terreno lì accanto o trovavano le membra degli uomini ed i fasci di nervi e muscoli dei destrieri.

    Stavano ancora galoppando nella nuova direzione, quando un'altra sibilante e letale pioggia di dardi eruppe sul loro fianco destro, falciando l'ala della loro formazione in corsa ed arrestando la loro avanzata. Confusi e intestarditi, si volsero nella foschia di un quarto di giro e ripresero a cavalcare, nuovamente seguendo l'improvviso cambio di direzione. “Non è possibile! Sembrano ovunque!” s'agitò Heinrich, mentre una freccia si conficcava innocua nel suo scudo a goccia, al centro dell'occhio dell'aquila imperiale impressa sopra.

    Macinarono un altro centinaio di metri, spersi nella fioca visibilità del mondo intorno a loro. Altre due raffiche di dardi, provenienti obliquamente da entrambi gli estremi dell'orizzonte, colpirono le due ali della compagine germanica, assottigliandone le fila con un sibilo glaciale. “Dannazione! Quei cani sono aiutati dal demonio!”

    Ormai la confusione era totale. Le frecce arrivavano come lampi da tutti i lati della linea dell'orizzonte, partorite da una nebbia diabolica quanto coloro che vi si nascondevano dietro. I cavalieri non sapevano dove voltarsi, non indovinavano né dove muoversi né da quale parte sarebbe giunto il prossimo dardo e neppure in quale direzione levare lo scudo per proteggersi. I cavalli nitrivano ormai atterriti, sentendo il pregnante odore del sangue dei loro simili che prendeva a tingere l'erba, ognuno contagiato dalla paura degli altri. I germanici riuscivano a stento e a fatica ad impedire che rompessero completamente la formazione.

    Improvvisamente Heinrich udì il lontano e lugubre suono dei corni veneziani e, voltando la testa alle proprie spalle, vide balenare per un attimo l'oscuro profilo di un gruppo di figure a cavallo che si allontanava, immergendosi nella nebbia verso il luogo dove lui e i suoi uomini a cavallo avevano lasciato indietro la propria fanteria. Gli giunse sommesso ed attutito il rumore di urla e stridii metallici. “Maledizione! Li abbiamo lasciati troppo indietro. Dobbiamo assolutamente soccorrerli!”.

    Sebbene non avesse potuto vederlo coi propri occhi, l'immagine dei comites dei due nobili signori veneziani che irrompevano, lancia in resta, contro le impreparate fila dei lancieri lotaringi e dei sergenti corazzati era vivida nel suo istinto di soldato.

    [IMG]http://i41.tinypic.com/346q92f.jpg[/IMG]

    Così come quella della strage nelle fila dei suoi che ne sarebbe conseguita.

    Una parte dei cavalieri imperiali superstiti, guidati da attendenti che evidentemente, nella confusione, avevano preso ad agire di propria iniziativa, si volse e prese a raggiungere la propria fanteria sotto attacco. Prima che Heinrich con gli altri potesse fare lo stesso, altre frecce richiamarono la sua attenzione in avanti.

    Una flebile e fugace folata di vento aveva intaccato le coltri della nebbia, rendendole meno dense e rivelando finalmente la linea del nemico veneziano, dispiegata tra alcuni alberi, da cui erano scoccati i dardi.

    [IMG]http://i44.tinypic.com/oqvi53.jpg[/IMG]

    Heinrich, frastornato dalla mutevolezza degli eventi, il cui fracasso rimaneva racchiuso tra le pieghe di quel fosco sipario che aleggiava sull'ambiente circostante e – se possibile – ne veniva accresciuto, era indeciso. Non sapeva cosa fare. Caricare con gli uomini che gli rimanevano la linea veneziana, o tornare indietro a sventare gli attacchi fulminei portati contro i suoi fanti? Non riusciva a decidersi, non riusciva a concentrarsi quel tanto da permettergli di ragionare un attimo ed elaborare una tattica più o meno adeguata. Mentre attorno a lui, le frecce, quelle sì decise e senza la minima esitazione, apparivano e scomparivano tra i rivoli di nebbia, intaccando la superficie delle cose, vive, morte o inanimate che fossero.

    *


    Qualcosa lo teneva bloccato al terreno, impedendogli di trascinarsi via da quel luogo. Sentiva la gamba sinistra schiacciata contro il freddo suolo, un peso opprimente che gravava sull'arto e che l'aveva ormai reso insensibile talmente era anchilosato. Fece l'ennesimo, goffo ed inutile tentativo di scostarsi e liberare la gamba.

    Il capitano Heinrich da Innsbruck, dopo tre infiniti secondi di acuto dolore, rinunciò nuovamente al tentativo e si abbandonò sfinito con la schiena sulla terra, ispirando avidamente l'aria dalla bocca spalancata.

    Il suo cavallo era stato abbattuto da una freccia ed era caduto con lui sopra ancora in sella, rovinandogli addosso ed imprigionandogli la gamba. Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso né da quando si era ritrovato così, ancorato al terreno, né da quando le grida della battaglia che infuriava tutt'attorno si erano smorzate. Sentiva pulsare la spalla, là dove un penetrante bruciore ed un rivolo di sangue sottile ma continuo segnalavano la presenza del fusto di un dardo, profondamente conficcato nella sua carne. Non aveva più l'elmo. Qualcuno – non ne ricordava neanche il volto talmente rapido era stato l'accaduto – con un fendente di lancia gliel'aveva scalzato dalla testa, la lama dell'asta che gli aveva reciso il sopracciglio e lasciato una ferita poco profonda allungata sino all'inizio del cuoio capelluto. Gocce di sangue gli offuscavano la vista dell'occhio destro. Si sentiva intontito e confuso, sperso, tanto per cambiare.

    Così come spersi e confusi si erano ritrovati gli imperiali in una battaglia che avevano voluto perché sicuri di vincere con il vantaggio della loro numerosa cavalleria. Ma la nebbia aveva inghiottito tutti, uomini e cavalli. E quando si era fatta meno densa, risputando i cadaveri ed i sopravvissuti, aveva semplicemente reso un po' più nitidi gli attacchi fulminei e sfuggenti di un nemico complice della foschia.

    I veneziani avevano attaccato il centro germanico con improvvise cariche della guardia personale del Dandolo e del Natale, alternate alle raffiche dei dardi scoccati dai loro sagittari.

    [IMG]http://i40.tinypic.com/51sgp3.jpg[/IMG]

    Poi i reparti di cavalieri in armatura imperiali, quando erano ormai decimati e, nonostante ciò, avevano risalito per l'ennesima volta gli incerti pendii offuscati, quasi alla cieca, per cercare di ingaggiare i vili avversari, si erano ritrovati stretti tra la formazione della fanteria veneziana ed i comites.

    [IMG]http://i44.tinypic.com/ibdizl.jpg[/IMG]

    Private dunque del supporto della loro cavalleria infine distrutta, le compagnie di lancieri imperiali, anch'esse provate e sofferenti, erano state circondate su ogni lato dal soverchiante numero dei fanti nemici ed annientate con metodica inesorabilità.

    [IMG]http://i42.tinypic.com/2rrkifl.jpg[/IMG]

    Gli ultimi fuggitivi, due ridicoli gruppi di arcieri contadini, se l'erano data a gambe tra la nebbia che, finalmente, quasi consapevole di non servire più, si stava alzando, inseguiti dai cavalieri di Renier Dandolo.

    [IMG]http://i40.tinypic.com/wqu24y.jpg[/IMG]

    La giornata si era rivelata disastrosa per i germanici, mentre il nobile veneziano aveva conseguito una vittoria decisiva, che gli spalancava le porte ad una facile riconquista di Trento e gli permetteva di adempiere alla missione affidatagli dal Doge, sbarrando nuovamente il passo alpino che conduceva in Germania, dove l'aquila aveva il suo nido.

    [IMG]http://i44.tinypic.com/316aff6.jpg[/IMG]

    Heinrich vide due figure confuse che stavano ritte in piedi, sopra di lui. Un mantello scarlatto e oro avvolgeva una delle due. Le sentì scambiare qualche parola.

    «E di lui che ne facciamo, mio signore? È il capitano dei nemici».

    «Sembra ancora vivo... Rimuovete il cavallo. Estraetelo da là sotto e speditelo a Salisburgo, dal suo Duca, perché sappia cosa ne è stato del servo che aveva mandato a Trento. Non curatevi di mantenerlo in vita. Tanto, se mai sopravvivesse al viaggio, probabilmente non sopravviverà al suo padrone».

    «Come comandi, mio signore».

    Heinrich comprese che avevano appena disposto del suo destino, in una manciata di secondi, con lui presente ed ancora cosciente lì davanti a loro. Un moto di rabbia lo fece rabbrividire per un istante, ma subito si spense, sfinito nelle membra. Ed in un momento di rassegnazione, con chiara lucidità, sperò di non arrivare vivo a Salisburgo.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 21:35]




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    .Dedo.
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    Cavaliere
    00 18/08/2013 14:24
    stupenda,ogni capitolo sempre meglio! ma che fine hanno fatto i reduci genovesi?
    ----------------------------------------------------
    FORZA JULES! SONO CON TE!

    "What is it that makes a great soldier? Is it his brain or his heart?" SSG Matt Baker

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    ~ Cerbero ~
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    Fante
    00 18/08/2013 16:20
    [SM=x1140430]

    .Dedo., 18/08/2013 14:24:

    ma che fine hanno fatto i reduci genovesi?


    Tranquillo, a suo tempo ricompariranno pure loro. Che li ho salvati a fare, sennò? [SM=g27960]

    [Modificato da ~ Cerbero ~ 18/08/2013 16:20]




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    Seth Heristal
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    Scudiero
    00 18/08/2013 20:15
    Complimenti, leggendo sembra un romanzo storico!

    In pratica tu scrivi la storia, e poi ci giochi attorno* (salvo imprevisti di gioco); è la "rivoluzione copernicana" delle AAR [SM=x1140476]

    *ho un deja-vù scrivendo questa cosa [SM=g27982]



    --------------------------------------------------

    Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova ad avere dei mescitori che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, allora accade che se i governanti resistono alle richieste dei cittadini sempre più esigenti, sono denunciati come tiranni.
    E avviene anche che chi si dimostra disciplinato è definito un uomo senza carattere; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato; che il maestro non osa rimproverare gli scolari, e costoro si fanno beffe di lui.
    In questo clima di libertà, e nel nome della medesima, non vi è più riguardo nè rispetto per nessuno. In mezzo a tanta licenza, nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia...

    PLATONE, IV secolo a.C.

    - - - -

    Utente di youtube commenta un video di un team coreano femminile di danza:

    "TO THE FAPCAVE!"
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    ~ Cerbero ~
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    00 19/08/2013 17:59
    Sì, più o meno. Diciamo che il gioco mi permette di spaziare molto con la trama e spesso mi dà anche buoni spunti. Alcune volte è la trama a piegarsi al gioco, altre volte è il contrario. [SM=g27963]




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    Danilo.92
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    Fante
    00 22/08/2013 12:54
    [SM=x1140522]




    "Non condivido la tua idea, ma darei la vita affinché tu la possa esprimere" - Voltaire(?)
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    Francesco Forel
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    Barone
    00 15/10/2013 11:24
    Cerbero, quando uscirà la nuova versione di Machiavello potresti fare una nuova AAR con Venezia, ambientata nel 400.
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    ~ Cerbero ~
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    00 23/10/2013 00:36
    [SM=g27963]
    Potrebbe essere un'idea: il Rinascimento è uno dei miei periodi storici preferiti e Venezia a quel tempo raggiunse il suo apogeo. Ma prima aspetto di vedere la nuova versione di Macchiavello - per la quale, tra parentesi, vi faccio i miei auguri di buon lavoro. Al momento poi, sto ancora lentamente scribacchiando qualcosina di questa.




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    ~ Cerbero ~
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    Età: 33
    Fante
    00 23/10/2013 01:18
    Capitolo XII
    S'incendia la tempesta




    Roccaserrata, 6 aprile 1175.

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    L'abbazia fortificata di Roccaserrata, nelle vicinanze di Trieste, era assediata dalla sera incipiente e dal mare. Il possente complesso, un munito insieme di mura, torrette, stalle, laboratori ed edifici di culto, si aggrappava immobile ad un modesto promontorio, mezzo erboso e mezzo roccioso, che dominava i flutti da un lato e l'entroterra dall'altro. Poco più a valle, una o due leghe più a nord, un porto cinto da spessi terrapieni e salde palizzate di legno ospitava una ventina di galee legate agli ormeggi. Un massiccio torrione in pietra vigilava sugli attracchi, con un'aria resa minacciosa dalle sottili feritoie a forma di croce. Livide nubi occupavano il cielo, annullandolo nel grigio della loro distesa. Su tutto cadeva un leggera pioggia.

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    L'abbazia era uno dei tanti quartieri di proprietà dell'Ordine Marciano, le terre coltivate e coperte da basse macchie e piccoli boschi che la attorniavano uno dei molti benefici feudali ad esso assegnati. Ma tra i tanti, Roccaserrata era forse il principale possedimento marciano lungo tutta la costa orientale dell'Adriatico e, dopo il quartier generale di Rialto, a Venezia, la prima delle sue sedi per fervore di attività e concentrazione di potere. Da lì, l'Ordine controllava gli altri suoi domini sparsi per l'Istria e la Dalmazia.

    Per quasi due secoli, il promontorio aveva ospitato un piccolo convento di frati benedettini, che con la loro devota ed infaticabile opera avevano portato avanti la coltura e la bonifica di quei luoghi. Il passare del tempo, tuttavia, aveva assottigliato le loro fila; carestie, scorribande di pirati, predoni e signorotti dalmati e magiari avevano fatto il resto: alla soglia del 1150 il convento era l'ombra di se stesso, le terre brulle e incolte, gli edifici macilenti ed in rovina, i pochi monaci vecchi e stanchi. L'abbazia era dunque passata nei possedimenti dell'Arcivescovo di San Marco, che non se ne era curato quasi per niente e che alla prima occasione – la costituzione dell'Ordine – se ne era liberato inserendo anch'essa nel vasto insieme di benefici e terre da assegnare ai marciani. I monaci e i cavalieri dell'Ordine avevano rinominato il posto Roccaserrata ed avevano portato nuova linfa all'insediamento, ristrutturando le costruzioni del convento, ampliandole di molto, fortificandole con difese che stringevano l'intero promontorio. Contadini migranti e coloni, provenienti dai dintorni di Pola e dal resto dell'Istria, s'erano uniti ai monaci marciani nel mettere a frutto la terra, felici di aver trovato di che vivere e prosperare alle dipendenze di un pio ordine monastico e non di un tirannico feudatario, protetti dalla nuova roccaforte e dal suo braccio armato. Il porto poi, che serviva una parte consistente della flotta dell'Ordine, ma che era utilizzato pure come banchina commerciale, aveva portato ulteriore lavoro e popolazione.

    Con la luce ormai all'imbrunire e i contadini già ritirati nelle proprie abitazioni, i monaci in preghiera dietro le spesse mura di pietra della grande cappella, l'abbazia appariva un luogo di silenzio sospeso. Il mormorio del mare che si strusciava contro gli scogli copriva i richiami che le sentinelle armate si mandavano di tanto in tanto, le fioche luci dei fuochi che illuminavano merli e monofore.

    Il Gran Maestro Giovanni Dandolo sedeva alla scrivania della sua camera da letto presso gli appartamenti a lui riservati nell'ala più nuova dell'abbazia, intento a scrutare pergamene e rapporti alla luce delle candele. Su un angolo del tavolo, delicatamente abbandonato alla stessa maniera con cui nella mente si accantona con fare premuroso un'idea o un guizzo di pensiero, forse utile in tempi futuri, stava un manoscritto. Rilegato in pelle scarlatta, portava un titolo vergato in greco: con tutta probabilità era di fattura bizantina.

    Bussarono contro la spessa porta di quercia, all'altro capo dell'ampia stanza.

    «Avanti» consentì lui.

    Una delle due sentinelle che stavano di guardia ai suoi alloggi entrò. «Mio signore, un uomo... Roberto Selvo dice di chiamarsi. Vorrebbe vederti». Il tono era incerto, come incerta e diffidente doveva essere stata l'espressione sul volto della guardia quando gli si era presentata davanti la figura di quel serale visitatore, immaginò il Gran Maestro con un pensiero divertito.

    «Fallo entrare» disse, aggiungendo poi mentre la sentinella stava già tornando sui suoi passi: «Non sarò disturbato ulteriormente stanotte».

    «Certo, mio signore» annuì l'altro ubbidiente, per poi allontanarsi.

    Dopo un attimo, una scura figura passò l'uscio della camera. L'uomo era alto, la corporatura si intuiva possente sotto le nere vesti in cui era paludato, le labbra e la mascella volitiva circondate da una corta peluria, la parte superiore del volto celato all'ombra del cappuccio. Se lo tolse, rivelando un volto squadrato ed un capo i cui bruni capelli erano quasi rasati, nonché un paio di occhi freddi e sicuri, dello stesso colore grigio del mare.

    Giovanni Dandolo sospese infine la lettura del rapporto che teneva in mano e volse lo sguardo su di lui. Un leggerissimo sorriso, la cui profondità era appena intuibile, gli increspò le labbra per un momento di silenzio. Poi riprese la sua tipica espressione ambigua, s'alzò della sedia e si diresse a scrutare il buio orizzonte da una delle piccole monofore. Nel farlo, indicò all'altro, con un gesto che voleva dire “serviti pure”, la caraffa di vino ed il calice che stavano sulla scrivania.

    Continuando a guardare la sera di fuori, lo salutò a suo modo: «Ce ne hai messo di tempo. Ti aspettavamo già due mesi or sono».

    Roberto Selvo, noncurante dell'inconsistente rimprovero, si tolse il pesante mantello scuro e si servette del vino, nello stesso calice da cui – ne era certo – poco prima aveva bevuto il Gran Maestro.

    «Percorrere la strada del ritorno è stato molto meno agevole di quanto credessi. Ci sono stati dei contrattempi che non avevo messo in conto...» disse senza la minima traccia di prostrazione nella frase. «Mio signore». Aggiunse le ultime due parole con tono insinuate, le pieghe di quel basso suono di velluto che era la sua voce pronte ad adombrare docilità od ubbidienza o scherno o qualcos'altro.

    «Ebbene?».

    «Ho portato a termine gli ordini che mi avevi assegnato. Tutti e tre. Devo dire che è stato quasi divertente a Costantinopoli. Ho dato quel foglio tanto prezioso al tuo frate farmacista che si sta già dilettando in questo stesso momento. Sembrava quasi che mi fossi presentato con una scheggia della vera Croce talmente mi guardava in modo estatico». Diede in una breve risata.

    Il Gran Maestro annuì compiaciuto e celatamente sollevato, liberandosi finalmente in cuor suo di quella fastidiosissima spina di sospesa tensione che si portava dietro ormai da sette mesi.

    «Contrattempi, hai detto?» lo interrogò un poco curioso.

    «Sì, mio signore. Il viaggio è stato quasi più semplice nelle terre dei romei che non nelle nostre. Lungo il tragitto del ritorno, presso Tessalonica, ho perso tempo a tappare alcune bocche che potevano dimostrarsi dannose. Poi ho passato settimane nella regione di Durazzo ad aggirare le soldataglie bizantine che razziavano qua e là. Una compagnia di cavalleggeri m'ha persino scoperto ed inseguito per giorni prima che riuscissi a seminarla, ma nel frattempo mi aveva costretto a riaddentrarmi sulle montagne dell'Epiro, dalle quali ero appena disceso. Per raggiungere la città, Durazzo, mi ci è voluta un'eternità. Ed una volta arrivato finalmente là, mi sono ritrovato i cancelli sbarrati e le guardie che non mi facevano entrare dicendomi che potevo essere una spia o un sicario del nemico, quegli idioti!».

    La cosa divertì Giovanni. «Dio ha un grande senso dell'ironia».

    «Delle sue ironie Dio a volte potrebbe farne anche a meno».

    «E perché mai? Senza le sue ironie la vita sarebbe così noiosa e grigia. Va' avanti».

    «Non potendo prendere una nave a Durazzo, ho proseguito lungo la costa, sempre con molta cautela. Ho raggiunto Ragusa e da lì mi sono finalmente potuto imbarcare, giungendo qui».

    Il Gran Maestro annuì di nuovo alla conclusione del resoconto. Dopo un poco, indicò la pergamena che stava studiando poco prima, ancora lo sguardo perso nell'oscurità della notte incombente, incorniciata dalla finestra. «È arrivato ieri. Il rapporto del Cavaliere Capitano di Rialto. Ci comunica che Cipro e Creta sono ormai nel caos più totale: la popolazione continua la ribellione, le guarnigioni sono travolte o assediate. I bizantini hanno riconquistato buona parte della Grecia ed hanno ripreso Atene, sebbene la cosa gli sia costata molti e molti più uomini di quanto credessero. Il Conte Polani si è rifugiato con ciò che rimane delle sue forze a Malvasia: il castello è stretto d'assedio ma resiste, unicamente grazie ai nostri aiuti dal mare. Mentre Di Caprio... Di Caprio dovrebbe essere da qualche parte nell'Egeo settentrionale a dar battaglia. Per contro, i romei – come mi hai appena confermato – fanno incursioni nei territori di Durazzo e il popolo è nervoso, ma la situazione al momento è sotto controllo. Nel frattempo il mio caro fratello Renier non è stato con le mani in mano e ha schiacciato i germanici a Trento, chiudendo la strada delle Alpi e costringendo il Duca di Baviera a mangiarsi il fegato, con gran soddisfazione e grato elogio del Doge, per altro» concluse con palese falsa ammirazione. «Ah! Mio padre aveva ragione: il nostro Renier è proprio un virgulto d'uomo». Sogghignò un poco.

    «Almeno su una cosa tuo padre aveva ragione» disse Robeto Selvo con malizia e complicità, passando ad un tono più familiare rispetto al quello distaccato di prima.

    Giovanni rise per un momento e non badò alla variazione di registro adottata dall'altro, abituato com'era a quella teatrale commistione di ruoli che aveva luogo nei loro rapporti. «Vero».

    Volse lo sguardo sul volto del suo interlocutore e lo scrutò per qualche immobile secondo. «C'è un piccolo alloggio riservato per te: puoi farti accompagnare dai servi. Dopo un così lungo e faticoso viaggio immagino sarai molto stanco».

    Roberto Selvo intercettò con la punta della lingua una goccia di vino che gli era scivolata sul labbro superiore e posò il calice. Si avvicinò a Giovanni, a lenti passi. Gli strinse i fianchi tra le mani e chinò il capo un poco in basso, vicinissimo al volto di lui, le labbra dell'uno che quasi sfioravano quelle dell'altro. «Per niente...» sussurrò, prendendo a guidarlo con premurosa forza in direzione del letto.

    *


    Nello stesso momento in cui a Roccaserrata ci si accingeva a trascorrere la notte, per i più nel sonno, per alcuni in preghiera o di guardia, per altri nel piacere, il buio della sera ammantava d'oscurità anche le lontane acque dello Stretto dei Dardanelli. I marosi s'agitavano inquieti, prostrati dal freddo vento che spirava da nord. Le nubi scorrevano veloci nel cielo e si addensavano sempre più. Dagli squarci che lasciavano la luce della luna ricadeva a chiazze sulla crepata superficie del mare, tingendo le onde ed i flutti di sinistri bagliori che apparivano e scomparivano senza sosta. Le piccole luci di centinaia di fuochi e torce, pure esse prostrate dal vento e tremolanti, sfilavano lente poco al di sopra del pelo dell'acqua, in direzione nord-est.

    L'Ammiraglio veneziano Lodovico di Caprio, stretto nel suo pesante mantello per ripararsi dalla fredda umidità dell'aria, osservava la sua flotta avanzare a fatica, combattendo il vento e la corrente. Sia l'uno che l'altra giungevano prepotenti da est e, se non contrastati, avrebbero in poco tempo fatto scarrozzare le imbarcazioni contro la costa e le scogliere che cingevano quello specchio di mare obliquamente da ovest a nord e che si profilavano minacciose su entrambi i loro fianchi ed alle loro spalle.

    Stavano percorrendo l'angusto braccio di mare a nord della città bizantina di Dardanellia, da cui il luogo prendeva il nome, nel punto in cui lo stretto, come l'ansa di un fiume, virava bruscamente verso est e si profondeva in una curva a gomito quasi perpendicolare. Di lì a pochi minuti la flotta avrebbe doppiato il promontorio che stava sulla destra ed avrebbe disegnato una decisa virata verso oriente, per poi entrare nel secondo tratto dello stretto che portava all'imbocco del Mar di Marmara, là dove le coste gemelle di Tracia ed Anatolia si separavano, allargandosi in un più ampio specchio marino.

    Gli alberi delle galee, con le loro vele latine, non erano issati, essendo ritirati nella stiva, ed i remi da soli aravano ritmicamente le acque. Tutto era pregno del profondo e salmastro odore del mare, che di notte – l'Ammiraglio lo sapeva bene ormai, dopo un'intera vita passata sulle navi – si faceva così avvolgente da sembrare vivo.

    “Sono troppo vecchio per questo freddo” pensò sarcastico di Caprio tra sé. “E forse sono troppo vecchio anche per la guerra”. Non gli sarebbe affatto dispiaciuto trovarsi in quel momento nella sua grande casa di Venezia, nelle sue stanze, a godersi il tepore del fuoco del camino. Magari tenendo la finestra aperta, così che l'odore della salsedine potesse un poco entrare nella sala. Così da non avere nostalgia né dell'uno né dell'altro luogo, né del mare né della terraferma. In fondo lui era un uomo di mare ed era ben consapevole di non poter restare a lungo senza di esso. La cosa gli parve un buon compromesso per un vecchio marinaio qual'era e si ripromise soddisfatto, una volta finita la guerra, di trascorrere le sue serate di riposo e vecchiaia in quel modo.

    Ma la guerra continuava, infausta, crudele, infaticabile. E lui vi era nel bel mezzo.

    La flotta al suo comando era partita da Venezia all'incirca due mesi prima. Aveva percorso la rotta orientale cautamente, attraccando lungo il tragitto nei principali porti di Pola, Zara e Ragusa per incamerare vettovaglie, uomini ed altre imbarcazioni. Era poi giunta in vista del castello di Malvasia, all'imbocco del cui porto aveva distrutto la modesta squadra di navi romee che poneva il blocco. Entrata con la forza, la flotta aveva quindi raggiunto gli attracchi della roccaforte. Il castello era stretto d'assedio da un esercito bizantino e l'unica salvezza poteva provenirgli dal mare.

    Nel mentre Lodovico stava dando tutti gli ordini per sbarcare le tonnellate di provviste che ingombravano le stive delle sue navi, affinché rifornissero le vuote cantine del castello, un Giovanni Polani estatico, con un'aria di puro sollievo e di eterna gratitudine incisa sul volto severo s'era precipitato da lui, quasi correndo. Gli aveva stretto la mano e dato grandi e fraterne pacche sulle spalle. «Dio sia ringraziato! Siete i nostri salvatori!» gli aveva calorosamente gridato quando ancora non aveva finito di percorrere il molo.

    E dopo che il trasbordo era stato completato, il Conte della Zeta aveva cenato con il suo graditissimo ed insperato ospite, gustando per la prima volta dopo mesi del cibo che almeno avesse sapore di cibo e non di carogna o muffa. «Con tutti i rifornimenti che ci hai portato potremo andare avanti a resistere per un anno e più!» aveva sentenziato tutto contento. «Hai il nostro eterno riconoscimento, Ammiraglio».

    «Abbiamo solo fatto il nostro dovere» s'era schernito di Caprio.

    C'era rispetto tra loro due. Quasi inconsciamente l'uno guardava all'altro come se fosse la propria controparte sul lato opposto della barricata, nel mondo come nella guerra: Giovanni Polani era certo che, se si fosse dato al mare ed alla flotta, sarebbe stato un uomo niente affatto diverso dall'Ammiraglio di Caprio; allo stesso modo quest'ultimo aveva la divertita sensazione che, se il suo destino fosse coinciso con la terra e i cavalli e i castelli, egli sarebbe stato uguale al Conte della Zeta.

    La flotta, dopo appena tre giorni passati agli ormeggi di Malvasia, era ripartita, attraversando obliquamente il Mar Egeo e ben guardandosi dal fare scalo presso Creta, funestata com'era l'isola dalla rivolte popolari e del brigantaggio. Imboccato lo stretto, era proseguita fino a giungere all'importante porto romeo di Dardanellia, che aveva assaltato e devastato senza incontrare, con gran conforto dell'Ammiraglio, alcuna rilevante resistenza. Ma il loro vero obbiettivo era più a nord e non potevano perdere altro tempo per raggiungerlo.

    Costantinopoli. Gli ordini del Consiglio e del Doge erano chiari: Costantinopoli.

    L'Ammiraglio di Caprio doveva condurre la flotta più possente che Venezia avesse messo in mare dall'inizio della guerra direttamente in casa del nemico. Gli era stato comandato di penetrare lo Stretto dei Dardanelli, mettere a ferro e fuoco tutti gli approdi e gli insediamenti costieri bizantini, piccoli o grandi, nel Mar di Marmara ed infine giungere al Corno d'Oro. Ed una volta là, distruggere il porto della capitale romea e fare tutti i danni che sarebbero stati capaci di fare: abbattere le darsene e i magazzini, razziare le merci e saccheggiare, uccidere o catturare tutti coloro che capitavano a tiro, occupare postazioni utili e strategiche, finanche, se si fosse presentata la possibilità, a penetrare le grandi mura e dare fuoco ai quartieri portuali, se non addirittura all'intera città. Venezia voleva che il nemico fosse colpito nel suo centro nevralgico, che i bizantini tremassero e le genti della capitale fossero atterrite, che i magnati della Basileia scoprissero con amarezza e panico che la lunga mano di San Marco, nonostante tutto, era ancora in grado di giungere fin lì e ghermire loro il cuore.

    Ma Venezia voleva anche altre due cose. Voleva che, una volta per tutte, grazie alla distruzione del porto di Costantinopoli, fosse annientata la capacità bizantina di portare la guerra sul mare ed il proprio dominio delle rotte e delle acque fosse incontrastabile. E voleva pure rinsaldare lo spirito della propria gente: solo un'azione spettacolare come quella avrebbe riacceso gli animi e l'orgoglio ed avrebbe smorzato alla radice il malcontento che di giorno in giorno serpeggiava più virulento tra il popolo.

    L'Ammiraglio Lodovico guardò i marinai che stavano di guardia sulla sua nave, interrogandosi se anche nella sua flotta si celassero spire di quel malcontento. Si fece forza. Gli animi parevano saldi ed il morale alto. E difficilmente poteva essere altrimenti: una flotta coesa e portentosa, che avanzava inesausta, forte di più di trecento navi, poteva rinfrancare lo spirito di qualunque veneziano. Le navi erano quasi tutte tipiche galee sottili da guerra veneziane: formidabili imbarcazioni, mortalmente eleganti e leste, che facevano della propria manovrabilità e rapidità le loro armi letali. Le tipiche navi tonde dell'Europa settentrionale e centrale, i cog, con la loro panciuta stazza, erano sempre parse grottesche ai veneziani, così come i dromoni bizantini che, più che grottesche, parevano dei goffi e vetusti giganti. Forse solo i temibili drakkar vichinghi, il cui ricordo ancora vagheggiava qua e là nel Mediterraneo, spesso in storie e leggende, potevano essere tenuti in qualche considerazione da un veneziano. Ma, in ogni caso, i drakkar erano fin troppo rudimentali e barbari perché si potesse davvero pensare di paragonarli alle navi di San Marco.

    Le figure sottili e taglienti delle galee, animate dall'inesauribile rollio di migliaia di remi, solcavano, come dardi sulla superficie marina, i flutti con agguerrita fierezza. E pur faticando contro la corrente ed il vento, mantenevano la loro insidiosa dignità. Di Caprio le osservava con spirito amorevole e quasi paterno.

    Gocce di pioggia caddero sul suo volto, distogliendolo dai pensieri. Ben presto una fitta e fine pioggia prese ad animare l'aria e a discendere sulle acque dei flutti come sui legni delle navi. “Perfetto!” pensò niente affatto entusiasta. “Pioggia sui miei reumatismi”.

    Prima che potesse profondersi tra sé in una sboccata invettiva degna di un vero marinaio, la voce allarmata del suo capitano lo colse: «Ammiraglio! Ammiraglio, luci in vista a proravia, sul lato di dritta!». L'avanguardia della flotta, dove lui si trovava, proprio in quel momento era intenta a virare verso est e a doppiare il promontorio della stretta ansa, per poi percorrere il restante lungo tratto di mare che immetteva quindi nel più vasto Mar di Marmara. Lo sguardo delle vedette aveva quindi potuto per la prima volta spaziare sull'orizzonte orientale del grande canale e lì avevano scorto un folto assembramento di piccole luci che avanzavano sulla superficie dell'acqua.

    Preso dall'efficiente frenesia di chi governa una nave, di Caprio gridò di risposta: «Cosa sono e quante sono?».

    «Tante, signore! Navi, non possono che essere navi!».

    Navi!? Come poteva essere!? Come avevano fatto i bizantini a sapere della loro incursione navale in tempo per radunare quello che rimaneva delle loro forze in una flotta abbastanza consistente per affrontarli? Di Caprio non si capacitava. Forse era una squadra bizantina che ignara stava doppiando anch'essa lo stretto, nella direzione contraria. Sperò ardentemente che fosse così e che quelle imbarcazioni si trovassero lì per caso e che avrebbero fatto dietrofront e alzato i tacchi non appena si fossero accorte di loro. Se fossero stati in mare aperto, Lodovico, al comando di trecento e più galee veneziane, avrebbe riso di quei tozzi gusci di noce all'orizzonte. Ma lì, chiusi com'erano tra le insidiose coste dello stretto, in uno spazio che a mala pena consentiva il cauto passaggio della sua grande squadra navale, ogni piccola minaccia poteva dar luogo ad un grande pericolo. Specie se la minaccia era organizzata.

    Ma non poteva essere. Gli esploratori e le spie gli avevano assicurato che l'intero Stretto dei Dardanelli, il punto più pericoloso di tutta la rotta, era libero e sguarnito, così come, eccezion fatta per alcune sparute navi di pattuglia, lo era l'intero Mar di Marmara, e che non avrebbe sicuramente trovato ostacoli o resistenza fin sotto le mura di Costantinopoli. “Puzza di tradimento. Puzza di inganno” non riuscì a non pensare l'Ammiraglio, mentre il timore della fondatezza di quel sospetto in pochi secondi gli crebbe in cuore.

    Il suo capitano tolse ogni adito all'incertezza: «Sì, mio signore, non ci sono dubbi: una flotta di dromoni e galee. Avanza verso di noi. Ne conto approssimativamente una novantina».

    L'improvviso allarme della vedetta di poppa non fu altro che la conferma di cui Lodovico non aveva più bisogno: «Allarmi! La retroguardia segnala navi a meridione!».

    «Maledizione!» proruppe di Caprio in urlo tanto cavernoso da sovrastare il rumore del mare e della pioggia. «Quante!?» sbraitò alla vedetta.

    «Cinquanta o più, credono».

    Nella sua testa, con la velocità di un battito di ciglia, s'era già delineato con nitidezza lo schema della situazione. Una squadra navale, di dimensioni ragguardevoli, stava venendo loro incontro da nord-est, all'imbocco orientale dell'angusta ansa perpendicolare dello stretto, mentre una seconda, di poco minore nella consistenza, da sud-sud-ovest, all'altro capo della curva. La prima contro l'avanguardia veneziana, la seconda contro la retroguardia. Le loro intenzioni inmichevoli erano ormai fuor di dubbio. Il colpo di maglio sarebbe venuto dalla squadra più grande che sopraggiungeva da oriente, spinta dal vantaggio del vento in poppa e della corrente a favore. La seconda squadra evidentemente aveva il compito di tagliare loro la fuga, imbottigliandoli nello stretto, e di attaccarli alle spalle. Una trappola perfettamente calibrata, in un tratto di mare perfettamente insidioso. Un tratto di mare che l'Ammiraglio aveva preteso decine di volte che fosse tenuto d'occhio dalle spie e dagli esploratori e che ripetutamente gli avevano assicurato esser libero. Ma che libero non s'era infine rivelato.

    Le navi nemiche erano già tremendamente vicine: con tutta probabilità i bizantini, conoscendo bene quei luoghi familiari e sapendo dove li avrebbero incontrati e intrappolati, avevano navigato a vista protetti dal buio della notte e con i fuochi spenti, calcolando perfettamente i tempi. Li avevano riaccesi solo quando ormai la preda non poteva più fuggire o prendere adeguate contromosse.

    “Dannata sia questa fottutissima costa che ci impedisce di manovrare! Devo fare qualcosa o qui rischiamo un disastro!”.

    Ma che cosa? L'unica cosa che poteva fare era pregare che la sua flotta, la cui rapidità e manovrabilità era stata astutamente annullata dalla scelta del luogo in cui i bizantini stavano facendo scattare la trappola, forte dei suoi numeri resistesse all'attacco. Quei dromoni tuttavia, con il proprio bersaglio così inchiodato dall'incapacità di spaziare, assumevano ora le temibili sembianze di arieti lanciati allo sfondamento. E se quelle navi erano equipaggiate con il fuoco greco... Dio Misericordioso!

    L'unica manovra che potesse attuarsi per sperare di scampare ad un situazione come quella, o quanto meno salvare quanto più possibile della flotta, era priva di certezze di successo. L'avanguardia veneziana avrebbe dovuto ingaggiare la prima flotta nemica e tenerla occupata, tentando di resistere, mentre la retroguardia ed il centro dovevano fare immediatamente marcia indietro e cercare di sfondare la seconda squadra bizantina proveniente da sud, aprendo un varco a tutta la flotta e permettendole di lasciare lo stretto, ritirandosi nella salvezza del vasto spazio dell'Egeo, dal quale era appena giunti. Ma sarebbero riuscite le galee ad aprire una breccia nella formazione bizantina meridionale? Sarebbero riuscite soprattutto a manovrare per girarsi in tempo e condurre la controffensiva? E loro che stavano nell'avanguardia, sarebbero riusciti a sostenere l'impatto con la squadra bizantina orientale e a trattenerla perché non facesse scempio di un centro che nel frattempo sarebbe stato intento a rigirarsi?

    Lodovico di Caprio pregò Dio che li assistesse in quel momento fatale. Poi, in un secondo, gridò gli ordini: «Segnalate a tutta l'avanguardia: remi avanti tutta. Arcieri sui ponti. Formazione d'attacco! Ingaggiare il nemico a proravia!». Accertatosi che gli uomini s'erano subito accinti ad eseguire, diede i restanti comandi: «Segnalare invece a tutta la retroguardia e al centro: invertire la rotta immediatamente. Remi avanti tutta verso meridione, alberi issati e vele spiegate. Formazione d'attacco! Ingaggiare il nemico a sud e sfondare la linea!».

    Come un vespaio ronzante scatenato da un'improvvisa minaccia, l'intera flotta veneziana s'animò delle grida e delle imprecazioni dei marinai, dei richiami degli ufficiali, degli stridii del legno, dei remi e del sartiame. Su tutto il sibilo del vento e il frenetico rintocco della pioggia, mentre il suono dei tamburi che dava il ritmo ai rematori accelerava sempre più fino al parossismo. I remi artigliavano i flutti come le zampe di tante belve inferocite.

    Pochi minuti ed ecco che le massicce e scure sagome dei dromoni bizantini erano lì davanti a poche decine di metri. Le frecce dell'una e dell'altra parte già solcavano il cielo con il loro letale ronzio e mordevano la carne degli uomini.

    “Dio mio, sono già su di noi! Se anche la loro seconda squadra è così veloce, sarà addosso alla nostra retroguardia mentre ancora non s'è girata” ebbe il tempo di pensare di Caprio prima che l'inquietante mole di una nave nemica si presentasse loro davanti.

    «Virare ad est-nord-est! Ritirare i remi di dritta, presto!».

    I rematori del lato destro della galea fecero appena in tempo a ritirare i remi prima che il dromone bizantino vi si potesse avventare sopra spezzandoli. L'imbarcazione passò velocemente loro affianco senza riuscire a speronarli. Gli arcieri di entrambi i ponti si scoccarono contro furiose raffiche di dardi. L'inumano gemito del legno che si spezza li fece però loro voltare lo sguardo a sinistra, dove una galea veneziana non aveva fatto in tempo ad evitare il rostro di un dromone. La nave, con un esplosione di travi e schegge di legno, aveva ricevuto l'affondo nemico sul fianco. La prua del dromone penetrò in profondità, squarciò il ventre della galea, schiacciò le membra dei rematori del banco di dritta e spezzò letteralmente in due lo scafo. Le frecce, incendiarie e non, volavano in ogni dove.

    Mentre l'Ammiraglio osservava disperato la tragica fine dell'imbarcazione, i cui due restanti tronconi velocemente colavano a picco con il loro carico di marinai urlanti, chi aggrappato ad un remo, chi impigliato nel sartiame che scivolava giù, chi risucchiato sotto lo scafo nemico, un improvviso lampo rossastro accecò la notte e il mare.

    Per una frazione di secondo tutto divenne bianco attorno a loro. E l'orribile spettacolo giunse prima del raccapricciante odore della carne bruciata e delle strazianti grida degli uomini.

    Alla loro destra, un dromone bizantino, equipaggiato sulla prua con un grosso tubo metallico terminante in un enorme sifone, eruttò un fiume di fuoco liquido contro una delle imbarcazioni veneziane. La nave s'accese come un rogo, illuminando a giorno l'area circostante, ruggendo come un essere demoniaco. Il fuoco greco in pochi istanti disfece alla stregua di una foglia secca l'intera galea sottile, spargendo fiamme e scintille dappertutto. Subito il fuoco si propagò ad un'altra nave veneziana che si trovava troppo vicino a quel rogo, e poi ad un'altra ed un'altra ancora, in una sequenza infernale. Le navi veneziane erano troppo attaccate l'una all'altra, costrette com'erano dal loro numero in quello spazio angusto. I dromoni bizantini, checché attaccassero con le frecce, i rostri o il fuoco greco, non potevano mancare il bersaglio, il loro nemico impotente a manovrare e a scansarsi.

    Ovunque andasse con lo sguardo, l'Ammiraglio di Caprio non vedeva altro che la devastazione infuriare, il nemico aprirsi la strada tra la formazione veneziana come una lama s'apre la strada tra le carni, i dardi colpire uomini e acqua, i corpi galleggiare tra le onde e i remi, i legni infrangersi l'uno contro l'altro, rumori terribili ed inumani sovrastare la pioggia e l'ardente rombo del fuoco, le galee sulle ali estreme combattere impotenti con i remi spezzati la corrente e rovinare orribilmente contro gli scogli. Su tutto una sinistra e mortifera luce rossastra si spandeva ed artigliava le cose prim'ancora che fossero le stesse fiamme a farlo. La disfatta aveva un volto terribile e diabolico.

    Egli ancora non lo sapeva, ma al di là del promontorio che segnava il gomito dell'ansa dello Stretto dei Dardanelli, la situazione era la stessa, se non addirittura peggiore. La seconda squadra bizantina aveva ingaggiato la retroguardia mentre ancora le galee di questa, rese goffe ed incapaci dalla costrizione fisica in cui si trovavano, gli davano il fianco e non avevano ancora completato la virata. Fu come il lupo che si getta contro il ventre dell'agnello. I rostri distrussero quasi interamente la prima linea veneziana, mentre il fuoco greco prendeva anche lì a portare la sua rovinosa devastazione. La pioggia non aveva il potere né di spegnerlo né di attenuarlo, così come non ce l'aveva il mare, che anzi contribuiva assieme al vento a propagarlo. Dense ed enormi macchie di quella misteriosa pece greca che non poteva essere spenta dall'acqua si spostavano infuocate come tanti iceberg alla deriva, galleggiando sul pelo dell'acqua, incoronando i flutti dell'intero stretto di rosse fiamme fameliche.

    Di Caprio era attonito. “L'Inferno... È così che dev'essere l'Inferno...”. E loro ci sarebbero finiti presto, all'Inferno.

    Un tremendo scossone riverberò per tutto il ponte della sua galea e lo gettò a terra. La caduta lo fece riavere della catatonica disperazione in cui lo spettacolo l'aveva gettato. Si costrinse ad alzarsi e ad agire: doveva salvare da quel disastro quanti più uomini e navi poteva.

    Accorgendosi di un dromone bizantino che puntava su di loro, prese ad urlare gli ordini: «Attenzione! Remi di dritta, spingere! Virare a...».

    Non fece in tempo a terminare la frase. Nella concitazione non aveva notato che la prua di quel dromone montava uno dei terribili sifoni dei bizantini. Vide un bagliore rosso ed arancio scaturire dalla fauci spalancate di quel mostro, che altro non poteva essere se non un drago mitologico. “San Giorgio, salvaci!”.

    Poi il getto incandescente di fuoco greco investì in pieno la galea.

    *


    Alessio Comneno si allacciò sulle spalle il mantello purpureo. Un sole sanguigno stava sorgendo. Il tetro pensiero di quelle storie secondo cui l'alba di un sole rosso era segno che molto sangue s'era versato nella notte precedente gli agitò la mente. “Dobbiamo fare presto”.

    «Muoversi!» inveì contro la quarantina di cavalieri della pronoia che lo stavano scortando, la maggior parte dei quali ancora non era pronta a rimettersi in sella o addirittura s'era appena svegliata. Alessio poteva capirli: avevano cavalcato tutto il giorno precedente e tutta la notte. Neanche tre ore per far riposare i cavalli e le membra stanche e doloranti, che già li spingeva a riprendere la corsa frenetica. Ma dovevano fare presto.

    Una settimana prima il Synbasileus era a Malvasia, intento a seguire e dirigere le operazioni contro il castello tenuto dal Conte Polani. Era stato costretto a prendere in mano le redini delle operazioni militari dopo la vittoria di Pirro che era stata la presa di Atene. I veneziani che tenevano il capoluogo dell'Attica, nel cadere assieme alla città che difendevano, s'erano portati nella tomba tanti di quei bizantini che la presa dell'insediamento era costata all'Impero i due terzi e più della sua armata. Per evitare che qualcun'altro dei suoi generali incompetenti, sottovalutando il nemico, potesse distruggere, nella presa del castello, quell'altro loro esercito che assediava Malvasia, s'era recato là ed aveva preso il comando.

    Il morale era alto. Il castello sembrava abbastanza vicino alla capitolazione per fame e loro già pregustavano la vittoria grazie alla quale pure il Peloponneso sarebbe stato liberato anche dall'ultimo degli invasori.

    Poi era arrivata quell'enorme flotta. Alessio era rimasto sbalordito. Quella moltitudine di galee veneziane aveva sbaragliato in un batter d'occhio la loro squadra che poneva il blocco sul porto. Era attraccata ed aveva scaricato tanti di quei rifornimenti da permettere a Malvasia – il Comneno se n'era persuaso – di reggere l'assedio fino al Giorno del Giudizio.

    Ma la paura più grande gli aveva stretto il cuore quando, tre giorni dopo, quella mostruosa flotta era ripartita facendo rotta verso nord-est. E subito egli aveva presagito dove stesse puntando: Costantinopoli. La capitale dell'Impero era in enorme pericolo.

    Mandando rapidi messaggeri in avanti, anch'egli era montato a cavallo con la sua scorta, per raggiungere il più in fretta possibile Costantinopoli ed allestire disperate difese. Per tutto il viaggio l'opprimente terrore di non riuscire ad arrivare in tempo l'aveva tormentato e a ragion veduta: i cavalli non potevano competere con la velocità delle navi, specie se dovevano attraversare via terra tutta la Grecia e la Tracia.

    Quand'erano quasi in vista delle mura di Tessalonica, tuttavia, gli era venuto incontro un messaggero proveniente da Costantinopoli. Egli l'aveva informato di come il Megas Doux Romano Laskaris, comandante della flotta bizantina – o almeno di ciò che ne rimaneva dopo anni di guerra – lo salutasse e gli dicesse di non temere: erano già al corrente della minaccia che si stava avvicinando via mare, avevano radunato tutte le navi a disposizione ed avevano preso tutte le precauzioni che era stato in loro potere prendere. Sulla qual cosa, si avvide Alessio, il Megas Doux sembrava parecchio fiducioso.

    Molto più arduo gli era risultato comprendere, da quel poco che fu in grado di dirgli il messaggero, in quale modo a Bisanzio fossero venuti a conoscenza dell'attacco con un preavviso sufficiente a preparare una contromossa. Le spiegazioni su quel punto erano state piuttosto vaghe, riferendo di spie e vie oscure. Per un attimo gli era balenato alla mente il ricordo dei due assassini che mesi addietro avevano surrealmente visitato la sua tenda.

    Alessio aveva comunque proseguito a spron battuto per Costantinopoli, volendo essere là in quel momento fatidico di grande pericolo, la cui sorte non era affatto sicura né determinata. Aveva ordinato di fare quella sosta quando avevano raggiunto nottetempo la metà circa della strada che collegava Tessalonica alla capitale, mosso a pietà dai suoi uomini stremati.

    Ora aveva fretta di ripartire, quel pressante senso di urgenza che s'era improvvisamente rianimato alla vista di quell'alba rossa come il sangue. Stava per montare in sella, quando gli uomini lo avvertirono di qualcuno che giungeva cavalcando velocemente.

    Dispersa che fu la nuvola di polvere ed arrestato con un sonoro nitrito il cavallo in corsa, un messaggero dalla fronte sudata discese e si presentò al Synbasileus, mentre gli altri uomini si facevano il più possibili vicini per udire le nuove.

    «Mio signore! Mio signore Alessio! Ti porto notizie da Costantinopoli. Due notizie in effetti». Il tono dell'uomo era agitato.

    «Parla» gli comandò subito e senza preamboli.

    «La prima: una grande vittoria, mio signore! Una grande vittoria! La flotta dei veneziani è stata sconfitta e distrutta nello Stretto dei Dardanelli. Due terzi e più delle loro navi sono bruciate o sono affondate contro gli scogli, i loro uomini uccisi ed annegati. La nostra flotta li ha attaccati nottetempo di sorpresa, bruciandoli con il fuoco greco, sventrando loro gli scafi e spingendoli a rovinare contro le coste. La capitale è salva e non è stata toccata. Quel che rimane delle navi veneziane si è disperso ed è fuggito in rotta. Gioisci, mio signore: Costantinopoli è in festa!».

    Il grido di gioia dei suoi uomini riempì l'aria. Tutti si abbracciavano esultanti e si davano grandi pacche fraterne sulle spalle. Qualcuno persino accennò con la voce alcune note di una canzone.

    Il sorriso stava dipingendosi a forza anche sulle labbra del Comneno, ma egli si dominò. Con un brusco richiamo riportò il silenzio e chiese: «E l'altra notizia?».

    Il volto del messaggero si oscurò. Trovate le parole, dopo un secondo di silenzio riferì: «Il lutto accompagna la felicità per la sconfitta del nemico. Il cuore del povero Basileus Andronico non ha retto al sollievo e alla gioia portati dalla notizia. Egli è... morto, mio signore. È morto nel suo letto, davanti ai messi che gli avevano riferito della vittoria».

    Alessio rimase impietrito, così i suoi cavalieri. Sebbene per mesi avesse aspettato quella notizia, viste le condizioni di salute dello zio, non era comunque preparato ed accusare il colpo non era facile.

    Improvvisamente il messaggero si inginocchiò a terra davanti ai suoi occhi che lo fissavano interdetti, il capo chino, e scandì a voce alta, cosicché tutti i presenti potessero udire: «Salute a te, mio Cesare Alessio. A te che ora sei il Re dei Re, il Regnante dei Regnanti».

    I cavalieri romei, compresa in un attimo la situazione, levarono le spade al cielo e gridarono in coro: «Salute Alessio, Re dei Re, Regnante dei Regnanti!».

    Il Comneno rimase in silenzio, immobile come una statua di sale. Guardò negli occhi uno ad uno gli astanti. Poi, con passo deciso e silenzioso si diresse al suo destriero e con un balzo atletico montò in sella.

    «A Costantinopoli!» ordinò perentorio, lasciandosi dietro gli altri che stupiti si affrettavano a imitarlo. Lanciò immediatamente il cavallo al galoppo, cosicché il ritmo forsennato della corsa potesse coprire lo stordimento e l'inquietudine che gli avevano serrato l'anima.

    *


    Si svegliò e aprì gli occhi. Fasci di luce mattutina penetravano dalle piccole finestre monofore dall'arco a tutto tondo. Uno di essi rischiarava il pesante tavolo di legno al quale era seduto Giovanni Dandolo con indosso le vesti del suo ordine, intento a scrivere qualcosa.

    Roberto Selvo osservò per qualche secondo la figura china sulla pergamena, i contorni nitidi e definiti dal chiaroscuro originato dalla luce. Poi stiracchiò il corpo possente, nudo sotto le coperte del letto, emettendo un mugugno di soddisfazione. Non si alzò, rimase sdraiato nel letto.

    Erano passate poco meno di tre settimane dalla sera in cui era giunto là a Roccaserrata ed il suo soggiorno si era rivelato alquanto piacevole e rilassante. Aveva potuto riposarsi e rilasciare la tensione accumulata in mesi di missione in terra nemica. S'era rifocillato, aveva letto, era andato a caccia, aveva fatto qualche esercitazione con le armi, e non solo quello.

    «Ben alzato» lo salutò il Gran Maestro senza volgere lo sguardo dal foglio, la piega di un lieve sorriso che gli prendeva l'angolo della bocca. «Vedo che ti piace dormire di giorno e vivere di notte, a te. E in effetti, se così non fosse, non saresti tu».

    «Già» assentì quasi bonario Roberto. «Mentre tu vivi di giorno, vivi di notte e non dormi mai. Dovresti concederti più sonno».

    «Verrà il tempo in cui potrò concedermi tutto il riposo perso, al più tardi quando sarò morto».

    «Vorrà dire che un giorno di questi ti costringerò io a riposarti come si deve» lo minacciò scanzonato.

    Si godette per un attimo la pace di quel giaciglio, il calore delle coperte sulla pelle nuda.

    Inseguendo un pensiero distratto disse poi: «Anche se non ho mai voluto farti domande sulle tue trame, a volte mi chiedo il perché dei tuoi ordini».

    «Lo sai bene che se chiedessi ti risponderei. Cosa vuoi sapere?».

    «Nulla. Solo quello che ritieni di dirmi. E comunque non ho bisogno di sapere per compiere il mio dovere: puoi disporre di me come vuoi. L'hai sempre saputo». Gli lanciò uno sguardo complice. «Ma quello che mi incuriosiva, mentre tornavo dalla Grecia, è per quale motivo mi hai fatto salvare il Comneno. Solo perché lo puoi controllare meglio?».

    «Beh, ovviamente. Ed anche perché è ingenuo. L'hai notato tu stesso, no?».

    «Sì, non è troppo perspicace... Diciamo che l'ho visto abbastanza stupito all'idea che il Doge potesse farlo assassinare».

    «Appunto. Egli è un Comneno, cresciuto dai Comneni. Bravo ed impetuoso sui campi di battaglia, scomodo sul trono, sprovveduto tra le stanze di palazzo. Non è uno stupido, per carità, ma manca di sottigliezza» disse Giovanni con un vago gesto della mano sinistra. «Mentre Niceforo... Niceforo è uno sciocco, ma uno sciocco cui piacciono gli intrighi. E questa sua... infatuazione per l'intrigo – infatuazione per altro niente affatto corrisposta, direi – avrebbe anche potuto renderlo sospettoso e capace di intuire» gli spiegò. «Per questo te l'ho fatto salvare. Perché mi serve un Comneno sul trono di Costantinopoli. Questo Comneno».

    «Ti serve? Come ti servo io? Chissà poi per quale disegno...».

    «Oh, credo che ormai tu lo sappia già» insinuò con un sorriso sornione Giovanni, per poi alzarsi dalla sedia ed avvicinarsi al letto. «Chissà che cosa ti ho sussurrato all'orecchio in questo letto, nell'incoscienza del sonno... Quali segreti della mia anima ti ho rivelato, segreti sconosciuti persino a me stesso...» gli sussurrò. «E poi tu non mi servi. No... Di te io ho bisogno. Di te ho avuto bisogno sin da quel giorno a Rialto, quando ancora studiavo nella biblioteca dell'Ordine».

    Dalla finestra giunse il suono lontano del nitrito di un cavallo. Il Gran Maestro, scostatosi dal letto, si avvicinò alla monofora per dare un'occhiata.

    «Un messo, a quanto sembra» informò. Sulla sua fronte per un secondo si disegnò una piccola ruga, che Roberto notò. Dopo tutti quegli anni, sapeva perfettamente che quella ruga faceva la sua veloce apparizione allorquando il Dandolo o riceveva un motivo improvviso di preoccupazione o vedeva giungere il momento d'agire. Si chiese quale dei due casi fosse quello.

    «Torno subito». Il Gran Maestro uscì dalla stanza.

    Per venti minuti e più, Roberto Selvo poté continuare a godersi la tranquillità del letto, lo sguardo perso nei raggi di luce che piovevano nella stanza, la mano del braccio destro alzato sotto il capo che sonnolenta accarezzava il capo rasato.

    Poi Giovanni Dandolo rientrò con quel suo tipico passo che, sebbene fosse fermo e misurato, riusciva a trasmettere agli altri la fretta della situazione mantenendo la dignità della calma. «Vestiti, Roberto. Prepara le tue cose. Ho dato ordine di armare la galee al porto: partiamo immediatamente per Venezia».

    Roberto Selvo non fece domande. Sapeva che la spiegazione non avrebbe tardato a giungergli per bocca di Giovanni. Infatti, mentre si vestiva, questi, il volto tagliato a metà da una lama di luce che gli illuminava la bocca e il mento e gli celava nell'ombra il resto del capo, lo informò succintamente con tono imperscrutabile: «Di Caprio è stato sconfitto. Rovinosamente sconfitto. La flotta è stata distrutta dai romei nello Stretto dei Dardanelli».

    Roberto non disse niente, e così pure il Gran Maestro. Sapeva che altri dettagli su quegli eventi glieli avrebbe forniti più avanti.

    Quando uscirono sull'ingresso dell'abbazia, i cavalli già li attendevano, assieme ad un folto drappello di armigeri dell'Ordine Marciano e di muli carichi di bagagli. Roberto stava per montare in sella, quando alle sue spalle sentì provenire un tenue sferragliare di metallo contro pietra ed una voce rinsecchita e roca che gridava e mugugnava qualcosa. Un uomo, il torace nudo e schelettrico, il capo quasi completamente calvo, gli occhi infossati nelle orbite, veniva trascinato di peso da due soldati dell'Ordine. Le catene che gli cingevano i polsi e le caviglie tintinnavano contro i gradini di granito.

    Roberto non si scompose, issandosi a cavallo come se nulla fosse. “A quanto pare anche Niceforo Paleologo viene con noi” sogghignò tra sé.
    [Modificato da ~ Cerbero ~ 08/04/2014 21:53]




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